Il simbolo di quell’improbabile sogno è il minareto, una delle poche strutture rimaste: qualche ragazzo con ironia vi ha anche disegnato sopra un “Suicide path”, un “Sentiero del suicidio”. Metafora, chissà quanto voluta, del suicidio imprenditoriale che in queste terre, poche decine di anni fa, ha compiuto il Conte Mario Bagno.
Siamo a Consonno, Brianza lecchese: da una parte l’Adda, dall’altro il lago di Olginate. Qui, in una terra di castagne, sedano e devozione cattolica, nel 1962 il Conte Mario Bagno da Vercelli decise di costruire una Las Vegas italiana, una città dei balocchi, un enorme parco di divertimenti. Fu così che Consonno, frazione di Olginate, trecento abitanti distribuiti in poche cascine, case e corti, venne rasa al suolo quasi completamente: rimasero in piedi solo il cimitero e la chiesa.

Ruspe, trattori e gru invasero quel pezzo di collina che si affacciava sull’Adda, per dare inizio alla costruzione di un nuovo paradiso artificiale. “A Consonno è sempre festa”, recitava un cartellone metallico di benvenuto. Sotto gli occhi compiaciuti del conte Bagno, le case venivano abbattute, le strade spianate, addirittura le alture abbassate a suon di esplosivi, per non rovinare l’idea di paesaggio che quell’imprenditore piemontese aveva in mente. La Las Vegas lombarda prendeva vita: di lì sarebbero passati Pippo Baudo, i Dik Dik, Celentano (che poi avrebbe preso casa a Galbiate, a pochi chilometri da Consonno). Una vita effimera, però, breve e nemmeno troppo intensa. A partire dagli anni Settanta la città dei sogni si smorzava lentamente, spaventata dalle prime denunce e da frane e smottamenti: la banale ribellione della natura a chi osa compromettere equilibri idro-geologici stabili da migliaia di anni. Non si può pensare di far esplodere una montagna e passarla liscia.

Oggi, di quel sogno infranto, rimane ben poco: il minareto, appunto, eredità kitsch, quasi volutamente finta, di un progetto che in realtà sembra non essere mai stato progettato fino in fondo; qualche struttura vuota, probabilmente pericolosa, in cui calcinacci e vetri infranti si alternano a graffiti e disegni sui muri. Un camion abbandonato da decenni, il cui sedile è sostituito da assi di legno; una locomotiva in mezzo all’erba; muri distrutti, materassi, poltrone, sedie marcite, occhiali, lattine, bottiglie. Una piccola discarica, una città fantasma che però non è propriamente disabitata. Soprattutto la domenica, Consonno diventa una meta turistica sui generis: destinazione, o vittima, di un turismo all’incontrario, di visitatori che salgono fin quassù, affrontando strade tortuose e a dir poco sconnesse, per osservare un pezzo di passato, in attesa di capirne il futuro. Giovani e meno giovani, che si ritrovano al bar (nato dove un tempo c’era la locanda, e che ora è aperto solo la domenica, dalle dieci alle diciannove) per una birra e una partita a carte, consapevoli di trovarsi in mezzo a un ex paradiso distrutto, un regno dei balocchi, una enorme camera piena di giocattoli, disordinata come tutte le camere piene di giocattoli: perché è disordine, costruire nello stesso posto minareti, porticati commerciali, fontane e Hotel Plaza.

Oggi, in quella Consonno che dovrebbe rimanere per sempre com’è, a imperitura testimonianza di come l’uomo – in pochi anni e con tanti soldi – possa distruggere un paesaggio (ma anche il buon gusto, un borgo, le vite di centinaia di persone), i turisti all’incontrario passano stupiti, fotografano, guardano e poi corrono a casa a cercare su Internet la storia di quel posto. E scoprono che ogni tanto la devastazione viene completata da rave party organizzati ben al di fuori dei limiti della legalità. Perché, era forse legale distruggere e ricostruire Consonno?

Il regista Davide Ferrario qualche anno fa ha voluto girare proprio di fianco al minareto una scena del suo film “Figli di Annibale”, facendo dire al protagonista Silvio Orlando: “Ma chi ci viene qua sopra? Questo posto è triste, mette l’angoscia”. E, poco dopo “Ho fatto una rapina, tu fai l’imprenditore: rubiamo i soldi uguale, solo che io rischio di più”.
Qui, hanno rapi(na)to una città intera.

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