L’appuntamento di aprile con il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2014 sta diventando una consuetudine: rispetto a qualche anno fa, i contenuti vengono analizzati con crescente attenzione ed anche la rilevanza mediatica è drasticamente aumentata. Prima di immergersi nell’analisi del documento, peraltro di dimensioni significative, è bene ricordare a cosa serve e per quale ragione è così importante per l’economia del Paese.

Il DEF, discendente del DPEF, è un documento di programmazione economico-finanziaria di medio termine, nel quale il governo in carica mostra gli scenari di finanza pubblica e le soprattutto gli obiettivi che intende perseguire. A tal fine vengono elencate delle misure (“azioni” nel testo), contenute nell’allegato Piano Nazionale di Riforma, attraverso cui correggere l’andamento tendenziale delle variabili principali, in primis deficit e debito pubblico.
L’intera procedura è inserita nel contesto delle regole dettate dal Semestre Europeo, per cui il documento sarà sottoposto al vaglio della Commissione tra pochi giorni, dopo l’approvazione parlamentare. Quest’ultima aiuterà poi il Consiglio nella formulazione delle raccomandazioni formali previste a giugno.
Da questa breve descrizione emergono due aspetti critici: primo, mentire sui conti e sugli obiettivi è deleterio, poiché la differenza tra quanto riportato ed i dati effettivi mina la credibilità del Paese (e si può star tranquilli che saranno in molti a vigilare); secondo, il DEF è una grande opportunità per ricucire gli strappi con Bruxelles, che oggi appare particolarmente incline ad agevolare il percorso di Renzi, per cui non bisogna sprecarla.

La valutazione dei contenuti non può che partire dalle stime di finanza pubblica, che rappresentano la sorgente da cui discendono le seguenti mille pagine del documento. La ragion d’essere del DEF, infatti, è proprio il monitoraggio sul disavanzo e quindi sulla tendenza del debito pubblico. Secondo le stime del Ministero, al netto di qualunque intervento (stima tendenziale), il deficit si attesterà al 2,6% nel 2014, per poi calare rispettivamente al 2% ed all’1,5% nei due anni successivi. L’obiettivo programmatico posto dal governo Renzi ha una fondamentale caratteristica innovativa rispetto ai DEF precedenti: non prevede un aggiustamento fiscale per l’anno in corso, per cui l’obiettivo di deficit rimane il 2,6%, mentre dovrebbe scendere all’1,8% nel 2015 ed allo 0,9% nel 2016.

Due considerazioni possono essere estrapolate tra le righe di questi numeri, che le anonime tabelle e le asettiche descrizioni nel documento non riescono ad evidenziare. La prima riguarda la sfida lanciata dal governo Renzi ai tecnocrati di Bruxelles, le cui regole (Six Pack, Fiscal Compact) impongono il raggiungimento di bilancio nel medio periodo, da cui discende l’implicito vincolo a programmare un aggiustamento immediato (nell’anno in corso) quando il deficit è negativo e sfiora il tetto del 3%, come nel nostro caso. I tagli secchi, dunque, saranno posticipati agli anni successivi, mentre nel 2014 sono previste riforme fiscalmente neutrali, per cui la bilancia tra tagli e nuova spesa dovrebbe essere sostanzialmente in pareggio.

La seconda considerazione concerne lo spostamento del pareggio di bilancio al 2016 che, secondo il ministro Padoan, è in linea con i trattati e soprattutto con il vincolo costituzionale di pareggio di bilancio. Quest’ultimo, introdotto dal governo Monti, concede un margine di manovra nel momento in cui sussistano motivazioni “eccezionali”, quali una congiuntura macroeconomica particolarmente sfavorevole.
Di fatto, la norma può essere aggirata in modo semplice, come dimostra l’approccio del governo attuale, anche perché le condizioni di emergenza economica non sono chiaramente definite. Ai più puntigliosi non sarà poi sfuggito che l’indebitamento netto previsto nel DEF per il 2016 è dello 0,9%, quindi non in pareggio.
In questo contesto, si gioca con la definizione di deficit “strutturale”, che si differenzia da quello contabile per via dell’inclusione della cosiddetta “componente ciclica”: in pratica, il rapporto deficit/PIL viene calcolato sulla base del PIL “potenziale” e non su quello “tendenziale”. La comparazione tra i due valori mostra, in buona sostanza, che il prodotto italiano soffre di limiti persistenti (strutturali, appunto), per cui nel 2016 il PIL sarà inferiore di circa l’1% rispetto a quello che potrebbe essere se tali limiti fossero eliminati.
Per completezza, è bene sottolineare che questi calcoli sono oggetto di molteplici critiche sotto l’aspetto metodologico, ma rimangono il benchmark su cui si fondano le regole comunitarie.

La comprensione delle dinamiche appena descritte rappresenta il background necessario per valutare la fattibilità delle numerose (forse troppo) azioni che il governo intende intraprendere.
A tal proposito, rimane alquanto fumosa la questione delle coperture, soprattutto per quanto concerne il 2014. Nel futuro immediato, infatti, il taglio di 10 miliardi sull’Irpef, quello dei famosi 80 euro al mese in busta paga, sarà affiancato dallo smaltimento dei debiti della P.A. in autunno, più gli sgravi Irap ed il sostegno alle piccole e medie imprese. I soldi, sulla base del documento, dovrebbero arrivare principalmente dalla spending review, oggetto ancora misterioso, dall’ultima chiamata per il rientro dei capitali all’estero e dall’incremento della tassazione sulle rendite finanziarie.
Come descritto in precedenza, l’obiettivo del deficit non si scosta dal valore tendenziale, per cui si assume che l’insieme di queste riforme (più altre minori) sia a somma zero: difficile da credere, visto che i soli debiti della P.A. ammontano ancora ad almeno 25 miliardi. Il miglioramento del deficit, da ottenere principalmente attraverso maggiori entrate, è invece rinviato agli anni successivi.
Punti salienti in tal senso sono le massicce privatizzazioni (Poste su tutti) e la vendita dei beni dello Stato per circa 10 miliardi all’anno. Come la storia dei DEF ci insegna, tuttavia, in Italia le previsioni successive all’anno in corso hanno un livello di credibilità estremamente basso, determinato soprattutto dall’instabilità politica.

In realtà il governo Renzi tiene in serbo due armi non del tutto chiarificate nel documento, che rappresentano una speranza più che una certezza. La prima è l’abbassamento ulteriore degli interessi sul debito, da consolidare attraverso l’endorsement del proprio operato da parte dei colleghi europei (e non solo), che possa favorire la fiducia nei mercati.
La seconda speranza riguarda il PIL, per cui una crescita anche minima rispetto alle modeste aspettative porterebbe ad un miglioramento del rapporto col deficit. Potrebbe sorprendere, alla luce di questi fattori quantomeno incerti, il silenzio/assenso da parte di Bruxelles, che anzi sembra appoggiare lo slittamento del pareggio al 2016 (era previsto già a fine 2013 con Monti).
Le blande dichiarazioni del Commissiario Olli Rehn, se rapportate alle a quelle relative ai DEF presentati da Berlusconi, Monti e Letta, fanno pensare ad una tregua politica in vista delle elezioni europee, finalizzata a sedare le spinte anti-europeiste, specie dopo il successo recente del partito della Le Pen in Francia. Considerando anche l’avvicinarsi del semestre di presidenza Italiana al Consiglio e la rinnovata fiducia nei mercati rispetto al nostro debito, esternare diffidenza in questo momento sarebbe politicamente poco conveniente, per tutti. 

Per il documento: http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/def/2014/

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