Lo scorso mese di marzo è stato pubblicato un libro, “La mia vita dentro”, di Infinito Edizioni, che racconta la storia di un ex direttore di carcere, Luigi Morsello. Questo libro è stato variamente recensito e presentato (anche in Senato, a maggio scorso) e la recensione sul blog di Riccardo Uccheddu, scrittore a sua volta e laureato in filosofia, ha aperto le porte ad una lunga serie di commenti degli internauti relativi al tema carcere e giustizia. Ho letto tutti i commenti e ho creduto opportuno proporre una mia riflessione.

I delinquenti devono stare in carcere e, anzi, bisogna buttare la chiave. Detto altrimenti: i cattivi devono essere puniti. Oppure: il bene deve prevalere sul male. Basterebbe questo esempio per comprendere quant’è difficile, dal tempo di Hammurrabi, costruire un sistema giuridico al quale affidare il compito di rendere concreta un’idea così astratta come la lotta tra bene e male e, soprattutto, un sistema al quale affidare la tutela di quella tra le due forze contrapposte che in un dato momento storico un determinato gruppo di individui ritiene debba prevalere.

Infatti la giustizia, intesa come processo ma vedremo che questa è un’idea sbagliata, almeno formalmente, è sempre esistita. Presso gli Ittiti, gli Illiri, i Fenici, perfino presso i Visigoti e poi ancora presso i Greci, i Romani per finire con le dittature sovietiche, sudamericane, cinesi e nordcoreane. 
Il punto è a cosa deve servire il processo.
Noi tutti oggi riteniamo che i processi delle dittature, o quelli degli antichi Egizi, fossero ingiusti. Lo ritengono anche coloro che, sempre oggi, chiedono che i cattivi vengano messi in una cella e buttata la chiave. Eppure era esattamente ciò che quei processi facevano. Anzi, per risparmiare su vitto e alloggio dei cattivi, Pinochet li buttava nell’Oceano.
Aspettate ad arrabbiarvi: non voglio dire che c’è chi pensa che Pinochet fosse la soluzione. Leggete prima oltre: ci sono argomenti che non possono essere esauriti, correttamente, in 30 righi.
Nei diversi commenti che ho letto, tutti interessanti perché sinceri e dunque utili a capire quali sono i punti di vista, si mescolano idee filosofiche, idee giuridiche, utopie sociali e percezioni comuni. Anche i commenti tecnicamente sbagliati infatti hanno diritto a tutta la dignità perché se contengono degli errori di valutazione o nelle premesse, di questi errori dovrebbe – avrebbe dovuto – farsi carico l’informazione che, invece, non informa: dopo aver trasformato la giustizia in uno degli unici quattro temi attorno ai quali si dibatte la vita politica e sociale del paese (gli altri tre sono, nell’ordine: lo sport, il gossip con tendenza al sesso, le strategie economiche nazionali e internazionali) non ha fatto nulla, né vuole farlo, per mettere i partecipanti a questo dibattito in condizione di partire tutti dalle stesse conoscenze di base. Così come nulla fa per fornire conoscenze di base corrette sul tema delle strategie economiche. Cosicché tutti parlano, con la stessa disinvoltura, di sport, gossip, sesso, economia e giustizia. E su questo pentolone ribollente di tanto in tanto si scaglia l’anatema di questo o quel signor TV che distribuisce – lui in malafede – luoghi comuni, approfittando del tempo libero tra un incontro con una prostituta e uno con un capo di Stato estero.
C’è una differenza però: gossip, sesso e sport si possono anche semplificare tanto da far rientrare un discorso in 30 righi. Su giustizia ed economia, invece, l’Uomo ancora non ha sciolto tutti i suoi dubbi. E dire che ha cominciato a pensarci quando i primi abitanti delle Grotte di Altamira, in Spagna, nel Paleolitico superiore, ossia circa 35mila anni fa, si spostarono dal loro territorio ed entrarono in contatto con qualche altro uomo che, per prima cosa, tentò di rubar loro le armi, il cibo per poi ucciderli. La storia dell’Uomo comincia dunque con un reato. Anzi, per essere tecnicamente precisi, con tre reati uniti dal vincolo della continuazione e dal medesimo disegno criminoso: sopraffare l’altro. Chi erano, in quel caso, i cattivi? Ognuna delle due parti riteneva la sua azione giusta e indispensabile in nome dell’economia. L’economia della sopravvivenza.
Non la faccio tanto lunga: era giusto per ricordare da dove veniamo.
Ho letto, nei commenti, che secondo molti la giustizia non è uguale per tutti. Nessuno l’ha mai detto: la frase che campeggia dietro ogni giudice è “La legge (non la giustizia) è uguale per tutti”
La giustizia in quanto tale, infatti, non esiste. E’ il prodotto di due fattori: il diritto e il processo. Senza processo, ossia senza una convenzione, un accordo, sulle procedure da seguire, il diritto resterebbe una dichiarazione d’intenti vuota. Dunque il diritto è uguale per tutti. Per fare in modo che la giustizia sia uguale per tutti dovrebbe essere uguale anche il processo. Ma questo non è e non sarà mai possibile. Il processo è a sua volta composto di un insieme di regole (e, a proposito, c’è chi ha scritto nei commenti che sarebbe ora di cambiarlo: per carità! L’abbiamo cambiato appena vent’anni fa e il problema è proprio questo: lo cambiamo troppo spesso a seconda delle convenienze!). Un insieme di regole che possono essere invocate dall’imputato a seconda della capacità strategica dell’avvocato difensore. I “povericristi” hanno difese… stanche, a volte svogliate, e dunque vanno in galera. I “potenti” riescono a destreggiarsi tra le regole del processo in modo da allontanare il momento della condanna definitiva.
Inoltre non va dimenticato che la giustizia, in quanto prodotto di regole prestabilite, deve trovare una collocazione precisa: o è bianca o è nera. Eppure, invece, la realtà, come sappiamo, è quasi sempre grigia. Dunque, in teoria, la realtà non potrà mai trovare… giustizia. 
Questo allungare i tempi dei potenti finisce per sovraccaricare il lavoro degli uffici giudiziari che, alla fine, non riescono a concludere nei tempi previsti dalla prescrizione nemmeno i processi più semplici e così tutto il sistema salta.
E’ questa una delle cause dell’abuso di intercettazioni (è sbagliato renderle quasi impossibili come si vorrebbe fare, ma è sbagliato anche abusarne): l’intercettazione consente di affidare ad un nastro, invece che al lavoro degli investigatori, la raccolta delle prove. Naturalmente quel nastro, a differenza di un uomo, non pensa a distinguere tra ciò che viene detto e ci si ritrova con migliaia di ore di conversazioni intercettate che per giunta devono essere trascritte (per garanzia di tutti, per evitare che qualcuno faccia sparire cose utili a qualcun altro, tipo l’accusa che con il pretesto che alcuni passaggi non servono tagli elementi utili alla difesa) con costi enormi e con dispendio di tempi inaccettabile (i processi di mafia durano tanto anche per questo, per i litigi sulla correttezza nella trascrizione delle intercettazioni).
Inoltre, sempre per restare al processo, il nostro sistema è fondato non già sulla fiducia reciproca tra le istituzioni e tra queste e il cittadino. Ma sulla diffidenza. 
E’ il risultato di secoli di dominazioni straniere e di rapporti di subordinazione e sudditanza: il processo fu “concesso” dalle monarchie. Una concessione fatta al popolo in periodi di difficile convivenza e di rischio di rivolte. 
Il re si mostrava buono e concedeva la “garanzia” del processo. 
E questo è un altro dei punti dolenti: se il processo è garanzia, lo è sia per lo Stato- che così si garantisce in linea di massima di assolvere gli innocenti e condannare i colpevoli (ma non sempre accade, come è statisticamente ovvio) – sia per il cittadino che così si garantisce contro gli abusi dello Stato.
Ecco perché quanto più è grave l’accusa tanto più ci sono garanzie da rispettare nel processo. E basterebbe questo per rispondere a chi invoca la pena di morte: per una sentenza di condanna a 30 anni il sistema processo impiega a volte gli stessi 30 anni. Figuriamoci per una condanna a morte. L’imputato morirebbe di morte naturale senza sapere se meritava di essere condannato a morte si ritroverà condannato…. a vita. 
Sarebbe necessario modificare le basi filosofiche del diritto sulle quali poggia il nostro sistema giuridico. Istituti come la revisione del processo dopo la condanna definitiva qualora emergessero prove a discarico, sarebbero una contraddizione filosofica: alla morte, come si dice, non c’è rimedio.
E per venire a Beccaria, molte delle considerazioni dalle quali egli parte nel suo pregevole “De’ delitti e delle Pene”, sono effettivamente ormai datate (basta leggerlo nell’edizione originale per rendersene conto), ma il principio di fondo non sarà mai superato: ciò che conta non è tanto l’entità della pena (con dei limiti e delle proprozioni ragionevoli, è chiaro) ma la sua certezza.
Il deterrente sta nella certezza della pena ragionevole, e non nella minaccia della pena “vendicativa”.
La prova ci viene da ciò che accadde in Italia durante le guerre mondiali: c’era la pena di morte per chi vendesse caffè, zucchero, medicinali, al mercato nero. Eppure le principali posizioni economiche dell’Italia post bellica se le aggiudicarono proprio coloro che approfittarono del mercato nero. I cosiddetti “squali”. Alcuni di essi sono diretti antenati di grandi imprenditori di oggi.
Perché accadde ciò? Perché quella pena severissima, visto il sistema sfasciato a disposizione, si sapeva benissimo non sarebbe mai stata non dico inflitta ma neppure proposta.
Ammesso che si concordi filosficamente e socialmente con la condanna a morte, andrebbe ricordato che i tribunali che possono infliggere questo tipo di pena sono organizzati diversamente dai nostri. Basti pensare al Tribunale di Norimberga che processò i crimini nazisti, o ai diversi tribunali speciali internazionali che ancora recentemente sono entrati in funzione (ricordate Saddam Hussein?: quello fu un processo con tutte le regole al posto giusto, secondo il codice di riferimento).
Ma anche i tribunali statunitensi (non parliamo di quelli cinesi o orientali in genere) dove ancora la pena di morte è in vigore, sono regolati in modo che i giudici non si debbano occupare di tutti i reati che vengono commessi nel paese, essendo discrezionale la decisione dell’accusa di perseguirli o meno. Cosicché quando si apre il processo si va avanti un giorno dopo l’altro, di filato, tutto d’un fiato, finché nel giro di 4 o 5 mesi al massimo si arriva alla sentenza. Eppure, anche negli Usa tra la sentenza di condanna a morte e l’esecuzione della pena trascorrono a volte anche 10 anni, tutti nel cosiddetto braccio della morte delle carceri. Mentre tutte le altre sentenze vengono eseguite in un tempo, appunto, ragionevole. Questo perché, ancora una volta, non si può rinunciare a determinate garanzie, nemmeno – anzi soprattutto – se si condanna a morte.
Già un grande giurista vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, Piero Calamadrei, disse che in Italia la pena è “il processo” e non la sentenza che viene emessa dal processo. Per dire che i processi erano così complessi, lenti, lunghi, che alla fine diventavano essi stessa una pena. In filosofia e in logica questa si chiama “eterogenesi dei fini”, ossia, in parole povere, ribaltamento tra causa ed effetto.
E tutto ciò già alla fine dell’Ottocento! (con leggi diverse, processi diversi, senza intercettazioni, legittimi impedimenti, giudici comunisti, portaaporta, annizeri, ballarò, signor TV e puttanelle varie).
E’ ingiusto che il processo sia una pena: perché al processo possono essere sottoposti anche innocenti che dunque non meritano – non meriterebbero – alcuna pena. Noi lo sappiamo che è ingiusto, ma invece di risolvere il problema, invece di incidere sulle cause, abbiamo pensato ad un rimedio per gli effetti introducendo il risarcimento per l’ingiusto processo, il risarcimento per l’eccessiva durata del processo, il risarcimento per ingiusta detenzione. 
In pratica, non riuscendo a garantire che l’errore duri il minor tempo possibile, ossia fisiologico in una società moderna e democratica, ci mettiamo una pezza a colore sostituendo la soluzione del problema con il denaro.
Morale: lo Stato, il ministero della Giustizia, si trova oggi con 90 milioni di euro di debiti da indennizzi non ancora pagati, che non riuscirà mai a pagare e intanto gli avvocati stanno pignorando alla Banca d’Italia i soldi che servono per pagare la carta, la benzina, le riparazioni, i computer eccetera. Non pignorano i soldi degli stipendi solo perché è stato firmato un decreto ministeriale che li rende impignorabili. Altrimenti nemmeno gli stipendi dei cancellieri e degli autisti, per non parlare di quelli dei magistrati, potevano pagare più.
Già nella Grecia di Solone e poi in quella di Aristotele (che a dire il vero era macedone, di Stagira) l’avevano capita la difficoltà del processo e della certezza della pena. Così avevano stabilito, in pratica, che per la maggior parte dei reati la pena consisteva nell’esilio. In fondo ciò che i buoni chiedono è che i cattivi si levino dai piedi. E li spedivano fuori da confini. Ma questo era possibile, nell’antice Grecia, perché esistevano ancora “fette di mondo” non ancora abitate, terre di nessuno dove era possibile esiliare i cattivi. Oggi questa opportunità non c’è più e allora sono necessarie le carceri.
Sempre per restare nell’antica Grecia, che certo non può essere considerata un paese barbaro quanto a filosofia e diritti, in carcere, e a morte, ci finiva solo chi commetteva reati contro la religione e la personalità dello Stato. Gli altri, tutti fuori e beni confiscati. In cambio, i processi erano relativamente semplici (ma anche lì i “potenti” si facevano difendere da bravi oratori-avvocati – ad esempio Aristotele – e riuscivano almeno a evitare la confisca dei beni oltre che il diritto a rientrare dopo qualche anno). Per chi invece doveva finire in carcere o addirittura a morte, non era per niente semplice. Lo stesso Socrate se non avesse rinunciato a difendersi, sfidando le leggi ateniesi, sarebbe stato assolto, come ormai qualunque storico concorda.
Alla mafia e al crimine organizzato non fa paura il carcere, ammesso che diventi certo. Fa paura perdere il proprio potere economico. Perdere i propri beni. Secondo voi perché un mafioso fa il mafioso invece che l’impiegato di banca? Per vocazione? Per il potere. E il potere, nel mondo, da sempre, lo dà il controllo dell’economia. In un villaggio sperduto chi controllasse l’unica piantagione di grano, o di verdura, o di frutta, avrebbe tutto il potere. Sarebbe un “mafioso”, capace di imporre la sua volontà in cambio di un chilo di farina. Bill Gates non ha potere? Certo che ce l’ha. E perché? E’ mafioso? No, ma controlla una fetta importante di economia.
La mafia ha sempre ucciso non tanto perché arrestavano Tizio o Caio, boss o gregari, ma perché quegli arresti erano funzionali alla disarticolazione del sistema economico e di potere che controllavano. Del sistema economico e di conseguenza di quello politico. Perché la politica vive sul consenso, e questo è giusto, ma in Italia – nel corso del Novecento – sempre più il consenso è dipeso dalla concessione, sotto forma di favori, di quelli che avrebbero dovuto essere diritti.
E i favori, per definizione, li può concedere chi controlla un potere superiore agli altri.
Ma questo non è un problema della legge, del processo, della giustizia.
Allora: perché preoccuparsi tanto di carcere, detenuti e sentenze? Perché il solo fatto che, prima o poi, fossero 10 giorni, 10 anni o 40, il detenuto esce dal carcere – e su questo non ci sono sostanzialmente più dubbi visto che tutti sono d’accordo sull’abolizione della pena di morte – è interesse della società rimettere in libertà qualcuno che sia un po’ meglio rispetto a quando è entrato, in carcere. Dunque il carcere deve avere un “senso”.
E qui siamo alla ragionevolezza della pena: non è vero che chi uccide un pedone mentre guida un’auto da ubriaco o da drogato viene condannato a 2 anni. Di solito ne prende 7 o 9. Certo non 22 o 30, dal momento che questa è la pena per l’omicidio volontario non premeditato. Dunque, ragionevolmente, se ci pensiamo, chi uccide sostanzialmente per sbaglio, anche se con gravi colpe, viene condannato a un terzo della pena che merita chi uccide volontariamente. Se invece l’omicidio è premeditato c’è l’ergastolo ma anche in questo caso dopo 26 anni le leggi sull’esecuzione della pena prevedono che, se ci si comporta bene in carcere, si possa uscire. Il fatto che esca chi non lo merita non è un problema della legge ma dei sistemi che dovrebbero assicurare la giustizia. Su questi si può incidere scegliendo correttamente gli amministratori dello Stato. Se si rinuncia anche a fare questo, non ci si può poi lamentare di nulla.
Un’ultima osservazione: diminuire la condanna di Dell’Utri a 7 anni è giusto se l’accusa non ha adeguatamente provato tutti i reati contestati o se non ha provato che questi reati siano stati commessi per tutto il tempo originariamente ipotizzato dal capo d’imputazione.
Sette anni non sono pochi. Il punto è che la sentenza definitiva arriverà tra un paio d’anni, se va bene, al limite della prescrizione. Ma questo non è un problema né del diritto né del processo: è un problema di carico di lavoro degli uffici giudiziari, che potrebbe essere regolato meglio se l’amministrazione se ne preoccupasse di più. Ma gli amministratori li scegliamo noi. Non la legge, non il processo, non la giustizia.
Il punto non è tanto l’entità della pena inflitta a Dell’Utri, ma il fatto che nonostante la pena continui a svolgere il suo mandato di rappresentante del popolo. Proprio come nominare un ministro imputato o eleggere un consigliere comunale appena uscito di galera e in attesa di giudizio. Questo non è un problema del diritto, né del processo. E’ un problema degli amministratori. Ma gli amministratori li scegliamo noi. Non la legge, non il processo, non la giustizia.

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