Spettacolo meraviglioso – come il Mandarino di Bartók – quello visto al Maggio Musicale Fiorentino, e dedicato ai due capolavori teatrali del compositore ungherese. Il Mandarino Meraviglioso e Il Castello del duca Barbablù sono stati presentati in un nuovo allestimento, coprodotto con il Saito Kinen Festival, firmato dal regista e coreografo giapponese Jo Kanamori, molto accurato, originale, imprevedibile, lontano da ogni lettura in chiave realistica. Eppure calzante con l’essenza drammatica dei due lavori, che sfruttavano anche le geniali scenografie dello Studio DGT di Parigi, concepite come vere e proprie istallazioni architettoniche.
Il primo dei due titoli, una pantomima che Bartók aveva ambientato in una squallida periferia urbana (con malviventi che costringono una prostituta ad adescare dei passanti, per derubarli, e che poi tentano di uccidere, invano, un ricco mandarino cinese, preso da straordinaria bramosia per la ragazza), diventava una movimentata coreografia all’interno di un gigantesco guscio di moquette (800 chili!), che fasciava completamente il palcoscenico: una cavità oscura, un caverna, un grembo misterioso che solo alla fine Maggio2mostrava un’apertura sul fondo, una luce (di speranza?) verso la quale si avviava la ragazza, dopo avere appagato la brama del mandarino. Intorno ai protagonisti, in costumi sgargianti e dalle fogge appariscenti, si muovevano delle figure grigie, spettrali, dal volto coperto (erano i ballerini di MaggioDanza), che evocavano l’esercito di terracotta dei guerrieri di Xi’an, e imprimevano allo spettacolo un supplemento di inquietudine. Le coreografie dei protagonisti erano costruite intorno a un tavolino rosso, che diventava di volta in volta ring (per gli scontri tra i malviventi e i malcapitati clienti della ragazza), letto, porta, diaframma tra un dentro e un fuori immaginario. Sensuali le movenze di Mimi, la ragazza interpretata da un agile, snella, sexy Sawako Iseki. Impressionanti le scene che avevano come protagonista il Mandarino (Satoshi Nakagawa), che non rappresentava più un elemento esotico all’interno di questo allestimento, ma colpiva con la sua figura, i suoi gesti, anche i suoi sguardi: la sua apparizione, impassibile, quasi inanimato, mosso solo, come una marionetta, dagli spettri grigi che lo attorniavano; la sua eccitazione, con una forza che pareva crescere col moltiplicarsi di danzatori al suo seguito; il suo soffocamento, che avveniva sotto una grande coperta variopinta, dalla quale era sempre pronto a sgusciare fuori; la sua impiccagione, quando veniva issato a mezz’aria con delle funi tra globi luminosi che gli ondeggiavano intorno.


Il prisma cromatico di Barbablù
Maggio1Nel Castello di Barbablù la scenografia, tutta giocata tra luci e oscurità, era invece fatta di enormi prismi trasparenti e girevoli, che rappresentavano le pareti del castello, che si aprivano come le sette porte, che si illuminavano da dentro grazie ad uno speciale gas. Intorno ai due protagonisti si aggiravano gli stessi danzatori spettrali, come servitori onnipresenti, con le loro piccole fiaccole che punteggiavano tutta la narrazione. Lo spettacolo sfruttava i colori dei prismi (che cambiavano all’apertura di ogni stanza: per esempio il rosso per la camera della tortura, il giallo per la stanza del tesoro, il verde smeraldo per la sala del giardino), le ombre gigantesche proiettate sui pannelli stessi, un sinistro trono rosso, fatto di tubi intrecciati che parevano un ammasso di vene, i rapidi, fantasmatici movimenti dei danzatori (cha accompagnavano, mirabilmente, le fluide bolle sonore del lago di lacrime), i prismi stessi che diventavano teche di vetro nelle quali venivano rinchiuse le mogli di Barbablù, nella scena finale. Matthias Goerne, nei panni del duca, sfoggiava una grande tecnica vocale e un’espressività intensa, dolente. Lo affiancava un’ottima Daveda Karanas, dalla voce fresca e ben timbrata, assai convincente nella recitazione. Sul podio si è fatto valere il giovane direttore d’orchestra ungherese Zsolt Hamar (spesso applaudito sul podio dell’Opernhaus di Zurigo), che ha dimostrato grande intelligenza musicale e drammatica, e una chiara volontà di accentuare gli aspetti coloristici e dinamici delle due partiture, nonostante lo scarso smalto dell’orchestra del Maggio. È riuscito soprattutto a cogliere la cupa tensione del Castello di Barbablù, a caratterizzare ciascuna delle sette scene, senza però perdere di vista la grande arcata che le tiene insieme, e che pare seguire la progressione dei raggi luminosi che provengono da ciascuna porta: dalle tenebre iniziali, alla luce piena che filtra dalla quinta porta (quella dei Domini di Barbablù: vero culmine del rito misterico, un climax solare e maestoso, in Do maggiore, scandito dagli accordi dell’organo e degli ottoni efficacemente disposti sui palchetti laterali del teatro), per poi tornare gradualmente alle tenebre.

 

Il Mandarino Meraviglioso, Il Castello Del Duca Barbablù

Musica: Béla Bartók
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Zsolt Hamar
Noism Dance Company e MaggioDanza
Regia e coreografia: Jo Kanamori
Scene: Tsuyoshi Tane, Lina Ghotmen, Dan Dorell
Costumi: Yuichi Nakajima
Luci: Masakazu Ito, Jo Kanamori
Interpreti: Matthias Goerne (Il Duca Barbablù), Daveda Karanas (Judit), Andras Palerdi (il bardo)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *