La Suprema Corte, sezione lavoro, con la recente sentenza n. 27055, depositata in data 2 dicembre 2013, ha rilevato che il divieto di licenziamento cd “per causa di matrimonio”, sancito dalla Legge n. 7/1963, opera per l’intero anno dalla data delle nozze, indipendentemente dalla circostanza per cui l’azienda sia interessata da una fase di riorganizzazione con esternalizzazione di alcuni servizi – ivi inclusi quelli cui era addetta la dipendente che ha contratto matrimonio – escluso soltanto il caso di effettiva cessazione dell’attività aziendale.

A fini della decorrenza del termine annuale, conformemente al dato letterale, la presunzione di nullità deve estendersi ad ogni recesso che sia stato “deciso” nell’arco temporale indicato, rilevando la data in cui viene assunta la determinazione di licenziare e non quella di effettiva attuazione del provvedimento espulsivo.
La pronuncia in commento offre, altresì, l’occasione per precisare i rapporti tra la normativa de qua e la disciplina di tutela prevista in favore delle lavoratrici madri dal D.lgs n. 151/2001 (Testo Unico sulla maternità).
In particolare, l’intervento del Supremo Collegio ha chiarito come i due provvedimenti legislativi siano accomunati dalla medesima ratio ispiratrice nonché dalle medesime tecniche di tutela.
Come evidenziato dalla Cassazione, in momenti di passaggio “esistenziale” particolarmente delicati e significativi nella vita della lavoratrice, si impone l’applicazione di una più rigorosa disciplina limitativa dei licenziamenti, che sollevi la dipendente dall’onere della prova di una discriminazione, gravando sulla parte datoriale l’onere di dimostrare la sussistenza di una legittima causa di scioglimento del rapporto.
Analogamente alla disciplina di cui alla legge n. 7/1963, anche il Testo Unico sulla maternità, infatti, consente di derogare al generale divieto di licenziamento previsto, a pena di nullità, a tutela della lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio – operante per il periodo di gravidanza fino al compimento del primo anno di età del bambino – unicamente nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda cui la dipendente è addetta, con conseguente applicabilità della medesima disciplina in favore della lavoratrice nei casi di sospensione dal lavoro e collocamento in mobilità.

La suddetta eccezione al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre è stata ritenuta operante non solo nei casi di cessazione integrale dell’attività aziendale, ma anche nell’ipotesi in cui la cessazione di attività interessi il singolo reparto cui la dipendente è adibita, purché dotato di autonomia strutturale e funzionale.
Tuttavia la giurisprudenza, per tale fattispecie, pone a carico del datore di lavoro che intenda intimare il licenziamento durante il periodo di gravidanza e puerperio, l’onere probatorio circa l’impossibilità di occupare la stessa lavoratrice presso altra unità produttiva dell’azienda, dopo la soppressione dello stabilimento di appartenenza (Cass. n. 14583/2009; Cass. n 3620/2007; Cass. n. n. 23684/2004).

Trattasi del cd “obbligo di repechage” gravante sulla parte datoriale, che costituisce condizione imprescindibile ai fini dell’operatività della deroga al divieto di licenziamento nei casi di cessazione di attività di un singolo reparto, qualora altri stabilimenti facenti capo alla medesima Azienda risultino ancora attivi.

Ed infatti, la Suprema Corte ha ritenuto che la sussistenza di ulteriori attività aziendali in diverse sedi, sia pure nel caso in cui nelle stesse venga impiegato personale numericamente ridotto, non possa integrare una condizione ostativa alla possibilità di un utile reimpiego della lavoratrice presso altro reparto, essendo rimessa unicamente alla sfera valutativa della lavoratrice ogni considerazione in merito all’eventuale onerosità e disagio connessi al trasferimento presso una diversa sede (Cass. n 3620/2007).
In conclusione, una corretta interpretazione dei due provvedimenti legislativi sopra esaminati consente di derogare al divieto di licenziare unicamente in caso di effettiva cessazione dell’attività aziendale, laddove le altre ipotesi di recesso intimato durante il cd “periodo di garanzia” sono da ritenersi illegittime in quanto in violazione delle norme di legge a tutela della lavoratrice.

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