Lo scorso marzo, quando il debito ellenico venne ristrutturato in modo forzoso con perdite per i creditori intorno al 75%, in molti hanno tirato un sospiro di sollievo, nella convinzione che una tale misura draconiana avrebbe finalmente riportato il sereno nei cupi cieli di Atene, se non immediatamente almeno nei mesi a venire.

Come preventivato su questo giornale dall’articolo del 9 marzo (https://www.goleminformazione.it/articoli/swap-grecia-europa-default-debito-pubblico-fallimento.html?print=1&tmpl=component), è stato necessario un nuovo intervento esterno per abbassare la tensione, sintomo che la Grecia non può continuare a viaggiare da sola sulla strada intrapresa. I motivi sono presto detti, visto che il debito pubblico supera il 150% del Pil, che a sua volta è in caduta libera con scarse prospettiva ripresa: per vendere nuovi titoli, Atene deve pagare circa il 15% in interessi (lo spread si aggira intorno ai 1.250 punti), spesa impensabile guardando al disastrato bilancio dello Stato.

In questo scenario, alleggerire il peso del rapporto debito/Pil è dunque una priorità assoluta. Non avendo trovato il modo per risollevare il prodotto, cosa peraltro impossibile visti i fondamentali ed il contesto globale, occorre dunque agire sul numeratore, riducendo cospicuamente il valore in termini monetari dei titoli emessi fino ad ora. Questo, in sostanza, il fine ultimo dell’operazione di “buy-back”, attraverso cui la Grecia cerca letteralmente di “ricomprare” il proprio debito, togliendolo dal mercato. Il valore complessivo dell’esposizione si riduce perché il rimborso avviene a un prezzo ben inferiore a quello originario, per cui chi partecipa all’operazione è consapevole della perdita da affrontare. D’altra parte i titoli ellenici rischiano di valere zero nel momento in cui si raggiunga il punto di non ritorno, scenario tutt’altro che impossibile, quindi sono in molti a voler vendere ora per recuperare almeno in parte la spesa effettuata.

In termini pratici, Atene ha fissato prezzi di riacquisto che variano dal 30% al 40% rispetto al valore nominale in base alla scadenza del titolo, tra il 2020 ed il 2042. Le perdite per i possessori saranno dunque più contenute rispetto alla sforbiciata precedente, anche perché molti istituti hanno comprato questi titoli a prezzi ancora più bassi, per cui andrebbero a guadagnarci liberandosi di strumenti alquanto pericolosi. Con una spesa di 10 miliardi, il governo ellenico prevede di recuperare poco meno di 30 miliardi di titoli, per cui il taglio complessivo sarà di 20 miliardi, circa il 17% del debito pubblico. I soldi iniziali sono forniti dal fondo salva-Stati ed il successo dell’operazione, che si concluderà il 17 dicembre, costituisce un presupposto necessario per l’erogazione di un’altra tranche di aiuti di 47 miliardi, di cui 30 provenienti dal Fondo Monetario Internazionale. L’intera iniziativa rientra nell’obiettivo concordato con Bruxelles, per cui il debito dovrà tornare al 124% del Pil entro il 2020, attraverso un piano di interventi sia finanziari che di bilancio.

Tralasciando i tecnicismi, è evidente che Atene ha ormai appaltato il controllo sui conti pubblici all’Unione Europea e ad agli istituti privati che gestiscono questo tipo di operazioni, ovvero le grandi banche d’investimento che figurano tra i principali indiziati per l’esito della crisi attuale. Senza l’erogazione degli aiuti, infatti, lo Stato non sarà in grado di provvedere alle funzioni fondamentali, tra cui il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici ed il mantenimento del servizio sanitario. Sul piano degli effetti sull’economia ellenica, il buy-back o altre tipologie d’intervento finanziario non rappresentano di per sé una minaccia in termini di meccanismi recessivi e non costringono lo Stato a tagliare ulteriormente la spesa pubblica. Queste operazioni dipendono piuttosto da una volontà politica, nel caso specifico promossa da Bruxelles sotto l’egida tedesca, con l’obiettivo di evitare che una situazione del genere possa ripresentarsi in futuro. Il nesso tra dissesto finanziario e politiche di austerity risiede nella convinzione che una riduzione estrema del deficit pubblico convinca i mercati ad abbassare i tassi d’interesse, in modo da poter rifinanziare il debito più facilmente. Il punto è che in Grecia le regole di mercato sono saltate da tempo, per cui solamente un massiccio intervento esterno può consentire il ripristino, almeno parziale, di un clima di fiducia: insistere con tagli e licenziamenti non può che acuire inutilmente la recessione in corso.

La situazione greca suscita diverse considerazioni in merito agli effetti di una crisi di credibilità, specie all’interno di un’unione monetaria come quella europea, per cui meccanismi economici ed giochi politici si intrecciano generando conseguenze drammatiche. Alcuni paesi, tra cui in nostro, guardano a questo fenomeno con forte timore, leggendo in un certo senso il proprio futuro nel caso in cui eventi simili si verificassero. L’Italia si è avvicinata pericolosamente al baratro, evitando di cadere grazie ad un anno di governo Monti, che non è stato certo indolore sul piano dell’economia reale. L’avvicendamento alla guida del paese deve essere dunque gestito nel modo più cauto possibile, poiché i populismi contro l’Europa o contro i mercati finanziari rischiano seriamente di diventare un boomerang che potrebbe travolgerci definitivamente. Alcune modifiche nelle riforme messe in campo dal governo in carica, specie sul piano dell’equità e del lavoro, sono certamente possibili, se non addirittura auspicabili, ma l’impianto complessivo della politica di bilancio dovrà rimanere intatto.

Ci si chiede poi se un’operazione di buy-back in stile greco non sia attuabile anche in Italia, visto il peso insostenibile del nostro debito pubblico che si avvia verso il 130% del Pil. Una misura del genere, in un contesto di libero mercato dei capitali, è normalmente considerata come un’estrema ratio, poiché presuppone un fallimento implicito dello Stato. Di fatto, occorre che i nostri titoli diventino spazzatura, ovvero che i tassi d’interesse raggiungano livelli talmente eccessivi da rendere impossibile il pagamento futuro. Servirebbe inoltre una cessione completa della politica di bilancio ad un’entità sovranazionale, poiché l’operazione necessità di un accordo tra governi, che chiederebbero una contropartita. In altre parole, potendo agire da soli il buy-back sarebbe anche conveniente, ma nel contesto europeo questo implica ritorsioni che nessun governo potrebbe sostenere davanti ai propri elettori. Compito del prossimo esecutivo sarà dunque quello di scongiurare questo scenario, se vuole guidare il paese per un periodo di tempo ragionevole, altrimenti un ritorno dei tecnici sarà inevitabile.

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