Il circolo vizioso in cui ristagnano le potenzialità di crescita economica per l’Italia è stato certificato questa settimana anche da Standard & Poor’s. Sebbene le posizioni delle agenzie di rating rimangano discutibili e spesso nascondano una precisa volontà di indirizzare il mercato, ad esempio per aprire le porte alla speculazione, un fondo di verità si può sempre trovare. L’analisi, in buona sintesi, tenta di illustrare in modo asciutto il cappio al collo del credito bancario che attanaglia le nostre imprese, le quali incontrano sempre maggiori difficoltà nel reperire finanziamenti da utilizzare in investimenti produttivi.

Nonostante i titoli da prima pagina, che parlano di “furto” delle banche alle imprese, il rapporto analizza la questione sotto il mero profilo dell’economicità, non facendo alcun riferimento a questioni legali o morali. S&P registra semplicemente il fatto che il credito concesso alle imprese si è ridotto di ben 44 miliardi nel 2012 e cerca di descrivere cause e conseguenze di tale fenomeno. Sul primo fronte agiscono più fattori: con il perdurare della crisi economica, le prospettive di crescita si sono di fatto azzerate, per cui da un lato sono le stesse imprese che chiedono meno finanziamenti, mentre dall’altro le banche vogliono garanzie crescenti sulla capacità di sostenere l’onere di un prestito, imponendo al tempo stesso tassi maggiori al crescere del rischio. Conseguenza di tale contesto è l’aumento della percentuale di bond emessi dalle imprese, che oggi costituisce solamente l’8% delle risorse, ma che l’agenzia di rating prevedere al 12-13% tra qualche anno.
Le obbligazioni rappresentano un modo alternativo per reperire le risorse economiche per coprire il fabbisogno di un’impresa, nel tentativo di coinvolgere investitori privati che non siano le banche. Si tratta di un meccanismo fondato sulla reputazione e sulla fiducia, che in un certo senso emancipa l’impresa dall’influenza degli istituti di credito sulle scelte aziendali, troppo spesso guidate dall’istinto di sopravvivenza piuttosto che da uno spirito innovativo. Il riscorso alle obbligazioni è dunque un dato positivo, in quanto diversifica il rischio ed allenta l’endemica dipendenza dalle banche, ma è al tempo stesso rischioso nel caso in cui gli obiettivi di bilancio non vengano raggiunti. Il tessuto produttivo italiano, tuttavia, non sembra in grado di affrontare una rapida trasformazione in questo senso, che richiede tempo e soprattutto strutture manageriali adeguate.
L’evidenza dimostra che l’emissione di bond funziona per le grandi imprese, che gestiscono grandi marchi internazionali e godono di una stabile reputazione. Nel caso italiano, invece, la grande maggioranza delle attività produttive è portata avanti da medie e piccole imprese, di cui gli investitori privati non si fidano semplicemente perché non le conoscono. Per questo le banche, generalmente presenti a livello locale, rappresentano il canale privilegiato, se non l’unico possibile. Nel momento in cui le aziende non riescono più finanziarsi in banca, emettono obbligazioni, che generalmente costano di più perché non sono attraenti sul piano della redditività. In sintesi, la dimensione d’impresa, la scarsa cultura imprenditoriale, la separazione tra proprietà e gestione sono tutti fattori limitanti per lo sviluppo di un mercato dei bond.
Un concetto fondamentale nell’ambito del finanziamento è certamente la lungimiranza aziendale, espressa attraverso prospettive credibili di crescita e dalla capacità futura di generare utile. Gli investimenti, in linea di principio, dovrebbero avere questo scopo, ma la realtà italiana mostra uno scenario alquanto deprimente sotto questo aspetto. Nel corso di questi anni, il ricorso al debito è semplicemente servito a coprire altro debito precedentemente accumulato: i prestiti delle banche sono necessari non per sviluppare nuovi prodotti o metodi di produzione, ma per pagare le passività correnti quali gli stipendi e le forniture. Anche ammesso che le imprese italiane riescano a piazzare le proprie obbligazioni, queste vanno a sostituire i mancati crediti bancari e quindi a coprire le spese, non certo per incrementare i livelli d’innovazione. Il privato anticipa tale comportamento e, fiutando il rischio, non investe oppure chiede interessi proibitivi.
Le colpe del sistema aziendale italiano sono dunque molte, ma anche gli istituti di credito non sono esenti da responsabilità oggettive. Gli istituti, infatti, negli ultimi anni hanno goduto di un regime di finanziamento da parte della BCE estremamente agevolato, prendono soldi a tassi minimi. Il punto è che tali risorse, immesse nel mercato sia per scongiurare i rischi di fallimento che per riattivare i canali di credito alle aziende, sono stati utilizzati quasi esclusivamente per ricapitalizzare e per depurarsi dalla presenza di strumenti pericolosi e titoli di Stato particolarmente tossici. L’obiettivo centrale è stato quello di garantire i dividendi agli azionisti, con scarsissime ricadute sull’economia reale. Non è dunque possibile usare il parafulmine dell’Euro per giustificare il fenomeno: l’adesione alla moneta unica è stata una condizione necessaria per impedire una feroce stretta sui presiti e sui mutui, grazie al rifinanziamento quasi gratuito concesso al sistema bancario.
Il nodo della questione è quasi elementare: non è possibile, sulla base dell’attuale regime normativo, costringere gli istituti ad immettere liquidità sul mercato, perché le scelte allocative spettano al management e non certo ai governi. La banca, in altre parole, opera come una qualunque azienda produttiva, massimizzando i ricavi e minimizzando le perdite. In funzione di tale principio, la mancata separazione tra banca commerciale e d’investimento ha determinato questa situazione per cui conviene speculare in strumenti finanziari, convenienti nel breve periodo, piuttosto che dar credito alle imprese. Sebbene il legislatore non abbia alcun diritto di intervenire, il prezzo irrisorio a cui le banche si finanziano rimane tuttavia determinato da una scelta politica, per cui sarebbe opportuno che su quel risparmio i governi imponessero un vincolo. Ad oggi questo accade solamente nei casi estremi, quali le nazionalizzazioni, viste come una minaccia inconcepibile al libero mercato. Tra l’altro, per rendere efficace misure forti d’indirizzo, sarebbe necessaria un’operazione globale, o quantomeno europea, al fine evitare una massiccia fuga di capitali verso lidi più remunerativi.
Occorre dunque che i governi incentivino gli investimenti delle imprese compatibilmente ai principi economici vigenti, ad esempio attraverso la creazione di appositi fondi di garanzia sui prestiti o sgravi fiscali per chi fornisce il credito. Le agevolazioni dovrebbero essere costruite in modo che l’apertura del credito diventi conveniente per gli istituti, altrimenti non sorgerà mai un vero interesse a finanziare l’economia reale. Non essendo possibile fare affidamento sull’etica, bene piuttosto scarso specialmente in questo ambito, occorre che anche le imprese cambino struttura, imparino a preferire la managerialità piuttosto che il mantenimento a tutti i costi dello status quo. Le aziende italiane, in poche parole, per sopravvivere dovranno rimettersi a studiare l’economia d’impresa.

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