In questa sospensione in cui siamo che, ho scritto la settimana scorsa, può anche essere vista come un momento magico, visto il piede nel vuoto e l’altro in punta, vorrei far partire il mio viaggio nel paesaggio culturale italiano, incontrando una giovane artista ed organizzatrice siciliana di Marsala: Rossella Marino. Non so se si può definire la Sicilia una terra sospesa ma certo, come scriveva Pirandello, qui, “seduti placidamente, si possono concepire enormità… oserei dire mitologiche”.

Oggi che abbiamo bisogno di concretezze, di verità, di fatti certi, i miti possono apparirci del tutto inutili a chiarirci le cose o ad aiutarci. Eppure, quando si è sospesi e si è un po’ più liberi dalla gravità, quando si è toccato il fondo con il proprio peso e si è lì lì per staccarsi in volo, ecco che, nel vuoto, l’attimo arriva a prenderci per portarci verso l’eternità. Dove ci condurrà questo attimo nessuno lo sa, ma magari potrà ricordarci che, in fondo, non siamo che corpi di passaggio Corpi, forse, sempre uguali a noi… stessi.  
Ma partiamo dai fatti.

–  Più di 2milioni di adulti italiani sono analfabeti totali, circa 15milioni sono semianalfabeti, altri 15milioni sono ai livelli minimi di capacità di comprensione e di calcolo, questi i dati presenti nel saggio di Tullio De Mauro sulla cultura italiana. Cosa ne pensi tu che hai trent’anni? Tu che stai studiando le Lettere Moderne della Facoltà di Lettere e Filosofie di Palermo?

Credo sinceramente che questi dati, come la percezione stessa di questo triste stato di cose, sia da ricondurre ad un alto tasso di “cecità” degli italiani. Ovviamente mi riferisco ad una cecità mentale, ancor di più emotiva, per cui il cittadino, il singolo soggetto, abbandonato lo spirito critico che lo rende (-rebbe) consapevole, si ritrova risucchiato dalla frenesia della contemporaneità in cui il lavoro è agognato ma irraggiungibile, le relazioni umane sempre più trascurate e ridotte a sterili scambi fugaci e la cultura dispersa tra i meandri di un web sempre più onnipresente ma spesso superficiale o comunque effimero.
Ritengo davvero che si dovrebbe prestare più attenzione alla qualità dei rapporti, dunque, alla fruizione della cultura e in ultima analisi (e questo ne sarebbe il risultato) alla qualità della vita. Inutile sottolineare l’inefficienza di una classe dirigente che, nonostante tutto, rappresenta davvero l’italiano medio. E noi (generazione di trentenni costantemente precari) siamo figli troppo poco irriverenti e rivoluzionari.
Un ritorno agli odori, ai sapori originari potrebbe rappresentare un inizio, una riscoperta utile e proficua per la nostra generazione e ancor di più per quella futura.

– Che cosa intendi con “ritorno agli odori, ai sapori originari”? E, in tutti i casi, quali concrete azioni metteresti in campo per cambiare il paesaggio culturale italiano?
Pensi che la cultura o meglio “l’addestramento” culturale debba tornare o raggiungere la televisione con programmi specializzati e finalizzati alla conoscenza e all’educazione scientifica ed estetica etc? O pensi che bisogna lavorare sulla rete, proponendo ancora di più piattaforme creative, distribuzione di opere etc sul web?

– Quando parlo di “ritorno agli odori, ai sapori originari” mi riferisco alla possibilità di una relazione più discreta e meno invasiva col web e con le televisioni per un utilizzo degli stessi mezzi quali mezzi, appunto, e non come luoghi virtuali in cui soggiornare comodamente negandosi un contatto con la realtà dei rapporti umani. Inoltre l’informazione che passa attraverso la rete o la tv necessita di essere filtrata. Passaggio troppo spesso sottovalutato
.
Il nostro Paese, che fino ad un ventennio fa si mostrava ancorato ai valori della tradizione e di questi ne faceva un baluardo per la conservazione della propria identità, ha subito il devastante fascino dell’americanizzazione prima, della globalizzazione poi.
Quelli che, in un tempo che appare ormai lontano, si presentavano quasi come dei principi identitari, hanno lasciato spazio all’ignoranza e alla baldanzosità (quella sì costante peculiarità dell’italiano medio).
E’ chiaro che proprio la tv, che sembrava essere una finestra sul mondo al tempo in cui esistevano programmi educativi e persino didattici, adesso risulta lo strumento più semplice e diretto per un plagio costante quanto subdolo.
Spegnare la tv, innanzitutto! Recuperare il tempo perso nell’alienazione che questa maledetta scatola genera. O, quanto meno, fare un’accurata selezione. Ma, onestamente, non nutro molta fiducia nelle programmazioni televisive, né tanto meno vaglio l’ipotesi reale di un’evoluzione di un sistema ormai marcio. Trovo, invece, che il web, seppure anch’esso ricco di insidiosi trabocchetti, sia più interessante da esplorare e da setacciare.
Anzi… proprio il web potrebbe essere sfruttato per migliorare la qualità della comunicazione (parlo di qualità e non di quantità), perché il suo fascino sta proprio nella possibilità di intrecciare una rete di relazioni di ampio respiro. Dunque, l’essere un “nickname” può portare ad un arricchimento non solo del singolo, ma anche della comunità, nel momento in cui tutto questo viene condiviso.
Considero il momento concreto in cui queste raccolte di dati vengono applicate nella società come la possibile realizzazione di una dimensione più articolata dell’uomo e del suo relazionarsi con l’altro.

– Non so perché ma quando parli di devastante fascino dell’americanizzazione prima e della globalizzazione dopo, penso ad una novella di Pirandello in cui un vecchio professore scrive tutta la notte la sua lezione su l’eresia catara contro i grandi nomi della filologia tedesca ma soprattutto contro la critica letteraria italiana che non aveva difeso la sua opera, celebrando solo quella straniera. Dopo un’intera notte passata a scrivere, alla fine, tiene la sua lezione ad un’aula vuota scambiando i cappotti appesi a sgocciolare per la pioggia con gli studenti…
Che metafora straordinaria e che profezia, Pirandello ha visto molte cose in anticipo…
Certo il problema non è non subire il fascino degli stranieri ma avere una forza che non ti fa naufragare di fronte al contatto. Mi riferisco a quell’autostima che ti fa incontrare gli altri, le cose senza cedere, disperdersi…
A meno che noi italiani non siamo degli “scalognati” (sempre per citare Pirandello) che hanno bisogno del vuoto per trovarsi, che tendono ad annientarsi per essere creativi…
Ma insomma torniamo ai fatti.
Credi che oggi ci sia più bisogno, di fronte ad un’opera artistica o creativa, di abbandono o di analisi? Di imparare ad orientarsi e a dare significato alle cose o di accettarle nel loro scorrere senza farsi troppe domande o darsi troppe risposte razionali?

– Indubbiamente c’è necessità di consapevolezza, dunque di spirito critico. Non trovo né utile, né tanto meno interessante, accettare le cose nel loro scorrere o usufruire di un’opera o di un’operazione artistica, senza la ricerca di un senso. Chiaro è che abbandonare l’approccio istintuale risulta anche controproducente. Ma credo fermamente che l’arte possa definirsi tale solo nel momento in cui coinvolga il suo fruitore con un iniziale impatto emotivo. Il passaggio ulteriore, dato dalla rielaborazione, non può essere trascurato, dal momento che rappresenta un corredo essenziale per la completezza della ricezione.

– Tu parli di “iniziale impatto emotivo” e poi di una rielaborazione alla ricerca di un senso.
Ma perché le concepisci come due fasi separate? Il processo da te auspicato sembra provenire da una visione dualistica, ovvero prima la pelle, il cuore, la pancia e poi la testa. Eppure, può esistere un pensiero emotivo, un impatto o percezione che tocca insieme la complessità delle nostre facoltà, facendoci riflettere e insieme lasciandoci immaginare o commuovendoci o disorientandoci etc… In questo senso abbandonarsi ad un’opera o trovarne idee, senso potrebbe essere la stessa cosa?
Ma, oggi, le persone sanno realmente abbandonarsi e/o leggere un’opera creativa?

– Mi esprimo su questo argomento servendomi di una visione dualistica, perché trovo che il fruitore medio di un’opera d’arte sia impreparato culturalmente ed emotivamente a recepire una visione unitaria, e dunque a rielaborare un’opinione completa del prodotto artistico.
Ho la sensazione che ci sia uno squilibrio più o meno latente nell’uomo contemporaneo che limita le sue capacità di analisi come quelle di ricezione. E davvero non capisco se oggi ci sia più la capacità di mettersi a nudo e assorbire il contraccolpo delle emozioni che scaturiscono da un’opera d’arte. Avverto un tendenziale congelamento dell’emotività. Nei rari momenti in cui si è disposti ad essere partecipi e coinvolti, forse, si tende all’eccesso, smarrendo la misura. Viene, così, trascurato l’approccio intellettuale, critico. Quindi avverto assente il fondamentale apporto dato dalla ragione. Cultura ed emotività hanno smesso di camminare di pari passo con conseguenze visibili e spesso disastrose.

– La città della scienza va in fumo a Napoli. Un’altra metafora, un altro messaggio così esplicito da apparire fin troppo didascalico. Eppure la camorra sa essere “sottile”. Chi l’ha distrutta la “ragione” in Italia? La mafia, la politica, la finta economia? Certo a guardarsi intorno, a vivere un po’ in questo paese, non si trovano che persone fintamente razionali che si proteggono emotivamente divenendo spesso apatiche o ciniche, oppure romantici infedeli, in continua fuga dalle cose. Mi sembra che sia un po’ la stessa cosa, chi sta nel dualismo passa da una sponda all’altra come una pallina sbattuta. Forse ci può essere un’infedeltà legata, un soggettivo-oggettivo più profondo che potrebbe farci stare meglio…
Ma torniamo sempre ai fatti.
Come vorresti che fosse l’università italiana? E in particolare il corso di laurea che tu stai completando?

– Le carenze di cui soffre l’università italiana sono molteplici. Credo che andrebbe rivalutato l’intero sistema, creando a livello politico e sociale una corsia preferenziale nei confronti della cultura e di coloro che ne sono i fautori. L’università come la scuola si sono trasformate in industrie di un non-sapere che sembra trovare giustificazioni nell’andazzo politico e sociale che vige nel nostro paese.

– Si, ma come vorresti che fosse concretamente l’università? Descrivimela…

– Si dovrebbe migliorare l’aspetto pratico di corsi di laurea umanistici non meno di quelli scientifici. Da sempre, nell’ambito didattico, l’italiano ha curato ed esaltato un approccio teorico nel tempo divenuto sterile. Il mondo contemporaneo è relativamente interessato ad un sapere manualistico, tende ad un nozionismo che si alimenta delle qualità tecniche. Ho sempre apprezzato, per indole personale, la formazione e l’istruzione realizzata secondo i criteri classici tipicamente italiani (di stampo umanistico). Ma nel dinamismo culturale contemporaneo avverto una forte carenza delle professionalità e una inadeguatezza preoccupante al mondo del lavoro di soggetti assuefatti ad un esclusivo contatto col libro. La lampante concretezza delle diffuse difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, dovrebbe essere l’origine di una doverosa rimodulazione dell’università italiana.

– Anche qui abbiamo subito il fascino pragmatico degli altri paesi senza accorgerci del nostro “patrimonio”. E senza riuscire ad essere come loro. Il libro in fondo è un atto concreto, un atto di “lavoro” ma molti libri sono staccati dalla “realtà” (ammesso che sia possibile dire cos’è la realtà) perché sono scritti da persone rinchiuse in se stesse o nel loro ambiente o in un privilegio un po’ sordo. Si parla molto in questi anni del degrado della ricerca per i pochi finanziamenti alle nostre Università ma mai si parla della presunzione e della pigrizia del corpo insegnante che non studia, non incontra i protagonisti della creatività, non si mette in discussione in un modo vitale, che non fa ricerca… I soldi così diventano l’alibi… Certo le cause di questa situazione sono complesse e molteplici…
Ecco, ma perché, per te, il rapporto tra generazioni si è quasi dissolto nel nostro paese? Intendo il rapporto di trasmissione profondo, che prevede uno scambio fertile per i “vecchi” come per i giovani…

– E’ chiaro, dalle risposte precedenti, il desiderio che coltivo di un ritorno alle origini. Ciò vuol dire che anelo ad un’attenzione maggiore alla qualità delle relazioni umane, considerata come continuo scambio tra le varie generazioni o all’interno di una stessa generazione.

– Si, ma perché, secondo te, questo è successo…

– Si è perso il gusto della conversazione, della conoscenza sincera e profonda persino dei propri familiari o del/la proprio/a partner. Il piacere di assaporare l’hic et nunc, senza aver fretta (per paura, a volte) di pensare al momento successivo.
L’essere isolana nel tempo mi ha insegnato ad ascoltare ed osservare. Trovo che queste, ancor di più oggi, siano tra le poche qualità che necessitano di reale cura e rispetto.

– Già l’ascolto. Meglio restare in silenzio allora. Proviamo a sospenderci in questa… sospensione, a chiudere gli occhi e a mettere il sole nell’ombra. Dalla Sicilia, prima tappa del nostro viaggio, ci viene il suggerimento a vivere il momento. La gioventù vuole questo e allora che lo faccia!
Se “i piedi sono il centro dell’espressività e comunicano le loro reazioni al resto del corpo”, presto dalla Sicilia potrebbe salire un fremito lungo lo stivale. Vedremo. Intanto la prossima volta saliamo noi, incontrando un’altra donna di lettere o forse un uomo in Puglia… o in Lucania. Ma si sa il viaggio…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *