Il mercato, questa mitica (e oggi pervasiva) entità, è una creazione artificiale. In natura esso, ovviamente, non esiste; nacque (il mercato) quando ci si rese conto che, per ottenere qualcosa che un altro aveva, non era necessario (nel senso di indispensabile) portargliela via con la forza, ma si poteva provare a scambiarla con qualche altra cosa che a noi non serviva, o serviva meno.

Questa (un po’ casereccia) prospettiva vichiana è tuttavia utile perché ci aiuta a comprendere la necessità di serie e severe regole in grado di presidiare questo “luogo di scambio” e la collegata necessità di punire chi gioca sporco.
Sul versante penale, il mercato “più evoluto” (quello finanziario) è presidiato dai cc.dd. reati societari (artt. 2621 e seguenti c.c.), posti principalmente a difesa del capitale sociale e, in prospettiva, anche dei creditori, nel malaugurato caso di fallimento (la bancarotta da reato societario: art. 223 comma secondo legge fallimentare).

Ma i reati societari sono stati recentemente (L. 28 dicembre 2005 n. 262) riformati, così come riformata è stata la prima parte del secondo comma dell’art. 223 (D. Lsvo 11 aprile 2002 n. 61). E poiché le riforme sono intervenute nella stagione delle leggi ad personam (e anche ad catergoriam), lo sconquasso normativo era prevedibile. E infatti si è verificato.
Procediamo con ordine.

I reati fallimentari commessi da persona diversa dal fallito, come è noto, sono quelli di cui al capo secondo del titolo sesto della legge fallimentare (regio decreto 16 marzo 1942 n. 267).
Tra questi, l’art. 223 elenca i “fatti di bancarotta fraudolenta”.
Il primo comma è una norma di rinvio, in quanto estende le ipotesi criminose di cui all’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori, che dunque rispondono per distrazione, alterazione documentale ecc.
Il comma secondo (come modificato dall’intervento legislativo sopra ricordato) prevede, al n. 1, che gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, che, tenendo le condotte criminose previste negli artt. c.c. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633, 2634, abbiano cagionato lo stato di dissesto della società (cfr. art. 5), debbano rispondere di bancarotta fraudolenta, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento.
Dal confronto con la precedente versione della norma, emerge con evidenza (e l’intenzione del legislatore è dichiarata) che deve rimanere accertata la esistenza del rapporto di causalità tra la predetta condotta e il dissesto. Per la verità, si prevede non solo che la condotta abbia causato, ma anche che essa abbia concorso a causare, il dissesto, con tutte le complicazioni che, sul piano probatorio e segnatamente su quello delle eventuali cause sopravvenute (o coeve) da sole sufficienti a provocare l’evento (art. 41 comma secondo cp), ciò può comportare.

La (apparente) rilevanza di tale nesso è stata per tempo sottolineata dalla dottrina (tra i molti CADOPPI; Riformulazione delle norme sui reati fallimentari che richiamano reati societari, in AA.VV., I nuovi reati societari, a cura di Lanzi e Cadoppi, Padova 2007, 397, MUCCIARELLI; Il ruolo dei vantaggi compensativi nell’economia del delitto di infedeltà patrimoniale degli amministratori, in Giur. Comm., 2002, I, 631, NAPOLEONI, Geometrie parallele e bagliori corruschi del diritto penale dei gruppi (bancarotta infragruppo, infedeltà patrimoniale e vantaggi compensativi), in Cass. pen., 2005, 3794 ss., CORUCCI, I reati di bancarotta e l’operazione squilibrata infragruppo, in Dir. pen. e processo, 8/2009 p. 1011 ss) e dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. quinta, sent. n. 9726, 3.2.2009/3.3.2009, ric. Michelacci, Rv 242773 e, prima, Sez. quinta, sent. n. 23236, 23.4.2003/27.5.2003, ric. Ruocco, Rv 224950), la quale ultima ha però ritenuto necessario anche il superamento delle soglie di punibilità, quando previste (es. art. 2621 c.c. civ., come modificato dalla L. 262 del 2005).
E qui cominciano i problemi, perché quest’ultima è una affermazione che lascia perplessi.

L’art. 223 comma secondo n. 1, come riformulato, infatti, fa menzione della commissione di “fatti” previsti dagli articoli elencati, non di reati procedibili e/o punibili.
E allora, come per la integrazione della bancarotta da reato societario certamente non occorre che detto “reato base” sia procedibile (es. querela per la contravvenzione ex art 2621 cc), così non dovrebbe essere necessario, a nostro parere, che siano integrati tutti gli elementi cui la norma incriminatrice subordina la punibilità (es. appunto, le soglie quantitative).
In altre parole: il rinvio è effettuato alla figura criminosa in sé o, semplicemente, alla condotta descritta da quella figura?
Va notato, al proposito, che l’art. 2621 c.c., al comma terzo (come l’art. 2622 al comma settimo), “parla” di mera esclusione della punibilità, nel caso non siano superate le soglie quantitative, non di insussistenza del reato. Il reato sussiste, ma il legislatore non vuole che si punisca l’autore in considerazione della parva materia.
Dunque: il rinvio non sarebbe sintomatico della esistenza di un vero e proprio reato complesso, ai sensi dell’art 84 c.p., ma sarebbe, sempre a nostro parere, solo un escamotage del legislatore per descrivere una condotta, ponendola in rapporto causale con un evento (il dissesto).
Pertanto, la (astratta) improcedibilità per il reato societario, o la (altrettanto astratta) non punibilità del suo responsabile, non dovrebbero, a nostro avviso, avere rilevanza quando la condotta che integra detto reato è considerata come parte integrante della condotta (causativa dell’evento) del più grave reato di bancarotta (unico reato di evento/danno nel variegato panorama delle bancarotte!)
La riprova, forse, la si riceve da altre pronunzie della Corte di cassazione.

Invero Sez. quinta sent. n. 15062, 2.3.2011/13.4.2011, ric. Siri, Rv 250092 ha chiarito, ad abundantiam per la verità, che i fatti di falso in bilancio seguiti dal fallimento della società (ma vale ovviamente anche per gli altri reati societari, citati nel comma secondo n. 1 dell’art. 223 della legge fallimentare) non costituiscono un’ipotesi aggravata del reato di false comunicazioni sociali, ma integrano, appunto, l’autonomo reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario. Di conseguenza, aggiungiamo noi, essi vanno valutati a prescindere dalla loro procedibilità e punibilità come reati societari.
D’altra parte, se ci “spostiamo” sul piano dell’analisi dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta da reato societario, ci imbattiamo in Sez. quinta sent. n. 23091, 29.3.2012/12.6.2012, ric. PG in proc. Baraldi e altro Rv 252804, la quale afferma apertis verbis che esso presuppone una volontà protesa al dissesto.
Che dunque le soglie di punibilità per il reato societario siano raggiunte oppure no, ciò che rileva, quando detta condotta sia elemento costitutivo del più grave reato di bancarotta, è, sul piano oggettivo, la condotta in sé considerata e, su quello soggettivo, la appena ricordata volontà e consapevolezza.
Ma questo è solo un assaggio delle difficoltà interpretative che l’innesto della nuova normativa societaria ha determinato in tema di bancarotta.

I problemi più gravi, infatti, sono quelli posti dalla infedeltà patrimoniale (art. 2634 cc).
Il presupposto è che l’agente (amministratore, direttore generale, liquidatore) abbia un interesse personale in conflitto con quello della società e, per procurare a sé o ad altri (dunque: anche a una società del gruppo), ingiusto profitto, compia, o concorra a deliberare, atti di disposizione di beni sociali, così cagionando intenzionalmente danno patrimoniale alla società stessa.
E però, il comma quarto dell’art. 2632 ci avverte che “in ogni caso” (strana espressione in un testo legislativo) il profitto non si può considerare ingiusto se esso fa capo a una società collegata o al gruppo di società, quando sia compensato da vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili; vantaggi derivanti dallo stesso collegamento o dall’appartenenza al gruppo.
Norma tanto generica, quanto oscura.

Insomma, andrebbe chiarito se sia possibile escludere la configurabilità della infedeltà patrimoniale (e quindi, in prospettiva, della bancarotta fraudolenta da infedeltà patrimoniale che potrebbe aver causato il dissesto) in caso di disposizione di beni sociali (operata da amministratori, direttori generali o liquidatori) in favore di altra società del medesimo gruppo, atteso che, “in ogni caso”, non deve considerarsi ingiusto il profitto in presenza del c.d. vantaggio compensativo.
Ma poi -è da chiedersi- questo “vantaggio” svolge la sua funzione scriminante anche in tema di bancarotta da infedeltà patrimoniale o solo nell’ambito di tale reato “minore”? E basta un vantaggio prevedibile (sia pure fondatamente) per escludere la bancarotta o deve essere un vantaggio effettivo?
Sembrerebbe utile prendere le mosse dall’art. 2497 c.c. Esso stabilisce che le società o gli enti che esercitano il coordinamento di altre società sono responsabili nei confronti dei soci delle controllate.
E con ciò? Non appare, nel nostro caso, una norma di grande aiuto per l’interprete.
Conviene allora tornare alla giurisprudenza della Corte di legittimità.
Cominciamo da un dato pacifico (e recente): per Sez. quinta sent. n. 36595, 16.4.2009-. 22.9.2009, ric. Bassio e altri, Rv. 245136, integra la distrazione rilevante ai fini della bancarotta fraudolenta patrimoniale, il trasferimento di risorse infra-gruppo, ossia tra società appartenenti allo stesso gruppo imprenditoriale, effettuato senza alcuna contropartita economica, da società che versi in gravi difficoltà finanziarie a vantaggio di società in difficoltà economiche, posto che, in tal caso, nessuna prognosi fausta dell’operazione può essere consentita.
Assolutamente ovvio, dovremmo dire. Infatti: senza contropartita, effettiva o potenziale, non è consentito indebolire la società destinata al fallimento a favore di altra, sia pure all’interno del medesimo gruppo. A maggior ragione, come si è visto, non può esser consentita la distrazione di attività tra due società del medesimo gruppo, entrambe in difficoltà economiche (lo aveva già anticipato Sez. quinta sent. n. 4410, 4.12.2007/29.1.2008, ric. Spedicati, Rv 238237) e questo perché, come si esprime Sez. quinta, sent. n. 7326, 8.11.2007/15.2.2008, ric. Belleri, Rv 239108), in tal caso, nessuna prognosi positiva è evidentemente possibile. Insomma: la esistenza di un gruppo societario non legittima, per ciò solo, qualsivoglia condotta di asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l’autonomia soggettiva e patrimoniale, che contraddistingue ogni singola società, imponga all’amministratore di perseguire prioritariamente l’interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne -appunto- l’interesse in nome di un diverso interesse, ancorché riconducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, cosa che non procurerebbe alcun effetto a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito.
E quindi, per queste pronunzie, il collegamento tra le società o l’appartenenza delle stesse a un gruppo imprenditoriale unitario è niente altro che la premessa per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l’atto di disposizione patrimoniale (Sez. quinta sent. n. 1137, 17.12.2008/13.1.2008, ric. Vianello e altri, Rv 242546). Per escludere la natura distrattiva di una operazione infragruppo, allora, non è certo sufficiente allegare tale natura; occorre che l’interessato fornisca la ulteriore dimostrazione del vantaggio compensativo della società che subisce il depauperamento (ribadito da Sez. quinta sent. n. 48518, 6.10.2011/28.12.2011, ric. Plebani, Rv 251536).
Questo perché il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica (Sez. quinta sent. n. 29896 1.7.2002/20.8.2002, ric. Arienti e altri Rv. 222387).

Sulla base di tali presupposti, era inevitabile che la stessa Sezione giungesse alla conclusione che il “vantaggio compensativo” di cui al ricordato art. 2634 c.c. agisse (forse) da scriminante solo nell’ambito del reato societario; non anche nella bancarotta derivante dal predetto.
Lo stesso dunque è stato giudicato radicalmente inapplicabile all’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria, riguardante una società collegata o appartenente al gruppo, in quanto il fenomeno del collegamento societario non può certo mettere in discussione, per questo orientamento di giurisprudenza, il principio dell’autonomia soggettiva delle società interessate; quindi: il fallimento di una di esse prescinde dalla considerazione degli interessi del gruppo societario (Sez. quinta, sent. n. 23241, 24.4.2003/27.5.2003, ric. Tavecchia, Rv. 224952).
Pochi mesi dopo, la Corte suprema assumerà una posizione ancor più radicale (Sez. quinta sent. n. 36629, 5.6.2003/24.9.2003, ric. Longo e altri, Rv 227149), affermando che la diversità degli interessi tutelati dalla legge penale fallimentare e dalla nuova disciplina dei reati societari, introdotta dal D. Lsvo 11 aprile 2002, n. 61, impedisce che alla materia fallimentare possa applicarsi la norma prevista dall’art. 2634, comma terzo c.c., secondo cui -come ormai sappiamo- non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza allo stesso gruppo societario.  

Ora, è vero che, a fronte di tale “filone”, un altro (minoritario) se ne è venuto creando, per il quale, nel valutare come distrattiva un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo per una delle società collegate, occorre tenere conto del rapporto di gruppo, restando escluso il reato se, con valutazione ex ante, i benefici indiretti per la società fallita si dimostrino idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi, sì da rendere l’operazione incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società. (Sez. quinta, sent. n. 36764, 24.5.2006,-7.11.2006, ric. Bevilacqua e altri, Rv 234606 e successivamente: Sez. quinta, sent.n. 41293 25.2.2008-5.11.2008, ric. Mosca, Rv 241599), ma il fatto è che, mentre il terzo comma dell’art. 2634 c.c. parla di vantaggi (compensativi), non solo conseguiti, ma anche “fondatamente prevedibili”, per il primo comma dell’art. 2497 c.c.,il danno manca alla luce del risultato complessivo della attività di direzione del gruppo.
Ora non è dubbio, almeno a nostro parere, che, in tema di bancarotta distrattiva, ciò che rileva è solo il vantaggio compensativo effettivamente ottenuto, non quello meramente prevedibile (tranne che la mancata realizzazione sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore), mentre questo ultimo potrebbe -forse- rilevare, sotto il versante della esclusione del dolo, solo in tema di bancarotta impropria da reato societario (art. 223 comma secondo legge fallimentare), con riferimento al dissesto cagionato da infedeltà patrimoniale (art 2634 c.c. appunto).

Tutto il discorso che si è però venuto fin qui sviluppando, con i suoi bravi “distinguo”, rischia di essere del tutto inutile se ci poniamo il problema della eventuale interferenza della bancarotta fraudolenta da reato societario, con la bancarotta impropria distrattiva e documentale.
Ciò in quanto, inevitabilmente, le condotte richiamate nell’art. 223 comma secondo n. 1 della legge fallimentare con riferimento agli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633, 2634 c.c. consistono, in ultima analisi, esse stesse in alterazioni documentali o in attività di distrazione. Così, se la falsa comunicazione sociale ha ad oggetto scritture obbligatorie (es. il bilancio, cfr. art. 2217 c.c.), essa ben può integrare la ipotesi di bancarotta documentale commessa da soggetto diverso dal fallito (e ciò vale anche per il bilancio consolidato, atteso che esso, mirando a rappresentare la situazione patrimoniale e reddituale dell’intero gruppo, costituisce comunicazione sociale a tutti gli effetti, cfr, tra le altre, Sez. quinta, sent. n. 191, 19.10.2000/10.1.2001, ric. Mattioli e altri, Rv 218071); altrettanto dicasi, ad es., per la illegale ripartizione di utili e riserve (art. 2627 c.c.), che ha una natura contenutisticamente distrattiva (l’amministratore distribuisce utili o acconti su utili, destinati per legge a riserva), o per la bancarotta da infedeltà patrimoniale.

Ma allora quale effetto hanno determinato le riforme del 2002 e del 2005?
Se la condotta -falsificatoria e/o distrattiva- in cui si sostanzia l’elemento materiale dei reati societari integra, già di per sé, la condotta del reato di bancarotta (documentale o patrimoniale), che senso ha richiedere la prova del nesso causale tra detta condotta e lo stato di dissesto (seguito dal fallimento)?
Va rilevato poi che, se il “reato base” è quello di cui all’art. 2634 cc, occorrerebbe anche il conflitto di interessi, mentre, per la punizione della mera distrazione e per l’alterazione documentale, ciò non è richiesto.
Una pronunzia della Corte di cassazione sembra aver sancito la “inutilità” della ipotesi di bancarotta impropria da reato societario (art. 223 comma secondo n. 1 della legge fallimentare, nella versione vigente); infatti per Sez. quinta sent. n. 29036, 9.5.2012/18.7.2012, ric. Cecchi Gori e altro, Rv 253032, l’operazione infragruppo ictu oculi fraudolenta ha natura distrattiva, con conseguente applicazione del primo -e non del secondo- comma dell’art 223.
E allora è da chiedersi come mai sia potuto accadere ciò.

Il fatto è che, nell’impianto originario (quello del 1942), la bancarotta da reato societario, in quanto bancarotta non per distrazione, ma “per presunzione”, rappresentava una sorta di difesa avanzata dei creditori: era sufficiente che il manager consumasse un reato societario cui seguisse il fallimento della società da lui amministrata, perché la bancarotta fosse, appunto, presunta, senza alcuna necessità di dimostrare che il fallimento o il dissesto fossero stati causati dalla operazione contra legem.
Ai nostri giorni la normativa è sembrata troppo severa (per i manager) e forse incostituzionale (ai loro avvocati che sedevano in Parlamento) e si è introdotto il requisito del nesso causale, non regolando però le ipotesi in cui già la condotta integrante il reato societario costituiva distrazione o falsificazione. La modifica avrebbe avuto un senso se la nuova natura della bancarotta da reato societario (reato di evento e di danno e non più di mero pericolo) fosse stata sanzionata più severamente. Ma, in realtà, l’intento del legislatore era esattamente l’opposto: creare un filtro alla punibilità dell’amministratore (del sindaco, del liquidatore, del direttore generale).

In una tale situazione paradossale, non ci si può allora meravigliare se il giudice di legittimità sia giunto alla conclusione (anche essa, in apparenza bizzarra) in base alla quale si avrebbe addirittura concorso tra le due forme di bancarotta (art. 223 primo comma e art. 223 secondo comma n. 1), attesa la diversità degli interessi tutelati (quello dei creditori sociali, dalla prima; quello del patrimonio sociale, dalla seconda), anche perché, diversamente ragionando, osserva la Corte, si perverrebbe alla conseguenza assurda, in base alla quale la condotta di infedeltà patrimoniale, aggravata dal conflitto d’interessi, sarebbe punibile solo se ha determinato il dissesto della società, mentre la distrazione, commessa senza conflitto d’interessi, sarebbe punibile di per sé, anche in mancanza di un rapporto di causalità con il dissesto (Sez. quinta sent. n. 13110, 5.3.2008/27.3.2008, ric. Scotuzzi e altri, Rv 239394).
Ma il “cumulo di bancarotte” (distrattiva e da reato societario) è, a nostro parere, inconcepibile, in quanto si applicano due etichette sul medesimo “prodotto criminale”. Se il dissesto è stato causato dalla distrazione, ma la distrazione è, di per sé punibile, che senso ha affannarsi a ricercare il nesso eziologico?
L’alternativa, allora, è tra riservare un trattamento più favorevole ai “manager distrattori” (punibili, a differenza dei “normali imprenditori”, solo se la distrazione ha causato il dissesto) o disapplicare di fatto la norma, che, nata nel 1942 per allargare la responsabilità da fallimento e per facilitare il giudice sul piano probatorio, è stata piegata, con gli interventi legislativi sopra ricordati, allo scopo esattamente opposto.  

Non è impossibile ipotizzare profili di contrasto con l’art. 3 della Carta fondamentale.
Il dubbio che una norma così incoerente -e di fatto malfunzionante- sia stata varata da chi forse versava -come nella ipotesi di cui all’art. 2634 c.c.- in obiettivo conflitto di interessi è forte; per altro, in questo caso, non sono ammissibili…”vantaggi compensativi”: le norme necessarie a regolamentare l’attività imprenditoriale devono essere formulate, certamente, ascoltando gli interessati, ma non posso essere dettate da (o adattate su) interessi lobbistici.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *