Il problema non è che Renzi abbia chiesto che il “castello” delle riforme da lui concordate con le altre forze politiche debba essere accettato o respinto nel suo insieme. Non si tratta infatti di arroganza o prepotenza, caratteristiche che, per altro, sono state accostate  al neo segretario del PD, non sempre senza motivo.

Ma si tratta, più semplicemente, del fatto che l’alternativa risulterebbe impraticabile. Non avrebbe senso mandare Renzi a ridiscutere alcune modifiche perché questo aprirebbe un contenzioso illimitato autorizzando anche le altre parti a pretendere ulteriori cambiamenti in un andirivieni senza fine né costrutto.

Ciò non toglie che alcuni aspetti del “castello” non sembrano convincenti e probabilmente non lo sono nemmeno per Renzi. Le liste chiuse, ad esempio, rappresentano un chiaro scippo a danno della libertà di scelta degli elettori. E sostenere che per quelli del PD il problema non si porrebbe grazie alle primarie, accredita il concetto per cui, se i nostri son salvi, chi se ne importa degli altri. Invece, forse, le leggi andrebbero fatte a tutela di tutti i cittadini. Allo stesso modo alcune perplessità su possibili profili incostituzionali del progetto certamente rimangono ma qualunque soluzione potrebbe meritare la stessa sorte. Ci salverebbe solo un giudizio preventivo della Consulta, che non  sembra però essere tra le sue prerogative; né il parere del Consiglio di Stato sarebbe garanzia assoluta per superare il vaglio di legittimità costituzionale.  Qualche domanda la origina anche il nuovo Senato. Si sa cosa non è: non è elettivo; non dà la fiducia al governo; non remunera i suoi componenti. Ma non si capisce bene a che servirà e sembra difficile attribuirgli un qualche potere legislativo considerata la sua origine non direttamente elettiva (l’eccezione dei senatori a vita è, appunto, un’eccezione).

Comunque questa furia iconoclasta contro il Senato non è convincente. Forse sarebbe meglio suddividere tra Camera e Senato le competenze legislative attribuendo magari al secondo quelle che hanno maggior impatto sulle realtà territoriali. Si eviterebbe così di intasare in una sola camera tutti i provvedimenti. E, oso dire, in caso di leggi particolarmente rilevanti (come le modifiche alla Costituzione) sarebbe opportuno mantenere la doppia lettura. Per quanto riguarda il risparmio sui costi della politica, questo potrebbe sempre realizzarsi riducendo il numero di deputati e senatori. Di passaggio si può  anche annotare come la storia che i senatori (ma anche chiunque altro) dovrebbero lavorare gratis, sembra demagogica. Sarebbe piuttosto giusto stabilire che nessun incarico retribuito dallo Stato o dagli enti locali, a qualunque livello, possa avere una remunerazione superiore alla media europea per posizioni analoghe. Si farebbero risparmi enormi, basti vedere le sconce retribuzioni dei manager nell’apparato statale e nelle innumerevoli aziende pubbliche o para pubbliche.

Insomma qualora nel suo complesso il “Castello” delle riforme sia ritenuto accettabile lo si deve approvare senza chiedere modifiche e in caso contrario lo si rigetti in toto. Ma, se nella direzione PD chiamata a decidere, non c’è stato un solo voto contrario, qualcosa vorrà pur dire.
Il problema non è nemmeno che Renzi abbia fatto entrare Berlusconi nella sede del PD. Questo a ben vedere potrebbe interpretarsi come una venuta a Canossa, un passaggio forzato sotto le forche caudine imposto all’ex premier, piuttosto che l’espugnazione della cittadella democratica. Così come una volta Renzi, per parlare con Berlusconi, fu costretto ad andare a trovarlo a casa sua, ora le parti si invertono ed è Berlusconi a doversi recare al Nazareno, con corredo di insulti e uova lanciate sulla sua auto; comportamenti non edificanti ma in parte comprensibili.
E il problema non è nemmeno che sia stata data nuova credibilità ad un uomo estromesso dal Senato per i reati commessi. E’ forse vero che Renzi ha sdoganato Berlusconi  ma è ancor più vero che Berlusconi ha sdoganato il PD. Infatti, in che modo potrà adesso parlarne come del partito pericoloso per la democrazia e la libertà, dopo che ne ha lodato tanto il suo segretario, perdendo così l’arma, in passato spesso vincente, dell’anticomunismo viscerale?

No, il problema è un altro. E consiste nel fatto che il concetto di accordo con Berlusconi esprime una ipotesi che non trova riscontro in natura. Le parole accordo e Berlusconi sono assolutamente incompatibili e incongrue tra di loro. Vent’anni di storia recente dovrebbero aver insegnato che Silvio non fa accordi ma fa gli interessi della sua parte e, più spesso, i propri. Dire di aver raggiunto un accordo con lui è come dire di aver scritto un contratto sull’acqua; se quanto concordato non dovesse essere più a suo forte vantaggio, in qualunque momento verrà sconfessato o contraddetto con una facilità ancora una volta sconcertante.

Il problema è che Renzi si è messo nelle mani del Cavaliere il quale, o ci guadagna molto da questo patto, oppure ha tutto l’interesse a far saltare il banco azzoppando la credibilità del suo interlocutore. E non è rassicurante sostenere: “peggio per lui, si andrà avanti con chi ci sta”, perché in questo caso Renzi finirà nelle mani di Alfano. E sarà una posizione ancor più scomoda, sia perché le differenze tra Berlusconi e Alfano non sono poi così marcate sia perché Alfano ha dovuto mandar giù non pochi rospi a causa di Renzi, sotto la minaccia di imminenti elezioni che avrebbero spazzato via il neo partito non ancora organizzato sul territorio. E per carità di patria non parliamo della sinistra PD che potrebbe essere ingolosita dall’occasione di prendersi una rivincita insperata.
Insomma Renzi dovrà mettere in campo tutte le sue doti se vorrà portare a compimento un percorso irto di ostacoli e imboscate ad opera dei tanti nemici che non possono permettersi un suo eclatante successo se non hanno ancor più da guadagnarci. E’ sempre pericoloso far sentire l’odore del sangue alle belve feroci, specie quando si è deciso di mettere la testa nelle fauci del leone o meglio, del caimano.

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