L’effetto più eclatante della caduta a picco dell’economia nazionale è riscontrabile nell’impossibilità per molte aziende di far fronte ai propri debiti.

Contrariamente a quanto avveniva in precedenza e a quanto comunemente si crede, attualmente con l’interpretazione autentica data dalla Corte Suprema di Cassazione a sezione unite all’art. 2495 del Codice Civile (nell’attuale formulazione derivante dalla riforma societaria di cui al D.lgs 17/01/2003 n. 6, con effetto dal gennaio 2004) è pienamente legittimo, in caso di estesa situazione debitoria non rimediabile, che la società venga semplicemente chiusa, con buona pace per i creditori che rimangono insoddisfatti (incluso lo Stato).

LA CANCELLAZIONE DELLA SOCIETA’ SECONDO L’ART. 2495 C.C.

La questione è di estrema importanza in quanto da un lato i creditori non hanno più alcuna garanzia di rivalsa, e dall’altro, con una attenta gestione, mediante idonei professionisti, i rischi per i soci divengono pressoché inesistenti.
Con la riformulazione del diritto societario l’art. 2495 c.c. prevede che “approvato il bilancio finale di liquidazione i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal Registro delle Imprese”.
Per le società di capitali, ferma restando l’estinzione dell’ente, dopo la cancellazione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci solo fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione e nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.
In sostanza è sufficiente che nel bilancio finale non venga riportato alcun credito distribuito fra i soci, che questi siano esenti da ogni responsabilità.
L’interpretazione della norma era stata portata all’attenzione della Corte di Cassazione in più occasioni sotto vari profili: da un lato in quanto sembrava ingiusto rispetto alla previgente normativa, che impediva la chiusura della società con pendenze o cause in corso, che tutti i creditori incluso lo Stato, rimanessero ora esclusi da ogni possibilità di recupero del credito e dall’altro restava il dubbio se la nuova disciplina fosse applicabile anche alla società di persone.

L’INTERVENTO DELLA CORTE SUPREMA A SEZIONE UNITE

La Cassazione interveniva sul punto con tre pronunce, la numero 4060, la numero 4061 e la numero 4062 del 2010 con le quali veniva chiarito sostanzialmente che, a seguito della modifica dell’art. 2495 c.c. disposta dalla nuova normativa societaria, la cancellazione dal Registro delle Imprese determinava comunque l’estinzione della società, anche in presenza di crediti rimasti insoddisfatti e di rapporti giuridici non ancora definiti.
La stessa disciplina doveva essere applicata anche alle società di persone, ferma restando per queste la responsabilità solidale del socio accomandatario per le società in accomandita semplice e di tutti i soci per le società in nome collettivo.
Tale orientamento è stato riconfermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con l’ultima sentenza del 22/02/2010, la n. 4062 definendo la situazione di incertezza venutosi a creare a seguito dell’interpretazione da darsi alla norma, precisandosi in modo definitivo che “L’iscrizione e la cancellazione della Società di Capitali nel Registro delle Imprese determina dal 01/01/2004, data dell’entrata in vigore della modifica normativa apportata dall’art. 2495 c.c. l’estinzione di fatto della Società”.

L’ESTINZIONE INIBISCE QUALUNQUE PROCEDIEMENTO IN CORSO

Sempre sul punto la Cassazione ha riconfermato di recente – il 12 ottobre 2012 – con la sentenza n. 17500, che una volta estinta la società (anche se l’estinzione viene decisa ed operata in corso di causa), non possa più essere proseguito alcun processo.
Quindi in pratica anche se un soggetto convenga in giudizio una società per il riconoscimento del proprio credito, i soci possono tranquillamente durante il processo deliberare la cancellazione, con conseguente estinzione della società stessa. Ciò porterà tranquillamente alla pronuncia di interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c. precludendo ogni ulteriore pretesa di accertamento del debito societario.

LA PERDITA DEL CREDITO

I creditori della società, salva l’ipotesi di società di persone nelle quali possono comunque perseguire il socio accomandatario o i soci della società in nome collettivo (tuttavia, in genere, questi si saranno ben premurati in precedenza di spogliarsi di ogni bene), possono attaccare gli altri soci soltanto nell’improbabilissima ipotesi in cui nel bilancio finale, che deve essere depositato alla chiusura, risulti che determinate somme siano state attribuite ai soci.
Tuttavia tale situazione è ben rara laddove se la società chiude per impossibilità di far fronte ai debiti, non vi sono ovviamente somme da suddividere fra i soci.
Dunque i creditori rimangono privi di ogni garanzia di fatto.
Con l’attuale sistema è sufficiente che i soci si rechino dal notaio, predispongano la chiusura della società, nominino nel caso un liquidatore e provvedano alla cancellazione presso la Camera di Commercio.

IL FALLIMENTO

Ovviamente resta la possibilità di richiedere al Tribunale la pronuncia di fallimento, ma si tratta di una possibilità poco concreta sotto vari profili.
Le modifiche infatti apportate dalla legge fallimentare con il D.ls. 09/01/2006 n. 5 in attuazione dell’art. 1 della legge 14/05/2005 n. 80 hanno infatti reso estremamente difficile la pronuncia di fallimento e ciò volutamente per evitare che i Tribunali vengano intasati di procedure fallimentari di aziende di piccolo cabotaggio, per le quali lo Stato sosterrebbe oneri rilevanti, senza neanche la possibilità del recupero delle spese di giustizia.
Inoltre attualmente il ricorso per fallimento non è più onere a carico degli amministratori o dei liquidatori della società, ma ai sensi dell’art. 6 della legge fallimentare il fallimento può essere dichiarato solo su ricorso dello stesso debitore (il quale si guarda bene dal farlo, il ricorso), di uno o più creditori o su richiesta del Pubblico Ministero.
Non può più essere pronunciato il fallimento d’ufficio.
Inoltre per rendere ancora più difficile il compito del creditore viene posto un limite economico anche in suo danno laddove, espressamente, l’art. 15 dell’attuale legge fallimentare così statuisce: “Non si fa luogo a dichiarazioni di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti di istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad € 30.000,00. Tale importo è periodicamente aggiornato …”.
In ogni caso (ed è questo il jolly per le aziende che bisogna far… scomparire), per completare il quadro va ricordato che il fallimento non può essere più dichiarato decorso un anno dalla cessazione dell’attività, più esattamente precisa l’art. 10 della legge fallimentare “…entro un anno dalla cancellazione dal Registro delle Imprese…”.
Poiché in genere l’imprenditore che si cancella dalla Camera di Commercio si guarda bene dal comunicare ai creditori tale circostanza, ed anzi continua a pagare ratealmente per far maturare il periodo, senza allarmare il creditore, molto frequentemente quando ci si avvede dell’avvenuta cancellazione, il termine è ampiamente decorso.

UN SISTEMA MOLTO UTILIZZATO

Basta esaminare su internet la pubblicità degli studi notarili, degli studi dei commercialisti e degli avvocati che operano in tal senso, per rendersi conto della facilità con la quale attualmente è possibile disfarsi di debiti anche di ingentissimo valore compresi quelli fiscali, quelli degli enti previdenziali e simili, semplicemente con un’assemblea dei soci e la chiusura presso la Camera di Commercio.
Per i debitori il rischio non viene tanto dall’amministrazione fiscale o comunque statale laddove in genere non vengono quasi mai presentate istanze di fallimento da parte di questi enti nei termini di legge, quanto semmai dai creditori privati con i quali in genere si transige il credito e, come detto, si paga, fino al maturare dell’annualità.
Va detto, per completare, che in taluni casi la chiusura delle società a responsabilità limitata è possibile anche senza il notaio, laddove le Camere di Commercio accettano pratiche di messa in liquidazione senza la forma dell’atto pubblico notarile, una volta accertata una delle cause di scioglimento prevista dall’art. 2484 c.c.
Ove tuttavia la deliberazione di scioglimento, così come avviene più frequentemente, abbia carattere volontario ed anticipatorio rispetto alla data indicata nel contratto sociale, trattandosi di una modifica dello Statuto, è necessario l’intervento del notaio con successiva chiusura, cancellazione dal Registro delle Imprese ed estinzione.

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