Le “conversazioni private”, nell’era della loro riproducibilità tecnica (tanto per dirla con il buon Benjamin), sono strumenti pericolosi perché da private possono, facilmente, divenire pubbliche e quel che si sono detti nel chiuso di una stanza due (o più) colloquianti può essere portato a conoscenza di molti.
Il “caso De Girolamo”, che, da giorni, occupa le prime pagine dei giornali e, ovviamente, il blog e che campeggia come notizia di apertura dei telegiornali, è emblematico.
Al proposito, alcune (gravi) imprecisioni sono state dette e diffuse.
La prima è che il ministro sarebbe stato intercettato.
La seconda che si sarebbe trattato di una intercettazione abusiva.
Ebbene, è stato chiarito (anzi ribadito) che non costituisce intercettazione – e quindi non è soggetta al regime di autorizzazione proprio di questa – la registrazione di un colloquio che un interlocutore esegua, ai fini della memorizzazione dello stesso, anche all’insaputa degli altri partecipi alla conversazione (Cass. pen. sez. prima sent. n. 6297, ud. 10.12.2009- dep. 16.2.2007, ric. PG in proc. Pesacane e altri, Rv. 246106).
L’intercettazione infatti è altra cosa: essa consiste nella captazione – occulta e contestuale – di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa, mediante strumenti tecnici di percezione, tali da vanificare le cautele, ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato (Cass. pen. sez. unite, sent. 36747, ud. 28.5.2003- dep. 24.9.2003, ric. Torcasio e altro, Rv. 225465).
Ben diverso, dunque, è il caso (è la stessa sentenza “Torcasio” che lo precisa) in cui la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, avvenga ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi; e ciò anche se la registrazione sia eseguita clandestinamente. Si tratta, infatti, semplicemente di una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo, secondo la disposizione dell’art. 234 cod. proc. pen. (salvi, si intende, gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione, divieti che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa). Si tratta, in ultima analisi, di una prova documentale (dunque precostituita) ai sensi, appunto, dell’articolo sopra richiamato (conformemente: Cass. pen. sez. quarta, sent n. 40332, ud. 4.10.2007- dep. 31.10.2007, ric. Picillo, Rv. 237789).
Insomma: registrare una propria conversazione (anche all’insaputa dell’interlocutore) è lecito, in quanto il colloquio appartiene, per così dire, a entrambi i colloquianti (congiuntamente, ma anche disgiuntamente).
La liceità, tuttavia, viene meno se chi procede alla registrazione sia un appartenente alla polizia giudiziaria e se la registrazione (occulta) sia stata effettuata nel corso di operazioni investigative, ovvero durante colloqui che poliziotti, carabinieri o finanzieri abbiano intrattenuto con indagati, confidenti o persone informate sui fatti, (scil. quando si tratti di dichiarazioni indizianti raccolte senza le garanzie indicate all’art. 63 cod. proc. pen., ovvero di informazioni confidenziali inutilizzabili per il disposto dell’art. 203, o anche di dichiarazioni sulle quali sia preclusa la testimonianza in applicazione degli art. 62 e 195 comma quanto del codice di rito; è sempre la “Torcasio” che lo chiarisce: Rv. 225467).
In tal caso, vigono, infatti, precisi divieti di legge, posti a tutela del diritto di difesa e di soggetti obiettivamente in stato di difficoltà quali sono l’indagato o l’imputato.
Tutt’altra storia quella del “caso De Girolamo Nunzia”: un soggetto va a colloquio col ministro (all’epoca “semplice” parlamentare) e, senza che la sua interlocutrice se ne renda conto, registra la loro conversazione.
Modus operandi poco corretto, certamente. Il “registrante”, in quella occasione, non si è comportato esattamente da gentiluomo, ma neanche si può dire che la sua interlocutrice abbia parlato come una lady e non solo per il linguaggio da trivio cui ha fatto abbondante ricorso (pudicamente indicato, nel corso della sua autodifesa strappalacrime in Parlamento, come uso di “espressioni colorite”), ma per i contenuti certamente allarmanti della conversazione.
Non è dubbio che la sfera di privacy di un “uomo pubblico” (usiamo questa espressione anche per le signore, perché “donna pubblica” ha, tradizionalmente, altro significato) è ben più ristretta di quella di un quivis de populo. Chi esercita un munus publicum deve render conto ai cittadini del suo operato, non solo in pubblico, ma anche – entro certi limiti (il problema è stabilire quali) – anche nella sua sfera privata. E se il munus è di natura elettiva, a nostro parere, l’obbligo di trasparenza è ancora maggiore. La democrazia rappresentativa comporta (comporterebbe) la possibilità di controllo – continuativo e capillare – del rappresentante da parte dei rappresentati: devo poter sapere se che agisce “in nome e per conto” mio, chi, appunto, “mi rappresenta” in base a un mandato elettivo, si comporta in maniera conseguente agli impegni assunti e alle promesse fatte quando ha chiesto il voto. L’elettore deve poter essere messo in grado di giudicare la coerenza tra le parole e i fatti da parte dell’eletto e “i fatti” sono, non solo quelli che si compiono apertamente nell’agone politico, ma anche quelli che riguardano la vita privata dell’eletto, se essi hanno riflesso sulla sua attività pubblica. Il deputato (il senatore, l’assessore ecc.) Jekyll non deve nascondere nessun mister Hyde e ciò non c’entra nulla con l’assenza del vincolo di mandato (art. 67 Cost.), perché l’eletto è certamente libero nelle sue scelte politiche, ma di esse deve, appunto, render conto. E se anche le scelte politiche maturano nel chiuso di una casa, se incidono su beni e servizi di interesse comune, magari materiandosi di interessi privati (o comunque particolari), esse certamente interessano i cittadini-elettori.
Le parole, a volte, possono essere seducenti (le parolacce meno), ma i fatti sono argomenti testardi. E tra i fatti pubblici e quelli privati c’è (ci può essere) la stessa differenza che riscontriamo tra una foto di un soggetto che si mette in posa e un’istantanea “a sorpresa”. È utopistico (e forse sarebbe anche inopportuno) pretendere che un politico dica (sempre) quel che pensa, ma è esigibile che faccia quel che dice.
La coerenza, appunto. Ma anche la correttezza, quella che il Costituente (art. 54 comma secondo) pretende per i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, da esercitarsi, così scrissero tanti anni fa, “con disciplina ed onore” (sic!).
A ben vedere, poi (almeno a quel che si comprende) di privato il colloquio clandestinamente registrato a casa De Girolamo aveva solo la location. I contenuti erano di interesse pubblico: la gestione di una ASL, la nomina dei suoi vertici, i contrasti tra vari clan politici locali, la gestione delle clientele, ecc..
Se la diffusione di un colloquio “riservato” contribuisce a svelare gli arcana imperii, gli accordi sottobanco, le manovre scorrette, le prevaricazioni, le prepotenze, le condotte al limite della concussione, non ci sentiamo di condannare il fenomeno. E ciò al di là delle intenzioni del “diffusore”, il quale, nel caso di specie, probabilmente voleva procurarsi solo uno strumento di pressione e/o di difesa (siamo consapevoli di usare eufemismi, ma vogliamo evitare il rischio di cadere nel turpiloquio ministeriale).
Il registratore come strumento di controllo democratico, dunque?
Perché no!? Se consente di legare il dichiarante alle sue dichiarazioni, ben venga. Se permette di capire “di che lacrime gronda e di che sangue” l’esercizio del potere, esso torna utile.
Al pari del web e di altri apparati tecnici, che, se correttamente adoperati, danno la possibilità di esercitare un minimo di controllo su coloro cui abbiamo affidato il nostro presente e il nostro futuro.
La rivoluzione tecnologica è anche questa: una volta verba volabant, nunc manent.
Cari rappresentanti, estote parati.