Nota… a margine del libro La cultura non basta, di Luigi De Luca. Contro l’industria della cultura.

L’altro giorno sono andato alla presentazione di un libro dal titolo La cultura non basta, di un dirigente culturale pugliese, Luigi De Luca.

Nell’invito c’era scritto:

Un libro contro l’industria della cultura e le burocrazie che la alimentano, contro la dittatura degli esperti, per recuperare spazio al fare artistico, al lavoro culturale, alla libertà di sperimentare nel qui e ora delle comunità locali.

Prima di entrare in merito alle questioni trattate dal libro e presentate nell’incontro che si è tenuto in uno dei castelli salentini e pugliesi più cool degli ultimi anni, ovvero quello di Corigliano d’Otranto, mi permetto brevemente di dire due parole sull’autore del libro.

E lo faccio non solo per far capire cosa ha fatto in questi ultimi 40 anni chi lo ha scritto, ma anche per rendere chiaro subito che questo mio tentativo di narrazione e di analisi vuole essere l’inizio di un confronto che mi sembra non ci sia più in Italia o, se c’è, resta in una annegante superficie. Un confronto che parta dalla reale assunzione di responsabilità, in un tempo e un luogo, qui e ora, dove si tende costantemente a evadere, a occultare invece il proprio operato e le proprie idee e motivazioni, declinando soprattutto agli altri la responsabilità delle cose.

Forse i confronti servono a poco ormai, in una società dove gli individui non sanno più gestire i conflitti, dove la solitudine è ormai la norma; forse accendere dei fuochi può solo spaventare ulteriormente. Ma allora cosa fare per provare a cambiare questo stato di cose così deprimente? Come si possono risvegliare le coscienze anestetizzate, questa incapacità che abbiamo tutti non tanto di esprimere la rabbia quanto di agire diversamente oggi, subito, per costruire un domani più interessante, più ricco, più bello? 

Bisogna affidare questa possibilità solo al mistero del percorso individuale?

De Luca è uno dei dirigenti culturali più importanti della Puglia. Ideatore di Salento negroamaro, ai tempi in cui era funzionario della Provincia di Lecce, poi Direttore dell’Istituto di Culture Mediterranee sempre della Provincia di Lecce, componente del consiglio di amministrazione del Teatro pubblico pugliese e Vice presidente dell’Apulia Film Commission (appena fu creata sotto la governance di Vendola). Ora dirige il Polo biblio-museale di Lecce ed è anche il coordinatore  regionale per gli altri poli pugliesi.

Un uomo di potere quindi o forse sarebbe meglio dire un uomo al servizio del potere.

Attenzione, non intendo offendere malamente, intendo porre solo l’attenzione sul fatto che i dirigenti (che restano mentre gli assessori o i presidenti passano), svolgono una funzione notevole nell’orientare azioni e scenari, ma spesso devono sottostare alle volontà dei politici di turno, alle loro bizze. Bisogna avere forza e pazienza per fare i dirigenti, lavorando nell’ombra, ingoiando a volte rospi e vermi che noi umani non possiamo sapere, sempre riconoscendo pubblicamente il valore dei loro prìncipi. Un politico, se lo baci, diventa infatti un prìncipe capace di princìpi altissimi che sanno solo fare bene alle comunità.

Eppure… i dirigenti o i funzionari (prima l’ho chiamato impropriamente così perché questa parola, dal sapore kafkiano, rende meglio, a mio parere, l’operato di queste figure) hanno trovato il modo di vendicarsi di questa loro subalternità.

Intanto guadagnano molto, poi viaggiano e incontrano (in tanti modi) persone interessanti, sostanzialmente amministrano e dirigono appunto le scelte e le metodologie e se qualche volta arriva una telefonata che male c’è? Un po’ di sopportazione e il gioco continua…

L’altra sera, a Corigliano, c’era anche Loredana Capone. Credo che non abbia bisogno di presentazione, specie ora che è stata nominata vice Presidente del nuovo corso del Pd.

Nuovo corso? La Capone sta in politica da molti anni, è l’unico assessore che è rimasta tale nelle varie giunte di sinistra prima al Comune di Lecce, poi in Provincia e poi in Regione Puglia.

C’è certo da avere paura di lei, una macchina di guerra, di voti, di bei princìpi appunto e di energia affabulatoria indefessa.

Il suo intervento, come sempre, è stato tutto uno spot a favore suo e della sinistra che a suo dire, pur con qualche lacuna, in questi anni ha investito molto in cultura e turismo e lo ha fatto con responsabilità e attenzione al territorio.

Guardiamo allora a questo Salento, anzi alla Puglia che, da anni, per il suo appeal prima nazionale e poi internazionale, può essere presa, per certi versi, ad emblema della situazione italiana, dato che il futuro economico del nostro paese sembra proprio quello di un immenso borgo per turisti… pieno di prodotti tipici, assolutamente di origine controllata.

Senza dimenticare naturalmente che l’Italia, paese mancato, resta la patria di una storica separazione tra Nord e Sud, con ancora forti differenze regionali.

Mi sembra, però, fondamentale una premessa prima di porre il focus su alcune questioni. 

Io sono un artista (piuttosto multidisciplinare) che ha fatto anche il direttore artistico, in alcuni casi all’interno di progetti che sono stati sostenuti dalle istituzioni, in altri in modo indipendente. 

Lasciamo perdere per il momento che cosa significhi su vari piani essere indipendente e perché lo si diventa. 

Se scrivo questo è per dare al lettore la consapevolezza che chi scrive conosce bene la storia, le questioni, i problemi e anche le personalità della scena culturale italiana degli ultimi 40 anni. Dico italiana perché non ho lavorato solo in Puglia.

Certo, l’autorevolezza non si conquista sulla base di semplici affermazioni: pur in tempi in cui la propaganda e l’autocelebrazione regnano sovrane, continuo a pensare che essa debba essere meritata attraverso le nostre opere, la nostra coerenza o anche incoerenza (se consapevole e perfino cercata), la nostra tensione.

Dunque, lascio al lettore la possibilità di  capire in vari modi se la mia prospettiva, lo sguardo con cui osservo, per esempio, l’evento di questa presentazione, è interessante per lui o meno.

Che dispersione scolastica c’è oggi in Puglia? Qual è il livello culturale generale delle persone che la abitano? In questi ultimi anni è cresciuto o è diminuito? Certo, bisogna tener conto che in tutta l’Italia si sta diffondendo sempre più un analfabetismo di ritorno, ovvero l’incapacità di saper addirittura scrivere (in modo comprensibile) o decodificare un testo e far di conto.  Pare che quasi metà della popolazione italiana sia in uno stato di semianalfabetismo.

Quanti libri si leggono o sono presenti nelle case pugliesi, e quanto si va al cinema e a teatro, a vedere mostre, concerti etc? È migliorata o peggiorata la qualità della produzione culturale?

Quanti artisti e operatori culturali, di diversa generazione, fanno la fame e, specie dopo il covid, sono stati salvati dal reddito di cittadinanza, che viene visto ancora come un’elemosina di stato e non come una pratica necessaria, in grado di mitigare almeno un po’ un mercato senza regole e diritti, in attesa che una legge nazionale del comparto (a cui si è lavorato negli ultimi anni) venga approvata?

Che rapporto c’è tra le generazioni, che cosa ha portato il turismo nelle profondità della vita individuale e collettiva? Quanto sport si fa?

Aldilà dei dati statistici che pure mostrano in maniera evidente il degrado culturale italiano, sia sul piano della quantità che della qualità della produzione culturale (nonostante la facilità digitale e i tanti festivalini presenti oramai quasi in ogni paese), mi preme centrare l’attenzione sull’atmosfera sociale complessiva che si respira nell’aria. Il CENSIS, d’altra parte, negli ultimi anni, ha fatto un ritratto impietoso di questa condizione. E voglio concentrarmi su questo perché il libro di De Luca propone il calore delle comunità locali come antidoto alla disumanizzazione del mondo capitalistico contemporaneo. 

Ma quali comunità? Lasciando perdere il fatto che le parole, come ha suggerito l’antropologo Giacché, presente anche lui alla presentazione, hanno perso ormai di valore, esistono oggi delle comunità ovvero dei luoghi dove le persone si conoscono non in modo superficiale, si frequentano e si sostengono reciprocamente non in modo superficiale, progettano insieme il futuro e sono capaci di gestire i conflitti fisiologici nelle relazioni umane in modo serio e costruttivo? Io non vedo luoghi o scenari di questo tipo, salvo rarissime eccezioni.

Del resto, lo stesso De Luca, in un’altra conferenza a cui ero presente, ha detto che nel nostro paese ormai ci sono solo macerie culturali e tanta solitudine…

Allora perché parlare o idealizzare una vita comunitaria che di fatto si è ridotta all’osso?

Si tratta di ideologia? Si tratta solo di un’ipotesi, di una proposta ad assumere una prospettiva locale piuttosto che globale? Si tratta di speranza? La famosa speranza cristiana o quella del sano ottimismo della ragione? O si tratta di miopia romantica? Qualcosa di cui la sinistra italiana soffre da tempo e di cui pure la lucidità Pasoliniana non è riuscita a liberarsi, se non prima di lasciare questa terra?

Scrivere un libro è un atto concreto. La sua fertilità dipende però dalla sua capacità di contenere e dunque esprimere una tensione alla ricerca piuttosto che un esercizio retorico. 

Siamo sommersi da guru di ogni tipo che indicano la strada, ma non c’è nulla di più forte e costruttivo della coerenza. Per coerenza non intendo rigidità, quanto la fedeltà alla propria coscienza (avrebbe detto Totò), al proprio onore, al proprio sentire. Perfino al proprio dubbio.

“Lo stato e il mercato hanno soppiantato i tradizionali legami di solidarietà costitutivi delle comunità. Lo stato attraverso i suoi funzionari e il mercato attraverso la propaganda hanno ridisegnato l’universo dei bisogni e delle aspettative di una umanità privata degli ancestrali punti di riferimento e trasformata in massa amorfa”, scrive nel suo libro De Luca.

Vero, ma, a parte il fatto che anche i funzionari hanno fatto propaganda al pari del mercato, chi sono questi funzionari? Lui non fa parte della categoria? Essi sono solo dei fedeli servitori dello Stato? Lo stato… quest’entità soprannaturale che sovrasta le nostre vite da secoli, operando ma anche mancando, senza però riconoscere il potere dell’assenza, il potere dell’immaginazione, senza coltivare alcuna nostalgia del futuro…

Nella presentazione del Dott. De Luca ho dimenticato di scrivere che egli è stato anche, e per molti anni, sindaco del suo paese natio.

Dunque, lo Stato. Qualcuno dice che stato e mercato siano ormai la stessa cosa; bisognerebbe però chiedersi perché si è arrivati a questo punto. Fisiologica deriva del capitalismo o dello sviluppo tecnologico? Oppure fallimento della politica e dimostrazione dell’egoismo umano e della sua immensa paura di vivere?

Sono argomenti troppo complessi, meglio scendere un po’ a terra, tornare a occuparci dello scenario salentino.

L’altra sera, mentre gli oratori disposti sul palco del castello (luogo con cui si difendeva la comunità o la si governava?) parlavano scandendo bene le parole, e tutto assomigliava candidamente a un crepuscolare studio televisivo, la comunità, lì sotto, restava in assoluto silenzio.

Mi colpiva, non meravigliandomi ma, lo stesso, scandalizzando le mie viscere, il tacito assenso soprattutto di diversi operatori culturali e artisti.

Questo è il punto. Quel silenzio lasciava che a criticare l’operato dello Stato ci fosse un suo rappresentante. Si sono presi pure questa cosa, della cosiddetta democrazia. Si celebrano, si impalmano, si criticano… e gli altri fermi a guardare, come se non riguardasse la loro vita, questo spettacolo.

Il fatto è che invece di una comunità, io vedo solo uno sfrenato individualismo tra gli operatori culturali, specie qui in Salento dove, a mio parere, regna l’autoreferenzialità, l’incapacità di investire e fare davvero rete (anche se tra le realtà sostenute istituzionalmente, ci sono complicità apparenti) e l’assenza di studio e ricerca profondi.

Non che il Salento, terra ricca di talenti, sia stato mai capace di esprimere un paesaggio complice e maturo, ma l’intensità dell’individualismo (e della solitudine?) raggiunti oggi è davvero impressionante. Tanto impressionante quanto celata da una pseudo vitalità frizzantina che appare all’esterno, o meglio che lo sguardo troppo spesso superficiale degli “stranieri” tende a vedere.

Gli stranieri per una comunità possono fare molto: possono aiutarla a crescere sia con lo sguardo ammirato che con quello critico. L’importante è che esso non sia superficiale, non generi solo aspettative ideali, impigliandosi poi nelle compiacenti risposte dei locali, che vogliono appunto soddisfare (inconsciamente eh) quell’immagine buttata loro addosso.

Non c’è niente di più vitale e interessante dell’incontro tra sguardo straniero, sguardo esterno e sguardo interno.

L’emigrazione, che ancora vogliamo vedere come apportatrice soprattutto di problemi, è (insieme all’amore) l’energia che move il sole e le altre stelle. Allarga gli orizzonti. O li restringe, confezionando, per esempio, la retorica del prodotto tipico che di tipico o di locale magari non ha più niente. La porchetta di Ariccia si fa con i maiali che vengono dalla Spagna, le fascine della Focara di Novoli non vengono più dai vigneti solo novolesi, la camorra o altre mafie hanno assoldato membri in giro per il mondo. E in questo miscuglio, in questo intreccio c’è la bellezza del mondo, la sua varietà… il suo movimento.

Tanti salentini, come me, sono emigrati e continuano a farlo. Sono anche tornati. Oppure vanno e vengono. Chi si è mosso, si è confrontato altrove, potrebbe portare dei benefici importanti alla terra d’origine. Se essa, però, non è tutta protesa a chiamare, a riconoscere prima di tutto gli stranieri. Questa è la patologia del provincialismo, così diffusa in Italia.

La rassegna negroamaro di qualche anno fa del nostro funzionario illuminato, era tutta influenzata da questa tensione: fare diventare il Salento una terra non marginale, una terra attraversata da intrecci e migrazioni. L’equivoco sta nel non aver capito che lo era già, che non basta portare gli artisti internazionali per ottenere questo status, o al contrario enfatizzare la cosiddetta  cultura delle  radici. Sono due comportamenti che, pur apparentemente contrari, portano alla stessa conclusione. Anzi direi hanno portato alla stessa conclusione. Uso il passato perché non si sono mai fatti bilanci seri su questa politica culturale (e turistica) adottata negli ultimi 30 anni. Qual è questa conclusione? La finzione.

Si finge di essere aperti, ricchi, pieni di amor proprio. Invece la situazione è un’altra: Il Salento /l’Italia non è più un paese aperto, ricco, capace di amarsi dalla fine degli anni ‘80. È diventato progressivamente un paese incapace di progredire perché incapace di guardarsi con profondità. Di essere onesto. È questo il motivo per cui la memoria non ha più una funzione, per cui si vive nella rimozione costante. 

Eppure noi italiani siamo pieni di sensibilità e abbiamo una mente creativa, dunque capace di abbracciare la complessità, come per esempio, la fertile convivenza della realtà con la finzione.

Siamo stati ingegneri del realismo, costruttori di fantasie uniche e potremmo ancora esserlo… Se non riusciamo più è perché ora siamo fuori di noi, sfasati.

Questa illusione a cui ci siamo consegnati è la causa del nostro degrado culturale e dunque economico. Non riusciamo a uscire da questa impasse perché siamo stanchi (come lo è tutta l’umanità del resto) e viziati dal virtuale.

La mentalità di Negroamaro è stata ed è ancora quella che ispira l’operato del potere. 

Gli operatori culturali si sono adeguati, senza quasi mai opporsi, anzi sono diventati gli strumenti, gli interpreti principali di questa visione. La parola visione forse è inopportuna, ciò che ha mosso e muove la classe dirigente, come tutti noi, sostanzialmente è l’interesse economico. Meglio far venire le produzioni romane o internazionali a girare in Puglia che costruire un’industria audiovisiva locale, meglio fare la produzione esecutiva pensando di prendere subito dei soldi che investire nelle proprie idee, nei propri desideri, nelle proprie esperienze. Meglio far girare gli spettacoli degli attorucoli, dei comici televisivi, dei giornalisti che credono di essere delle star invece di promuovere una ricerca teatrale capace di strutturarsi, di crescere e far crescere col tempo le sensibilità e la cultura di un territorio. Meglio far venire le rockstar internazionali e fare i grandi concerti che promuovere sul serio la musica dal vivo in ogni luogo, affinché il suono possa entrare nelle nostre anime. Meglio andare sul sicuro e sul veloce!

Attenzione, non sto praticando una visione localistica, ombelicale del mondo. Tutt’altro! Non c’è nulla che mi interessa di più dell’incontro tra mondi diversi, tra sguardi lontani, come la mia vita professionale, e non, dimostra.

Il punto è che offrire il proprio territorio e la propria esperienza/dignità solo per guadagnare un po’ di soldi, è un atto tragico, senza sbocco. Prima o poi quest’attrazione finirà, se non si è in grado di offrire altro, di mettere in campo sempre le solite cose. Se non si investe.

Così, la cultura italiana, al di là dei soldi, procede verso un declino che è proprio figlio di questa passività, di cui il cinismo (consapevole o meno) è uno degli esiti più consueti.

Al termine della serata ho avvicinato Luigi De Luca chiedendogli un incontro pubblico nel quale confrontarsi, visto che lui ha scritto nel libro e ripetuto più volte durante la serata che i dirigenti devono ascoltare gli artisti. Mi ha subito detto di si, che mi avrebbe mandato l’elenco delle tappe con gli altri incontri di presentazione affinché io potessi scegliere la data, ma finora non ho ricevuto niente.

L’ho anche invitato nella mia casa/studio che da un po’ di tempo provo ad aprire ad altri artisti e al pubblico, quale esso sia. So che la comunità che vive intorno a me dovrebbe essere il primo interlocutore. Il fatto è, come scrivevo prima, che le comunità non esistono più. Esistono individui un po’ allo sbando; spesso sono quelli più sofferenti a cercare ancora il contatto col potere dell’arte e della cultura. Per il resto questo paese vive in una poltiglia di superficialità puzzolente, altro che leggerezza.

Non aspetterò De Luca, che finge di esser buono e interessato, disponibile. Ha imparato così bene il suo mestiere, a contatto stretto con la politica, che non basta la sua crisi (in parte sincera) per portarlo a cambiare stili di vita.

Bisogna lasciarlo andare, lasciare che la sua volontà sociale marcisca nella sua incoerenza.

Non ho, infatti, mai visto De Luca a teatro, al cinema o a una mostra, in tanti anni, eppure egli scrive e parla con convinzione del potere salvifico dell’arte; così come parla della povertà ingiusta degli artisti.

Qualche giorno fa l’Archivio Carmelo Bene che lui in qualche modo dirige, ospitandolo nel Polo Biblio-museale, ha espresso un bando rivolto ai giovani under 35. 

L’obiettivo è quello di far conoscere e incontrare l’opera di Bene con le nuove generazioni e i nuovi media. Un intento onorevole. Il bando, però, ha creato un forte malcontento per il fatto che il lavoro di questi giovani artisti non sarebbe stato in alcun modo riconosciuto economicamente. Segno che ancora qualcuno s’indigna e protesta.

Per me il problema non sta solo in questa mancanza di riconoscimento economico. Sta, leggendo sia il bando che osservando tutta la programmazione culturale proposta da De Luca in collaborazione con i suoi soliti interlocutori consolidati, in una metodologia che trovo superficiale per vari motivi. Mi piacerebbe entrare nel merito, ma poi questo articolo diventerebbe troppo pesante.

Mi avvio quindi alla conclusione. 

La preziosa e misteriosa vita individuale percorre strade che non è facile decifrare. 

Ho provato, l’altra sera, perfino della tenerezza per quest’uomo in evidente conflitto che vorrebbe amare gli artisti autentici eppure sceglie quelli che non creano problemi, che riconosce la funzione e la bellezza della ricerca ma va sul sicuro.

Che abbraccia le dimensioni storiche e quelle metafisiche dell’agire umano ma poi piega la sua direzione verso il contingente, verso l’amministrazione del già esistente. O, peggio ancora, si lava la coscienza con l’esotico, invitando artisti internazionali e di tendenza.

Da una parte c’è l’ideologia alta e dall’altra il mondo basso.

Forse io prendo troppo sul serio questo libro: si tratta solo dell’anelito spirituale di un piccolo funzionario di provincia, che alla soglia della pensione vuole nobilitarsi e lasciare un buon ricordo di lui; godere insomma di una serena vecchiaia confortata dalla stima della sua comunità e, perché no, anche di quella mondiale…

Il suggerimento di un uomo buono che si è speso per la comunità e non per la propria ambizione o vanità e che ha ingoiato tanti rospi prima di arrivare a liberarsi e riuscire finalmente a dire alla politica che sono stati fatti dei gravi errori… ora che può permetterselo.

E se anche il suo pentimento e il suo romanticismo fossero solo strumentali ad entrare nella cerchia degli intellettuali di sinistra che hanno tentato di riconoscere i mondi espressivi italiani più indipendenti, come Fofi, Giacché e altri, i quali si sono spesi in narrazioni apparentemente differenti da quelle del main stream, che male c’è? Questi intellettuali  si sono accreditati come testimoni di opere non facili, verso le comunità, e poi sono stati anche amici di Carmelo Bene.

Peccato, però, che Bene, che io ho frequentato in vari modi e che è stato uno dei miei maestri, riconoscesse i francesi Deleuze, Klossowski, Foucault, Derrida, Lacan, come interlocutori e mentori prediletti del suo lavoro, e non loro. Accanto a uno studioso italiano di grande spessore che si chiamava Maurizio Grande, purtroppo scomparso prematuramente, agli inizi degli anni ‘90, appunto, e che fu per lui un “rarissimo amico”.

Prima di andarsene Gaber ammoniva insistentemente: la mia generazione ha perso… 

Spiegava che non si trattava di gusto del catastrofismo a fargli dire questo. Gli importava solo che si riconoscesse qualcosa di sostanziale, perché solo riconoscendo una verità dolorosa, si può sentire in noi, forse, crescere una vera forza di cambiamento.

Prima di andare al castello di Corigliano, sono andato in un luogo che non conoscevo, a prendere dei pezzi di pietra leccese che regalavano, poiché avevano abbattuto una vecchia masseria alle porte di Lecce.

Arrivato al tramonto in questo posto un po’ fuori mano, mi sono trovato davanti una scena difficile da descrivere: sotto a una discesa, nei bassifondi della terra, un grande mucchio di macerie di pietra bianca, ancora viva, splendeva nella luce e nel vento salentino.

Accanto al mucchio, un uomo anziano, in silenzio, si prendeva cura del suo piccolo orto. 

Mi ha accolto con molta gentilezza e, pur non potendomi aiutare, mi spronava e consigliava mentre caricavo in macchina quelle pietre. Finito di fare quello che dovevo fare mi sono avvicinato a lui per lavarmi le mani al tubo che gli stava accanto e con cui irrigava la sua verdura.

Così abbiamo cominciato a parlare e, dopo un po’, mi ha raccontato che aveva perso suo nipote di 24 anni da poco tempo. Gli ho chiesto com’era successo, percependo il suo dolore e il suo bisogno di parlarne. Si è suicidato, mi ha detto, seccamente. 

Stava giù, gli psicologi non hanno capito niente. Era un ragazzo fantastico, sensibile, studiava ingegneria con grande passione.

Davanti a quelle macerie, ascoltando il suo racconto implacabile, ho pianto, voltandomi verso il sole per non farmi vedere da quell’uomo.

Ora sono un po’ più al sicuro, nella mia casa, le pietre le ho messe nel giardino. Due però le ho portate dentro e ci ho fatto una mensola, coi libri sopra.

Vorrei trovare la calma, qualcosa che non abbia rabbia dentro, ma prima di farlo mi viene da aggiungere: i funzionari non bastano… occorre che tutti noi, fratelli italiani, ci svegliamo un po’ da questa dolce apatia… 

In bocca al lupo a tutti noi!