Entro la fine del mese arriverà a tutti i governi europei la proposta del gruppo di lavoro sul trattato di accesso dell’Unione europea alla Convenzione europea, un processo di ratifica che riguarda 47 Stati. La stesura attuale del Gruppo di lavoro ha un approccio estremamente minimalista che l’Italia non vuole, ma le nostre proposte non sembrano avere molto seguito.

Le due norme speculari che prevedono il trattato di accessione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 6 del Trattato sull’Unione europea, in vigore dal 1° dicembre 2009 col Trattato di Lisbona; articolo 17 del Protocollo n. 14 alla CEDU, in vigore dal 1° giugno 2010) hanno dato luogo ai lavori di un Gruppo informale che a fine giugno dovrebbe consegnare ai Governi europei la proposta di trattato.

Il testo sembra essere giunto alle rifiniture finali, secondo un approccio estremamente minimalista: come aggiungere a Strasburgo il seggio di un giudice dell’Unione; come eleggerlo in seno all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa; come convenire solidalmente l’Unione nel giudizio dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo; come renderla partecipe alla funzione di controllo esercitata dal Comitato dei ministri; le prospettive di un co-finanziamento delle ricche casse dell’Unione alla Corte di Strasburgo (invero assai succulente, per un organismo che di fatto, con la sua giurisprudenza, finora ha contribuito gratis et amore dei ad elaborare gli standard, utilizzati dall’Unione per valutare le possibilità di allargamento ai nuovi membri).
Questo approccio probabilmente appare necessario ai negoziatori, per sormontare le prevedibili complessità del processo di ratifica a 47 Stati; esso sconsiglierebbe di affrontare problematiche più vaste, a partire dal rapporto tra le due Corti (quella della Convenzione, con sede a Strasburgo, e quella dell’Unione, con sede a Lussemburgo), con le relative platee differenziate di Stati parte. Come mai allora, dopo oltre nove mesi di lavoro, la delegazione italiana ha cantato fuori dal coro?
Del dirompente documento italiano di “osservazioni” alla bozza in via di redazione, il verbale della settima seduta del Gruppo, il 13 maggio 2011, fa cenno solo tra i documenti depositati; il testo partorito appare non recepire che in minima parte le proposte avanzate da Roma, quasi che i nostri partners europei non comprendano neppure i timori che fanno parte del retrotesto della posizione italiana.
È che la scelta minimalista, per il nostro ordinamento, lascerebbe intatti tutti i pericoli di un’impasse di difficile soluzione: tanto da suggerire l’opportunità di un intervento, anche se inefficace o probabilmente solo a futura memoria. È allora il caso di addentrarci nel contesto ordinamentale nostrano, per poi comprendere il testo e le problematiche che – forse con troppa disinvoltura – l’intervento italiano mirava a prevenire.
Da tempo ci si interroga sulle virtuali contraddizioni dell’overlapping tra le Corti internazionali e tra di esse e quelle italiane. Per coglierne i rischi, ma anche le potenzialità, occorre entrare nella “geometria variabile” di tre diversi strumenti di tutela: la Costituzione del 1948, la Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 1950 e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 (detta Carta di Nizza). Circa il rango di ciascuna delle tre Carte, si può dire, dopo una travagliata elaborazione, che la loro cogenza – nell’ordinamento italiano – si è assestata secondo una “scala” crescente.
Al livello più basso si colloca la Convenzione europea dei diritti umani: dopo che per decenni si era sostenuto che il suo valore dipendeva “dalla forza dell’atto che ne dà esecuzione” (in questo caso la legge 4 agosto 1955, n. 848, una norma ordinaria), con la revisione costituzionale del titolo V della Costituzione l’articolo 117 ha consentito di attribuirle una “forza attiva” (consistente nella capacità di caducare le preesistenti norme nazionali divergenti) ed una “forza passiva” (cioè la resistenza alla sopravvenienza di norme nazionali che contrastino coi suoi contenuti); ciò con una costruzione (sentenze nn. 348 e 349 del 2007) che ancora propende per un controllo accentrato, a livello di Corte costituzionale.
Al livello intermedio si collocano i Trattati istitutivi delle Comunità europee (ora Unione europea): sin dalla sentenza n. 183 del 1973 la loro “forza attiva” era considerata – unitamente al loro diritto derivato – limitazione di sovranità consentita dall’art. 11 Cost. (a favore di organizzazioni internazionali aventi scopo di assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni: rimarchevole che questo fosse per un’unione allora solo economica, e non per la Convenzione, discendente da un’organizzazione come il Consiglio d’Europa, assai più proiettata verso la giustizia); quanto alla “forza passiva rafforzata”, essa fu riconosciuta al diritto comunitario con la sentenza n. 170 del 1984 della Corte costituzionale italiana, con un meccanismo che decentrava il controllo a livello diffuso di singoli giudici. Per la Carta di Nizza vale lo stesso discorso da quando, ai sensi del nuovo articolo 6 paragrafo 1 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.
Al livello più alto si colloca la Costituzione italiana: il suo rango supremo è affermato pacificamente, dalla Corte costituzionale, anche nei confronti delle restanti due fonti, la cui prevalenza sul diritto interno incontra il limite dei «principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale» e dei «diritti inalienabili della persona».
L’ingresso dell’Unione europea al sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo rappresenta un’occasione per instaurare un principio di vasi comunicanti più efficace di quello sin qui affermato in via pretoria. Ma per noi è anche una necessità, che rimette in discussione la questione della diversa portata degli strumenti giuridici che tutelano le libertà fondamentali: la scansione multilivello della tutela – come sopra descritta e come faticosamente conseguita dalla giurisprudenza – scricchiola vistosamente. Ecco perché i giudici costituzionali italiani hanno già evocato «i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali» (sentenza n. 138 del 2010). La difesa più immediata – quella secondo cui è dirimente la «circostanza che al momento l’Unione europea non è parte della CEDU», per cui si esclude una generale “comunitarizzazione” delle norme della CEDU (sentenza n. 349 del 2007) – è stata ribadita dalla Corte costituzionale ancora recentemente (sentenza n. 80 del 2011); ma è sempre meno solida, con l’avvicinarsi della scadenza del luglio 2011 in cui la bozza del trattato di accessione dovrà essere depositata.
Di questa precarietà è sicuramente espressione la posizione italiana, come espressa nelle “osservazioni” del 3 maggio 2011.
La delegazione italiana non giudica sufficiente la riserva contenuta nell’articolo 3 del protocollo n. 8 allegato al trattato di Lisbona («Nessuna disposizione dell’accordo di cui all’articolo 1 deve avere effetti sull’articolo 344 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea»): l’Italia propone il divieto per gli Stati membri dell’UE di adire la Corte di Strasburgo contro l’Unione (e viceversa). Nella bozza in via di redazione, invece, ci si limita a prevedere che l’Accessione non sottragga l’ultima parola (e l’esclusiva) alla Corte di Lussemburgo in caso di conflitto di interpretazione tra i Ventisette sull’interpretazione o all’applicazione dei trattati UE.
Parrebbe una difesa del “nocciolo duro” del diritto dell’Unione dai possibili raid di “annacquamento” della tutela dei diritti umani, provenienti dalla Corte di Strasburgo; ma il documento italiano prosegue, prospettando una soluzione che esalta il ruolo della Corte di giustizia dell’Unione europea, avente sede a Lussemburgo, per i casi che stanno più a cuore della nostra rappresentanza, cioè i ricorsi individuali.
La premessa di tutti i partecipanti al Gruppo informale è che “l’accessione alla Convenzione ed ai suoi protocolli imporrà all’Unione europea obbligazioni solo con riferimento ad atti, misure od omissioni ad opera di sue istituzioni, organismi, uffici od agenzie, o ad opera di persone che agiscano a suo nome. Nulla nella Convenzione o nei suoi protocolli potrà comportare che l’Unione emani un atto o adotti una misura per la quale non ha competenza” (articolo 1, par. 2 c dell’ultima bozza). Si tratta di una tutela degli Stati membri che, per la CEDU, trova rispondenza nell’articolo 2 del citato protocollo n. 8 allegato al Trattato di Lisbona. In sostanza, gli Stati non perdono nulla, dall’Accessione, più di quanto non avessero già perduto con la firma di uno dei due trattati (UE/TFUE e CEDU).
Noi, invece, richiediamo al testo qualcosa di più: nessuna doglianza individuale – contro atti misure, omissioni o condotte dell’Unione – può arrivare a Strasburgo dai cittadini dei Ventisette, se prima non ne sia stata investita la Corte di Lussemburgo. Questa diverrebbe poi l’unico giudice, se la violazione della Convenzione fosse direttamente ed esclusivamente attribuibile alla sola UE; resterebbe comunque mezzo domestico di previo esperimento obbligatorio, negli altri casi.
Nel rapporto esplicativo CDDH-UE (2011)08, il Gruppo informale appare reagire a questa prospettazione, quando ricorda (§ 53) che l’atto di cui la Corte di Lussemburgo può attestare o meno la conformità ai diritti fondamentali – nel contesto delle procedure attivate da ricorso individuale – non è l’atto particolare che colpisce il ricorrente, ma piuttosto la base legale dell’atto che promana dallo Stato membro convenuto: “rispetto a ciò, la procedura non costituirebbe un rimedio” interno da esperire preventivamente, dotato di effettività, secondo il significato dell’articolo 13 della Convenzione.
Le osservazioni italiane “scoprono” il loro intento quando suggeriscono una riformulazione della disciplina dell’Unione convenuta a Strasburgo solidalmente con lo Stato membro: mentre la bozza del Gruppo informale si limita a contemplare il caso in cui la regiudicanda comporti un giudizio di compatibilità del diritto dell’Unione con la CEDU (offrendo la possibilità alla Corte di Lussemburgo di rendere una pronuncia entro un tempo ragionevole), l’Italia chiede che la Corte di giustizia dell’Unione possa pronunciarsi sulla “validità, legittimità e/o interpretazione” dell’atto, misura, omissione o condotta dell’Unione, prevedendo persino un’apposita requete da parte della Corte di Strasburgo.
Anche qui, la generosità verso i giudici di Lussemburgo appare ai nostri partners un po’ pelosa: «la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea non avrebbe effetto diretto sul procedimento dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e lascerebbe integralmente impregiudicata la giurisdizione indipendente di quest’ultima ai sensi della Convenzione. Spetterebbe alla sola Corte europea dei diritti dell’uomo statuire in ogni singolo caso, sulla base dei propri criteri, le conseguenze da trarre dalla decisione della Corte» di Lussemburgo (§ 54 del citato rapporto esplicativo). Eppure, nella valutazione italiana, l’attrazione del sindacato delle giurisdizioni dei diritti umani sulla Corte di Lussemburgo ha una maggiore convenienza.
Sembrerebbe un controsenso: l’esecuzione delle sentenze della Corte di Strasburgo è assai problematica, sotto il controllo di un organo politico come il Comitato dei ministri che spesso riesce ad esigere dallo Stato condannato la liquidazione dell’equo indennizzo (con maggiore efficacia dell’adozione delle misure generali, che la Corte sempre più spesso indica come necessarie rimuovere una violazione “seriale” della Convenzione). Per converso, le sentenze della Corte di Lussemburgo possono comportare pronunce di ottemperanze con imposizione di penali, entrano nel diritto dell’Unione a tutti gli effetti e sono oggetto di provvedimenti di adempimento talmente necessitati che, spesso, vengono previsti direttamente dalle leggi comunitarie (alla stessa stregua dell’esecuzione delle direttive).
La miopia prospettica è probabilmente motivata dalla questione – tutta italiana – della «trattatizzazione» indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, paragrafo 3, della Carta di Nizza. In base a tale disposizione (compresa nel titolo VII, cui l’art. 6, paragrafo 1, del Trattato UE fa espresso rinvio ai fini dell’interpretazione dei diritti, delle libertà e dei principi stabiliti dalla Carta), ove quest’ultima «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione» (ferma restando la possibilità «che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa»). Per confutare la conseguenza – secondo cui i diritti previsti dalla CEDU che trovino un «corrispondente» all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto dell’Unione europea – la Corte costituzionale italiana ha invocato sia la mancata accessione, ma, soprattutto, la dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona («La Carta dei diritti fondamentali, che ha forza giuridicamente vincolante, conferma i diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. La Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati»).
In altri termini, quando crollerà l’argomento della mancanza di un trattato di Accessione, la Corte di Lussemburgo garantisce meglio di quella di Strasburgo che non vi sia un’ingerenza internazionale sulle “norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011 cit., che ricorda come la Corte di giustizia abbia reiteratamente escluso, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea).
La proposta italiana – che pure ha il pregio di sottrarre i futuri rapporti tra le due Corti al diritto pretorio – tradisce il suo limite: commistionando le diverse modalità di accesso e di scrutinio delle giurisdizioni in questione, ha il difetto di assomigliare alla notte nera in cui tutte le vacche sono nere.
La Corte europea dei diritti dell’uomo conosce di una violazione della Convenzione, cui i mezzi nazionali di rimedio giurisdizionale non hanno posto termine: l’accertamento ad oggi è assistito da debolissimi strumenti di esecuzione, ma laddove la CEDU entrasse nel diritto dell’Unione si dovrebbe porre il problema – come conseguenza della sentenza strasburghese – della disapplicazione della norma interna secondo la procedura “diffusa” accolta dalla Corte costituzionale nel 1984.
Il presupposto limitativo dell’applicabilità della Carta di Nizza (“che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione”: sentenza n. 80 del 2011 cit.) risente invece della duplice natura della giurisdizione di Lussemburgo.
Ai sensi dell’articolo 263 del TFUE, la Corte di Lussemburgo può essere adita in annullamento, direttamente per ricorso del singolo, solo contro gli atti dell’Unione adottati nei suoi confronti o che lo riguardano direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che lo riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d’esecuzione. Diverso è il caso in cui il singolo è titolato a richiedere, dinanzi ad una Corte nazionale, il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TFUE (con la facoltà di accoglimento in capo alle giurisdizione inferiori, l’obbligo di accoglimento nel caso di ultima giurisdizione). Qui la Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione dei trattati o sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione; ma, in tali casi, la sua pronuncia, sotto forma di principio di diritto, ritorna alla giurisdizione richiedente e darà luogo a decisioni che – per quanto “sotto dettatura” – saranno calate nel caso concreto dal giudice interno.
L’ostacolo al pieno scrutinio lussemburghese, ai sensi della Carta di Nizza, è di natura meramente processuale. Nel caso dell’articolo 263 lo scrutinio in annullamento non può che seguire criteri procedimentali dettati dalle norme sulle fonti (“la Carta non … modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”: dich. n. 1 cit.), per cui non entra nel giudizio di prevalenza (bilanciamento di interessi di tipo sostanziale) con i diritti umani riconosciuti dalla Carta. Quanto al caso dell’articolo 267, le relative pronunce – che pure hanno una ricaduta diretta sulla legislazione interna di recepimento o sugli altri atti nazionali consequenziali – sono una risposta ad un quesito interpretativo del giudice interno, che resta dominus della regiudicanda.
Il rinvio pregiudiziale non ammonta ad una violazione, ma – al più – può non rimuovere una violazione preesistente, che procede dal giudice nazionale o che precede il suo giudizio. Certo, anche la Corte di Lussemburgo è un giudice, e come tale può dar luogo a vizi in procedendo che, ammontando a violazioni dei diritti umani tutelati ad es. dall’articolo 6 CEDU, rientrano nella cognizione della Corte di Strasburgo. Ma, soprattutto dopo che a Strasburgo si è affermato il parametro della “protezione equivalente” (sentenza della Gran Camera del 30 giugno 2005, nel caso Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi contro Irlanda, § 155 e seguenti), si tratta di ipotesi veramente marginali.
Ritenere che il giudizio di Strasburgo e quello di Lussemburgo ex articolo 267 incidano sulla stessa questione, è – allora – come “sommare mele e pere”: l’uno procede da un fatto lesivo, l’altro da una valutazione di diritto espressa mediatamente rispetto alla vera cognizione del fatto, che resta il giudizio nazionale. Ecco perché, dopo l’Accessione, i limiti procedurali applicabili alla Carta di Nizza difficilmente si estenderebbero alla CEDU. Invece di inseguire il mito della prevalenza ratione materiae della Corte di Lussemburgo (pretesa custode del self restraint delle giurisdizioni internazionali), si dovrebbe immaginare un rapporto tra insiemi omogenei: il nucleo “forte” della tutela dei diritti umani a Strasburgo, sede finale dell’amparo contro la violazione del Bill of Rights europeo (nel quale convergano, in rapporto virtuoso biunivoco, Convenzione e Carta, come già avvenuto, nella reinterpretazione della retroattività della lex mitior, con la sentenza della Gran Camera 17 settembre 2009, nel caso Scoppola contro Italia); la corona circolare a Lussemburgo, sede specializzata per il diverso profilo del diritto costituzionale europeo, inteso come disciplina della corretta governance della struttura istituzionale.
È però, una volta per tutte, il decisore politico che deve inquadrare la questione nel suo universo valoriale, assumendo le decisioni conseguenti. Ciò vale per l’Europa a Quarantasette, per quella a Ventisette, ma anche e soprattutto per l’Italia.
Si può procedere lungo la linea europeista “alta” della tradizione politica del primo cinquantennio repubblicano: equiparare il diritto “pattizio dell’Unione” (cioè la CEDU, quando vi avrà ingresso grazie al Trattato di accessione) al diritto comunitario derivato, attribuendo al giudizio diffuso dei magistrati italiani il potere di disapplicazione delle norme interne contrastanti; si può addirittura ritenere che tale dovere incomba anche sulla pubblica amministrazione, esattamente come deve fare a fronte delle norme comunitarie.
Oppure si può scegliere di mantenere questo giudizio in capo alla sola Corte costituzionale, mediante l’esercizio del potere dichiarativo dell’incostituzionalità (derivata dalla violazione della CEDU come “norma interposta”, come già avvenuto con la sentenza n. 93 del 2010): occorre però ricordare che a palazzo della Consulta non si accede direttamente mediante recurso de amparo, come ad esempio in Ispagna, per cui alcuni dei rilievi che i Presidenti delle due Corti europee hanno espresso (nella nota congiunta del 28 gennaio 2011, sull’accessibilità della procedura di pregiudiziale comunitaria) si traspongono – assai più gravemente – alla procedura di costituzionalità italiana.
Ma si può anche scegliere di non resistere alle spinte autarchiche di vari ordinamenti costituzionali: confidare nell’ambiguità di una ratifica autorizzata con legge ordinaria può rappresentare una scappatoia, cui appellarsi per rifiutarsi di decidere subito; così come può venire bene invocare le “clausole di salvaguardia” che il Trattato sull’Unione Europea, la Carta di Nizza e la Convenzione contengono (per la tutela dei livelli di diritti superiori a quelli riconosciuti nell’altro testo ovvero da parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri), per negare che si stanno attraversando le colonne d’Ercole del diritto europeo. A fronte della precarietà in cui versa il disegno di una “giurisdizione universale delle libertà”, vi può ben essere – nel ripiegamento municipalista, non solo nostrano – chi non intende cogliere come un’opportunità il convergente effetto dell’accessione dell’Unione alla CEDU (prevista dal Trattato di Lisbona) e del principio di complementarietà cui si ispira la Corte di Strasburgo.
Si spera che non sia questo l’intendimento che anima gli ultimi atti negoziali del nostro Paese.

 

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