Sempre ricercata, mai banale, la programmazione del festival di Aix diretto da Bernard Foccroulle, riesce a presentare il genere dell’opera lirica non come un oggetto da museo ma come uno specchio della realtà contemporanea. Uno degli appuntamenti clou, quest’anno, era la tragedia biblica David e Jonathas di Marc-Antoine Charpentier, affidata alle mani esperte di William Christie e Les Arts Florissants. Composta su libretto del gesuita François de Paule Bretonneau, rappresentata per la prima volta nel febbraio del 1688 al collegio parigino Louis Le Grand, riscoperta nel 1981 ma raramente messa in scena, racconta la storia di David, accusato ingiustamente di tradimento, la sua amicizia con Jonathas, figlio del re Saul, la guerra tra israeliti e filistei che contrappone i due amici e che vede alla fine Jonathas morire tra le braccia di David.
È un’opera raffinata e palpitante, ricca di cori e di arie ampiamente sviluppate, di grande forza espressiva, un inno all’amore e una condanna del cinismo della guerra. Peccato che il cortile dell’Archevêché non fosse proprio il luogo ideale per svelare le finezze vocali e strumentali della partitura. E anche la direzione di Christie mirava all’omogeneità dell’insieme, alla fluidità delle linee, più che a mettere in risalto i contrasti drammatici, la ricchezza dei colori, le frequenti fratture ritmiche, l’alternanza tra languidezze liriche e le fiammate improvvise. In più c’era il problema della lentezza dell’azione, di una drammaturgia austera, statica, oratoriale. La regia di Andreas Homoki cercava di risolverlo attraverso un continuo gioco di flash-back, di pantomime collocate in ogni interstizio strumentale dell’opera, che mostravano David e DAVID585Jonathas bambini, scenette familiari apparentemente serene, ma cariche di tensione e funesti presagi. E attraverso la plastica contrapposizione delle masse corali e dei due popoli in conflitto (i costumi di Gideon Davey suggerivano le guerre moderne tra palestinesi e israeliani), all’interno di una scenografia astratta fatta di spazi a geometria variabile, realizzata da Paul Zoller: un interno rivestito di legno, claustrofobico, come una gigantesca scatola, divisa in più stanze che cambiavano dimensione a vista attraverso lo spostamento delle pareti laterali e del soffitto. Magnifica la prova di Pascal Charbonneau nei panni di David, perfetto haute-contre alla francese, che cantava con finezza e passione, con una voce timbrata e assai espressiva. Commovente Jonathas interpretato da Ana Quintans, soprattutto nella sua aria finale, e notevoli il Saul di Neal Davies, tormentato, duttile nel passare dalla rabbia guerriera al lamento sul figlio morente, e Dominique Visse nel ruolo en travesti della pitonessa di Endor, l’indovina che evocava l’ombra di Samuele.

 

LENFANT445Ravel e la soffitta polverosa
Ricca di seduzioni anche la riduzione cameristica dell’Enfant et les sortilèges di Ravel, messa in scena da Arnaud Meunier nel piccolo teatro del Jeu de Paume. La partitura è stata trascritta da Didier Puntos per pianoforte a quattro mani, flauto e violoncello, e i quattro musicisti, in buffi abiti un po’ dandy, diventavano parte integrante della rappresentazione. Lo spettacolo esaltava la dimensione intimista e onirica dell’opera, trasformando la scena in una soffitta polverosa, immersa in una luce fioca, dove oggetti e mobili accatastati prendevano vita (scene e costumi di Damien Caille-Perret): la poltrona diventava un personaggio su sedia a rotelle, l’orologio (che aveva perduto il suo pendolo) un uomo in mutande che si copriva imbarazzato le pudenda (bravissimo Guillaume Andrieux), la teiera una figura munita di un grande “protesi” (ottimo il tenore Valerio Contaldo) che mirava all’ampio svasato colletto della tazza (Eve-Maud Hubeaux). Tra gli interpreti, giovanissimi ma promettenti, nonostante qualche sbavatura negli insiemi, spiccavano Clémence Tilquin, una principessa che appariva come in un sogno dall’interno di un armadio rivestito di un cielo stellato; Mercedes Acuri, che sfoggiava agili colorature nella parte del fuoco, agitandosi in un costume traslucido, in piedi su una cassettiera, avvolta da bagliori rossastri; e soprattutto la minuta, bravissima Chloé Briot, nei panni del protagonista, soprano venticinquenne, dotata di una tecnica perfetta e di grande musicalità.

 

WRITTEN6113La vita del trovatore Guillem de Cabestanh
Grande attesa c’era poi per la nuova opera di George Benjamin, Written on skin, messa in scena al Grand Théâtre de Provence, e diretta dallo stesso autore sul podio della Mahler Chamber Orchestra. Ed è stato un trionfo, con standing ovation per il compositore. Benjamin si è cimentato con quest’opera (dopo il successo di Into the Little Hill nel 2006), proprio su richiesta di Bernard Foccroulle, che ha posto come unica condizione che la nuova opera fosse in qualche modo legata alla Provenza. Benjamin si è così ispirato a una leggenda occitana del XIII secolo, Le Coeur Mangé, una razó che narra la vita del trovatore Guillem de Cabestanh. Nell’opera (coprodotta con la Nederlandse Opera, il Théâtre du Capitole de Toulouse, il Covent Garden e il Maggio Musicale Fiorentino), il protagonista diventa un giovane miniatore, invitato da un ricco latifondista (The Protector) a realizzare un libro illustrato, che celebri le sue virtù, il potere politico e economico, l’ordine domestico, incarnato dall’umile e obbediente moglie Agnès. Ma questa si ribella: seduce l’artista e approfitta dell’intimità con lui per cambiare radicalmente il contenuto del libro, con un’esplicita descrizione della loro relazione amorosa. Il marito uccide allora il giovane, gli estirpa il cuore, e lo serve a cena alla moglie, ignara. Ma quando le svela la verità, lei, impassibile e sfrontata, gli risponde che è la cosa più deliziosa che abbia mai mangiato, e che niente potrà togliere qual meraviglioso sapore dalla sua bocca. Questo lavoro, che è anche un’opera sulla forza della rappresentazione, nasce anche dalla suggestione di una mostra di manoscritti che Benjamin aveva visto alla British Library: «Pensa quanto tempo è stato necessario, lavorando solo con la luce naturale. Ogni pagina ha un preciso disegno geometrico, come se fosse un progetto architettonico, ma combinata con una fantasia decorativa davvero estrema». E un lavoro da miniatore è stata anche la composizione di quest’opera, che ha tenuto Benjamin impegnato per 26 mesi, durante i quali ha smesso di dirigere, insegnare, viaggiare, facendo una vita quasi monastica, componendo con grandissima concentrazione: «È la prima volta che scrivo un pezzo su così grande scala: è straordinario nuotare in un oceano così vasto […] ma mantenere spontaneità e fluidità è una grande sfida, che non potevo affrontare se non mi fossi completamente isolato […] Non potevo permettermi alcuna distrazione, perché basta il minimo errore nel timing del dramma e le conseguenze possono essere molto gravi».

 

Un gioco di tensioni in tre atti
Ma lo sforzo sembra essere stato ripagato da un risultato straordinario: 100 minuti di musica avvolgente e sensuale, abilmente contrastata nei suoi diversi episodi, dotata di una solida architettura drammatica, in tre atti, e di un calibratissimo equilibrio nel gioco delle tensioni. Una musica movimentata e iridescente, piena di allusioni e di allucinazioni, fatta di textures strumentali sensibili come sismografi, capaci di cogliere ogni sfumatura nell’animo dei personaggi, ma anche il contenuto di sesso e di violenza che permea l’opera, come nella scena della seduzione tra Agnès e il ragazzo che raggiungeva un climax e si concludeva con una specie di prolungato battito cardiaco. Benjamin ha dato ancora prova del suo perfezionismo formale e timbrico, utilizzando un ampio organico orchestrale, che includeva anche alcuni strumenti insoliti, come la viola da gamba (utile a creare squarci di ricercati arcaismi) e una Glassharmonica, e una vasto set di percussioni (per quattro esecutori), senza rinunciare ad alcune espansioni liriche (soprattutto nelle scene di Agnès), a momenti pieni di mistero, a magici trascoloramenti tra strumenti e voci. Merito della riuscita andava anche al libretto di Martin Crimp, originale e poetico, ma sempre comprensibile, privo ogni enfasi o retotrica, con i personaggi che parlavano con una forma di distacco, come fossero narratori delle proprie storie (le parti di ogni dialogo erano introdotte da «dice lui» o «dice lei»).

 

WRITTEN613L’estro di Benjamin
Su questo testo Benjamin è riuscito a creare una scrittura vocale efficace, miracolosa nella sua bellezza, evitando il declamato, il parlato e ogni altro sotterfugio tipico di tanta opera contemporanea, plasmando stili vocali diversi per ogni personaggio: il falsetto pieno di ambiguità per la parte del ragazzo, interpretato da uno straordinario Bejun Mehta, una tormentata parte baritonale per il marito, cui dava voce e volto Christopher Purves, che coglieva ottimamente il lato insieme crudele e molto umano del suo personaggio, le linee virtuositiche e acute per la parte di Agnès, affidata a Barbara Hannigan, impareggiabile sia come cantante che come atttrice, sensuale, capace di trasformare la sua voce in sostanza sonora fremente, che bruciava di desiderio. Il mezzosoprano Rebecca Jo Loeb (Marie, sorella di Agnès) e il baritono Allan Clayton (John, marito di Marie) completavano la galleria umana (e angelica) di questa vicenda. La regia di Katie Mitchell giocava abilmente sullo spazio e sul movimento, sfruttando la scenografia su due piani di Vicki Mortimer, come spaccato di un condominio: interni dai colori soffusi (con un piccolo bosco attiguo), illuminati da fioche luci, che davano loro una forte valenza pittorica, costituivano lo spazio della rappresentazione dove si muovevano i personaggi, in costumi antichi; ad essi si affiancavano spazi illuminati da luci al neon, come laboratori, dove si muoveva en ralenti il trio degli angeli, in abiti moderni, dove avvenivano le vestizioni dei vari personaggi, dove si preparava la cruenta cena di Agnès – spazi asettici, come luogo della coscienza, punto d’osservazione esterno della vicenda. Il risultato di questo contrasto di ambienti era avvincente, accentuato anche dai repentini cambi di luce (di Jon Clark). Come un viaggio negli abissi dello spirito umano che terminava con una lenta, metafisica salita verso l’alto, nella corsa rallentata sulla scala condominiale alla fine dell’opera.

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