Per decenni il popolo italiano ha risparmiato più di qualunque altro paese sviluppato, facendo dell’accortezza e dell’avversione al rischio la propria bandiera. La ricchezza relativa, in rapporto al reddito percepito, era tale da costituire una sorta di fondo di garanzia per le famiglie, soprattutto per i più giovani, che potevano intraprendere la carriera lavorativa con un notevole grado di tranquillità finanziaria.

La “solidità” è stata la caratteristica principale del quadro economico nostrano: la scarsa propensione all’investimento, l’accumulo di risparmio sotto forma di beni immobili, depositi bancari e titoli di Stato, ha dimostrato che gli italiani attribuiscono alla sicurezza economica un valore molto elevato, essendo disposti a rinunciare talvolta alla possibilità di arricchirsi pur di ottenerla.
A giovarsi di questa tendenza, che ha radici più sociali che razionali, sono stati soprattutto gli istituti di credito, che hanno potuto disporre con grande tranquillità di somme ingenti, nella consapevolezza che quasi nessuno avrebbe dilapidato il proprio patrimonio, piccolo o grande che fosse.
D’altra parte le stesse banche hanno mantenuto per anni un profilo del tutto simile a quello delle famiglie, prediligendo investimenti sicuri e poco rischiosi, almeno fino all’avvento dei derivati, quando la grande illusione del facile profitto, proveniente dall’America, ha colpito tutti indistintamente.

 

L’inversione di marcia, come dimostra l’ultimo studio della Banca d’Italia sul tema del risparmio, non è affatto iniziata con l’attuale crisi economica.
Il dato che ha ottenuto maggior risonanza riguarda il risultato del sondaggio, per cui circa il 65% delle famiglie italiane dichiara di arrivare con difficoltà alla fine del mese. Per spiegare il fenomeno occorre un’analisi storica e fondata sui numeri, senza lasciarsi prendere da facili populismi, cercando risposte negli andamenti economici che hanno caratterizzato il nostro Paese negli ultimi 20 anni.
Un indicatore di riferimento in quest’ambito è la propensione al risparmio delle famiglie, ossia la percentuale di reddito disponibile (al netto delle tasse) che in media viene accantonata, mentre la parte rimanente viene spesa in consumi. Nel 1995 gli italiani risparmiavano in media il 22% del reddito, molto più dei nostri partner continentali, con le famiglie tedesche al 17% e quelle francesi al 16%.
Da quel momento in poi il valore si è costantemente ridotto, fino a giungere al 12% nel 2011, ben al di sotto della media dell’area Euro (14%), mentre in Francia e Germania il livello è rimasto sostanzialmente costante.
Tenendo conto del concomitante calo dei consumi nello stesso periodo, il fenomeno può essere spiegato esclusivamente attraverso la caduta del reddito disponibile, generata in parte dall’aumento della pressione fiscale (+10%) e dalla riduzione dei salari medi al netto dell’inflazione.
In buona sostanza, negli ultimi 20 anni gli italiani hanno continuato a lavorare come prima, percependo compensi sempre minori e pagando più tasse.

L’elevato livello di benessere diffuso nel nostro Paese, tuttavia, non è stato per molto tempo intaccato dalla crisi del risparmio. La ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, infatti, ha attenuato gli effetti del calo dei redditi, al costo di un capillare smantellamento dei patrimoni familiari, ma solamente per quanto riguarda il cosiddetto ceto medio.
Per le famiglie più agiate (in Italia il 10% di queste possiede il 45% della ricchezza nazionale), i tassi di risparmio sono rimasti costanti intorno al 30% ed in alcuni casi sono addirittura aumentati. La disuguaglianza distributiva acuisce l’impatto del fenomeno, soprattutto in assenza di meccanismi fiscali in grado di colpire con maggior vigore i redditi più elevati: proprio negli anni della crisi la categoria di famiglie più ricche è stata l’unica a veder aumentare la propria ricchezza netta.
La percentuale di famiglie in cui si riscontra un risparmio negativo, fenomeno che si verifica quando si consuma più di quanto si percepisce, ricorrendo dunque alla ricchezza accumulata, è aumentata in maniera esponenziale, passando dal 7,7% nel 1991 al 21,9 nel 2010. I giovani sono senza dubbio i più colpiti: il 36% degli under 35 spende più di quel che guadagna, supportato dalle famiglie di appartenenza.

A soffrire le conseguenze peggiori di questo scenario è proprio la fascia giovanile, dove il risparmio è praticamente un’utopia e solo una piccola percentuale di popolazione riesce a mettere da parte qualcosa, quasi sempre sotto forma di depositi bancari.
La discrepanza in termini di ricchezza netta accumulata tra i giovani e l’intero campione è abissale, pari a circa il 25%. L’incidenza di questa dinamica è quanto mai tangibile: le possibilità di costruirsi un futuro paragonabile a quello dei propri genitori si riducono costantemente, perché il patrimonio di famiglia viene utilizzato per i consumi attuali piuttosto che sotto forma di investimento, ad esempio per una casa. Si attiva così un circolo vizioso, visto che sono proprio gli affittuari a presentare le difficoltà maggiori in termini di reddito insufficiente.
A peggiorare la situazione contribuisce sicuramente la precarizzazione del mercato del lavoro, che aumenta l’incertezza sul reddito e deprime il livello dei salari. Le famiglie di provenienza, inoltre, non potranno certo sostenere i giovani per sempre, visto che la categoria dei pensionati ha riportato un peggioramento nei risparmi quasi paragonabile a quello dei giovani.

Sul piano macroeconomico, le conseguenze del mancato risparmio non devono essere sottovalutate. Gli accantonamenti delle famiglie, infatti, costituiscono il motore degli investimenti di un Paese, attraverso la raccolta gestita dagli istituti di credito che poi erogano i prestiti.
Nella fase attuale, già caratterizzata da una chiusura delle banche nei confronti di famiglie ed imprese, il netto calo dei risparmi non fa altro che alimentare un meccanismo perverso, in quanto a mancati prestiti corrispondono mancati investimenti, quindi meno ricchezza e soprattutto meno occupazione.
Individuare soluzioni a questo rebus è complicato almeno quanto individuarne le cause: la politica non è certamente esente da colpe, vista la direzione economica dell’ultimo ventennio, tra tasse elevate e supporto alla precarietà. Una fetta di responsabilità può essere attribuita all’Euro, soprattutto in termini di perdita del potere d’acquisto e di competitività internazionale dell’Italia, anche se la formulazione di un giudizio è difficile senza la comparazione con uno scenario senza la moneta unica.
Le vie d’uscita rimangono le stesse profilate per altre questioni: da un lato la crescita economica, attraverso l’incentivazione degli investimenti produttivi, dall’altro la redistribuzione del reddito, almeno parziale, con l’adozione di un sistema fiscale più leggero ma soprattutto più equo.

Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane al tempo della crisi, Banca d’Italia, febbraio 2013

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *