Il 1 giugno 2012 è stata depositata in Cassazione la sentenza n. 8862/2012 che si pone in contrasto con un costante precedente orientamento giurisprudenziale secondo il quale il tradimento di un coniuge poteva comportare l’addebito della separazione ma non un risarcimento in termini economici. Ora la Suprema Corte ha rivisto il principio, rivalutando la lesione del diritto alla salute costituzionalmente garantito a causa della violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale.

Il caso portato all’attenzione della Corte è uno dei più frequenti nella pratica giudiziaria.
Si rivolgeva al Tribunale la moglie lamentando che il fallimento del matrimonio fosse imputabile al marito a seguito della sua continua e perdurante relazione extraconiugale.
Stante l’elevato reddito del coniuge e la presenza di due figlie non autonome, chiedeva un assegno di mantenimento per costoro ed un assegno di mantenimento per sé stessa, nonché il risarcimento dei danni non patrimoniali a seguito proprio della rottura del matrimonio imputabile al tradimento. Inoltre chiedeva la restituzione di circa 25mila euro versati al coniuge e mai restituiti.
Il tribunale accertata la situazione nei termini segnalati dalla donna e la violazione degli obblighi matrimoniali da parte del marito, addebitava la separazione a quest’ultimo, assegnava la casa coniugale alla moglie, disponeva un congruo assegno di mantenimento per le figlie, ma nulla prevedeva in favore della moglie. Tuttavia escludeva qualsiasi forma di risarcimento dei danni per la violazione dell’obbligo di fedeltà, sulla base della non risarcibilità in termini economici del tradimento.
Inoltre, accertato che durante il matrimonio la moglie aveva effettivamente versato circa 25mila euro al marito per l’acquisto di un appartamento che era rimasto a lui intestato, lo condannava alla restituzione della somma.
Avverso la sentenza proponevano appello entrambe le parti, la moglie lamentando la mancata attribuzione di un risarcimento dei danni per il tradimento subito, e chiedendo una migliore determinazione del mantenimento per le figlie, il marito chiedendo la revoca dell’assegno e la restituzione della somma versata.
La Corte di Appello di Ancona confermava la sentenza ritoccando soltanto gli importi dell’assegno per le figlie.

RICORSO ALLA CORTE SUPREMA
Entrambi i coniugi ricorrevano alla corte di Cassazione.
Il marito eccepiva l’ingiustizia dell’addebito della separazione senza che i giudici avevano esaminato le reciproche condotte dei coniugi nel rapporto matrimoniale.
Inoltre rilevava che il Tribunale, in contrasto con la normativa, lo aveva condannato a restituire la somma di 25mila euro alla moglie, somma che era stata versata, a detta del marito, nell’ambito degli obblighi vicendevoli relative alla collaborazione nell’interesse della famiglia.
Eccepiva ancora che erroneamente il Tribunale aveva assegnato l’intera casa coniugale alla moglie, mentre avrebbe potuto suddividerla in natura in due parti, una a ciascun coniuge.
Di contro la moglie ricorreva alla Corte di Cassazione lamentando sostanzialmente l’inesattezza di due punti delle sentenze precedenti, non conformi a suo dire, a giustizia: da un lato perché il giudice, pur avendo accertato la violazione degli obblighi matrimoniali per palese e continuativa infedeltà del marito, non lo aveva condannato al risarcimento dei danni.
In secondo luogo perché aveva escluso il mantenimento per la moglie, pur essendosi accertato che questa viveva con un lavoro part-time, ricavando una somma non adeguata e non sufficiente per permetterle di mantenere il pregresso tenore di vita.

IL RIGETTO DELLA CASSAZIONE SULLE RICHIESTE DEL MARITO
I giudici della Corte Suprema rigettavano tutte le eccezioni sollevate dal marito, sia perché vertenti su circostanze di fatto e non di diritto, sottratte notoriamente all’esame del giudice di legittimità, sia perché le decisioni pregresse apparivano conformi a giustizia.
Per quanto riguardava la casa coniugale rilevavano l’inopportunità di una divisione che avrebbe comportato una riduzione di spazio per i figli, i quali avevano diritto a mantenere gli ambienti nei quali erano stati sempre abituati a vivere e non potevano essere penalizzati dalla crisi coniugale dei genitori.
Per ciò che invece riguardava la condanna a restituire l’importo di 25mila euro con i quali il marito aveva acquistato un altro immobile intestandolo a se stesso, rilevava il Collegio che conformemente a numerose precedenti sentenze, l’obbligo di solidarietà familiare e di contribuire ai bisogni della famiglia, sussiste in relazione alle sostanze ed alla capacità di lavoro professionale e casalingo di ciascuno, ed è finalizzato proprio a soddisfare i bisogni dei genitori e dei figli.
E’ tuttavia altrettanto vero che, in relazione ad attività e ad operazioni economiche straordinarie e rilevanti per importo, (per esempio in caso di acquisto di un immobile), ben possano sussistere rapporti di debito e di credito fra i coniugi, come tra qualsiasi altro soggetto.
Rapporti che vanno rispettati e quindi legittimamente il Tribunale e la Corte di Appello avevano condannato il marito a restituire il rilevante importo versato dalla moglie, soprattutto perché finalizzato all’acquisto di un immobile che era rimasto intestato solo al marito.

DIRITTO AL MANTENIMENTO PER LA MANIFESTA DIFFERENZA DI REDDITI FRA I CONIUGI
Il primo dei motivi di impugnazione della moglie veniva invece accolto anche in tal senso aderendo ad un pregresso orientamento giurisprudenziale.
Riteneva la Cassazione infatti come la circostanza per cui la moglie svolgesse lavoro part-time presso un ente pubblico, non poteva di per sé stesso escludere il diritto all’assegno di mantenimento, ove fosse rilevabile una importante differenza di redditi fra marito e moglie, soprattutto nel caso in esame, in cui nessuna colpa del fallimento dell’unione poteva essere addebitata alla donna.
Infatti il giudice di primo grado, si limitava a sostenere che, il semplice fatto che la donna svolgesse attività lavorativa retribuita, faceva ritenere che essa fosse autonoma e in grado di mantenere il tenore di vita precedente.
Tale tesi dei giudici a quo non era condivisibile, in quanto un’attività lavorativa qualsivoglia come quella nella specie, non è detto che sia in grado di far mantenere alla moglie il tenore di vita del quale godeva precedentemente e che veniva a cessare per il comportamento dell’altro coniuge.

L’ORIENTAMENTO TRADIZIONALE: IL TRADIMENTO COME CAUSA DI ADDEBITO MA NON DI RISARCIMENTO
Del tutto innovativa è viceversa la sentenza della Corte di Cassazione
sotto questo ultimo profilo.
In realtà i giudici del Tribunale e della Corte di Appello si erano conformati all’orientamento giurisprudenziale pregresso per cui la violazione dell’obbligo di fedeltà non darebbe luogo ipso jure ad alcun motivo di risarcimento del danno, a meno che tale violazione non sia posta in essere con sistemi e mezzi tali da configurare altri illeciti, come nel caso di atteggiamenti ingiuriosi o diffamatori.
Pertanto il principio a cui attenersi è stato costantemente quello di ritenere che la violazione dell’obbligo di fedeltà sentimentale e sessuale, potesse dare luogo semplicemente all’addebito della separazione, ma non ad un risarcimento in termini monetari.
La Corte Suprema ha sempre statuito infatti come “La domanda di risarcimento del danno contrasterebbe con il diritto del coniuge di perseguire le proprie scelte personali, soprattutto in conseguenza della legge che ha eliminato il carattere illecito dell’adulterio: il desiderio di libertà e felicità del marito, pur comportando la disgregazione della famiglia, può essere sanzionato con l’addebito della separazione, ma non potrebbe configurarsi quale fonte di risarcimento dei danni”.

MELIUS RE PERPENSA
Il Collegio, viceversa, rilevava che la pregressa interpretazione non teneva conto dell’evoluzione giurisprudenziale di questi anni, né dell’affermarsi e dell’estendersi di uno dei fenomeni sicuramente più rilevanti nel diritto di famiglia, e cioè l’introduzione e la logica dei metodi della responsabilità civile nel rapporto tra coniugi e tra genitori e figli, che del resto si inserisce nel più generale ampliamento nell’area della responsabilità aquiliana.
E’ vero, proseguiva la Corte, che il carattere illecito dell’adulterio era stato escluso dalla Corte Costituzionale con le notissime sentenze, ma ciò solo sotto il profilo penale.
Viceversa argomentava la Cassazione, la violazione dei diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, anche ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, incidendo sui beni essenziali della vita, deve necessariamente dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali.
Infatti non è più condivisibile la considerazione per cui condannando il marito ai danni, si verrebbe a creare una duplicazione di sanzioni, da un lato con l’addebito e dall’altro con il risarcimento, dando luogo a diritti assolutamente inesistenti, non essendo rilevabile alcuna violazione del principio del neminem laedere.
Va di contro precisato che, la responsabilità fra coniugi o dei genitori nei confronti dei figli, non si fonda sulla mera violazione dei doveri matrimoniali o di quelli derivanti dal rapporto di genitorialità, ma sulla lesione a seguito dell’avvenuta violazione di tali doveri, di beni inerenti la persona umana come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, ecc.
Tutte circostanze che sono riferibili anche alla violazione dell’obbligo di fedeltà.

LA VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI FEDELTA’ IN PARTICOLARE
Tale ultima violazione, di fatto incidendo sul bene essenziale della vita, alla serenità ed alla salute, produce realmente un danno ingiusto con conseguente obbligo risarcitorio secondo la normativa generale sulla responsabilità civile.
Possono dunque sicuramente coesistere, secondo la Cassazione, sia la pronuncia di addebito, sia quella di risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri e le finalità del tutto differenti nei due istituti giuridici.
Era pur vero che i giudici del Tribunale e della Corte di Appello, avevano rilevato come, nel caso in ispecie, non era ravvisabile né il carattere ingiurioso, né manifestazioni rilevanti di disdoro per la donna, tuttavia i magistrati non avevano considerato la semplice incidenza, dedotta dalla moglie, del tradimento sulla propria privacy, sulla reputazione e in sostanza sul proprio diritto alla serenità familiare e sullo star bene.
Conclusivamente la Corte modificando un solido e costante orientamento giurisprudenziale precedente, ha introdotto per la prima volta il diritto al risarcimento per la violazione dell’obbligo di fedeltà, aprendo la strada ad un non improbabile rilevantissimo contenzioso nell’ambito del diritto di famiglia, con un sicuro allungamento di processi, che necessiteranno ora di mezzi probatori articolati proprio al fine di dimostrare la violazione agli obblighi di coniugio.

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