L’assegnazione della casa familiare è sempre stato uno di quei problemi sul quale si sono scontrate le più diverse opinioni in dottrina ed in giurisprudenza, dibattute tra la necessità di preservare i diritti del legittimo proprietario e la doverosa tutela della prole e del coniuge più debole.

La questione ha assunto estrema importanza, soprattutto nei tempi attuali, in stretta correlazione con il rilevante aumento dei costi degli immobili.
Poiché l’assegnazione della casa di fatto costituisce uno degli aspetti maggiormente penalizzanti per il coniuge estromesso, soprattutto allorché questi sia il proprietario unico o il comproprietario dell’immobile, spesso i contrasti tra i coniugi non riguardano tanto la determinazione del mantenimento, quanto proprio l’utilizzazione dell’ex abitazione comune.
La vastità del dibattito emerge anche semplicemente da un esame delle decisioni della Cassazione di questi ultimi anni che hanno inciso profondamente sull’istituto con un numero rilevante di sentenze, i cui orientamenti sono stati in buona parte recepiti nella nuova formulazione dell’art. 155 quater c.c., introdotto dalla legge 14/02/2006 n° 54.
Se il problema principale è senza dubbio quello del diritto o meno all’assegnazione della casa, su quali presupposti e con quali conseguenze, tuttavia notevoli sono anche le questioni connesse, come per esempio l’accollo delle spese dell’immobile, il pagamento degli oneri fiscali, l’opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione, i diritti del creditore, del locatore, del comodatario, o di altri soggetti che vantino diritti sul bene, la situazione del proprietario allorché questi sia un parente dei coniugi, la possibilità di procedere allo scioglimento della comunione in ipotesi di comproprietà dell’immobile, il recupero della casa allorché i figli siano divenuti maggiorenni ed autonomi, le conseguenze patrimoniali di un provvedimento di restituzione dell’immobile in danno del precedente assegnatario, l’inibizione dei tentativi di alienazione della casa in attesa del processo, ecc.
Cercheremo quindi di fare il punto sia pure in modo schematico, sulle varie tematiche e sulle problematiche che si presentano in un processo di separazione e divorzio e sulle soluzioni adottate, allo stato attuale, dalla legislazione e dalla giurisprudenza.

Chi ha diritto all’assegnazione della casa

Fermo restando che il provvedimento non attribuisce al proprietario alcun diritto reale, costituendo l’assegnazione, una facoltà di godimento da considerarsi quale diritto atipico personale, la quale non priva il proprietario della disponibilità del diritto dominicale, va precisato che, se non è diversamente specificato dal giudice, l’assegnazione comporta automaticamente anche l’attribuzione del possesso di tutto il mobilio ivi contenuto, salvi gli indumenti e gli effetti di uso personale.
Anche il mobilio, infatti, pur rimanendo, dei rispettivi proprietari, tuttavia è vincolato all’utilizzo in favore del coniuge assegnatario, al pari della casa che lo contiene.
L’assegnazione è ovviamente gratuita senza alcun limite e nessun canone o corrispettivo deve pagare la moglie, normalmente beneficiaria del provvedimento, in favore del marito.
Per ciò che riguarda i soggetti aventi diritto all’utilizzazione in via esclusiva della ex casa coniugale, si è passati da antichissimi indirizzi che privilegiavano semplicemente l’intestazione dell’immobile, rispetto la protezione della prole e del coniuge più debole, ad aperture eccessive in favore, in genere, della donna, che finivano con il penalizzare pesantemente anche senza ragione, il comproprietario o il proprietario esclusivo del bene, il quale pur estromesso dalla casa, rimaneva costretto spesso a pagare le rate successive di mutuo.
Non va sottaciuto, sotto tale profilo, come ben sanno i legali, che, una volta assegnata l’abitazione ad uno dei coniugi, ben difficilmente poi il provvedimento viene modificato nel tempo, talché di fatto, tenuto conto talvolta dell’età dei coniugi non più giovanile, l’assegnazione finisce per divenire un espropriazione definitiva.
In questo scenario, nel tempo si è creata una giurisprudenza che ha cercato di equilibrare le opposte esigenze, talché, attualmente, la Cassazione si è irrigidita nell’escludere il diritto all’assegnazione dell’immobile, se non in presenza di figli minorenni o maggiorenni non autonomi, annullando quelle interpretazioni più estensive che, viceversa privilegiavano il “coniuge più debole”, privando della proprietà il titolare del bene, pur in assenza di figli aventi diritto al mantenimento.
Tale indirizzo giurisprudenziale è stato, come detto, recepito anche dalla nuova normativa la quale al 1° comma dell’art. 155 quater espressamente precisa che: “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.
In senso assolutamente analogo, la Cassazione ha rafforzato tale principio chiarendo, peraltro nel solco di precedenti pronunzie, che, in caso di separazione tra i coniugi proprietari, in regime di comunione dei beni, della loro abitazione, senza figli, il giudice non può emettere alcun provvedimento relativo all’assegnazione della casa coniugale, talché il destino dell’immobile potrà essere deciso solo con un accordo privato tra i due ex coniugi, ovvero tramite divisione dell’appartamento e scioglimento della comunione.
Dunque non rimane al giudice alcuna discrezionalità, laddove non sussistano figli minorenni o maggiorenni non autonomi conviventi.
Così avrà diritto all’assegnazione della ex casa coniugale, indipendentemente da chi sia il proprietario, il genitore affidatario, e nel regime attuale di affidamento condiviso, il soggetto con cui vivano i figli non autonomi, definito con poco felice neologismo il “genitore collocatario”.
Va invero ricordato, che alcune rare decisioni di merito, tuttavia si discostano dall’orientamento della Suprema Corte, assegnando egualmente l’immobile allorché le disparità economiche siano davvero rilevanti tra il proprietario dell’alloggio e l’altro coniuge, in genere la moglie, priva o con un reddito assolutamente trascurabile. Di recente nel 2011 il Tribunale di Napoli, ha ritenuto che la casa coniugale possa essere assegnata alla moglie, anche in assenza di figli, utilizzando tale beneficio quale strumento integrativo per realizzare il diritto al mantenimento in favore del coniuge più debole.
Va invece ricordato il recepimento nella normativa (art. 155 quater c.c. nella formulazione di cui alla legge n.54/06), del principio ormai consolidato in giurisprudenza, secondo il quale il giudice nella determinazione dell’entità dell’assegno di mantenimento in favore dei figli, (la norma precisa: nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori), ma è da ritenersi anche in favore del coniuge, debba tenere conto del vantaggio economico per il genitore non proprietario, o solo comproprietario, derivante dall’assegnazione dell’alloggio.

Il collocamento dei figli quale presupposto dell’assegnazione e irrilevanza della colpa nel fallimento dell’unione – irrilevanza della proprietà di altri immobili

Dunque, il criterio a cui si dovrà attenere necessariamente il giudice è quello del “collocamento”.
Ricordiamo che, con la riforma di cui alla legge n° 54/06 sono state scisse, differentemente da come avveniva in precedenza:
L’affidamento da intendersi quale custodia dei figli consistente nel compito per ciascun genitore, quale responsabile della prole, di provvedere a tutti gli incombenti necessari ad una esistenza civile e dignitosa dei figli. Attualmente, attribuendosi l’affidamento in modo condiviso, si delega tale compito di custodia sia al padre che alla madre. Si tratta comunque più che altro di una pronuncia di principio, laddove, vivendo i figli con uno solo dei genitori, la custodia dell’altro appare più che altro simbolica e morale;
L’esercizio della potestà genitoriale che consiste nel poter assumere decisioni per ciò che riguarda la gestione dei figli e la loro tutela.
Attualmente con il principio della potestà esercitata da entrambi, ciascuno dei genitori potrà assumere le necessarie decisioni in favore dei figli, tenendo conto che, lo spirito della legge non è quello di attribuire la potestà congiuntamente ad entrambi, ma di attribuire a ciascuno di essi, disgiuntamente tale potere in modo del tutto autonomo.
Più precisamente, le decisioni di maggior interesse per i figli (relative per esempio all’istruzione, all’educazione e alla salute), sono compiute di comune accordo, mentre, limitatamente alle decisioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
In terzo luogo, ed è quello che qui ci interessa, il giudice dovrà stabilire il cosiddetto “collocamento”, vale a dire dovrà indicare la residenza dei figli, stabilendo con quale genitore i figli rimarranno e quindi andranno a vivere e cioè ove verranno collocati.
Conseguentemente al “coniuge collocatario della prole” verrà attribuito, sia l’uso della casa coniugale, sia l’assegno per la partecipazione al mantenimento dei minori o dei figli maggiorenni non autonomi.
In sostanza l’attribuzione dell’ex casa coniugale è connessa esclusivamente con il collocamento, (o con l’affidamento monogenitoriale).
Dunque non potranno essere seguiti criteri diversi da quelli statuiti dall’art. 155 quater,tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.
Va accentuato sotto questo profilo che, per casa coniugale deve intendersi tuttavia esclusivamente quella in cui si svolgeva la vita della famiglia allorché essa era unita, e diviene irrilevante sotto questo profilo che, il coniuge assegnatario, sia proprietario di altri alloggi, mentre l’altro coniugi versi in condizioni meno fortunate. Ciò in quanto la ratio della norma, trova fondamento nella tutela dovuta alla prole incolpevole del fallimento dell’unione, della quale deve essere garantito al meglio il suo sviluppo psichico e fisico, riducendo di contro al minimo il trauma della separazione dei genitori.
Ovviamente uno dei modi per ridurre il gravissimo disagio derivante dall’allontanamento di un genitore, non può che consistere nel garantire ai figli di poter proseguire la convivenza nei luoghi e quindi nella casa a loro abituale e congeniale e cioè in quella in cui sono sempre vissuti (collegata con la scuola, gli amici di quartiere) evitando per quanto possibile distacchi traumatici.
Diviene sotto tale luce, del tutto irrilevante che il genitore collocatario e assegnatario dell’ex casa coniugale, sia anche proprietario di altri immobili.
Naturalmente, ciò non vieta che il giudice, tenga doverosamente conto delle proprietà, al fine di suddividere gli oneri di mantenimento dei figli tra i genitori in rapporto ai rispettivi redditi.
Al giudice è comunque inibita l’utilizzazione di qualsiasi diverso criterio, non potendosi neanche valutare l’eventuale responsabilità nel fallimento dell’unione, del coniuge beneficiario dell’alloggio.
Ormai univocamente infatti la giurisprudenza ha confermato l’assoluta irrilevanza della colpa nel fallimento dell’unione e quindi anche dell’addebito finale della separazione, ai fini dell’eventuale perdita del diritto alla casa.
Ciò significa che, ci si può trovare in situazioni che appaiono, (e parzialmente lo sono), ingiuste, allorché la separazione sia imputabile alla moglie e ciò nonostante, data la tenera età dei figli, questi vengano collocati presso di lei e conseguentemente a lei venga assegnata la casa coniugale con l’estromissione del marito incolpevole, tenuto per di più a versare l’assegno di mantenimento per la prole, (pur perdendo ex art.li 151 c.c. e 156 c.c. il coniuge colpevole i diritti ereditari e l’eventuale possibilità di percepire un assegno per sé stesso).
Tuttavia di fronte all’esigenza dei figli incolpevoli, talvolta è necessario ricorrere al minor male come si evince da numerose decisioni anche di vecchia data della Suprema Corte, imponendosi al Tribunale l’assegnazione della casa familiare al coniuge, sia pure responsabile del fallimento del matrimonio, con il quale però viva la prole, pur se non titolare di alcun diritto reale o personale di godimento sull’immobile, nell’essenziale presupposto di tutelare l’interesse dei figli e trovando tale principio piena applicazione anche quando, a detto coniuge collocatario, venga addebitata con la sentenza finale la separazione.

L’opponibilità dell’assegnazione della casa nei confronti dei terzi

Questa è una delle questioni più spinose e sulle quali la giurisprudenza è intervenuta in maniera più massiccia, laddove da un lato, è necessario tutelare il terzo che vanta diritti sull’immobile e, dall’altro è necessario, nell’interesse collettivo, tutelare la prole, mantenendo alla stessa il diritto di rimanere nell’abitazione pregressa.
Il problema è rilevante, tanto più che, in alcuni casi, gli atti di cessione, i vincoli od i pesi, sono posti in essere ad hoc sull’immobile, artatamente o peggio fraudolentemente, dal marito, il quale sapendo di essere probabilmente estromesso dall’abitazione pone in essere, preventivamente, manovre tese al recupero della casa e finalizzate a mettere nel nulla il provvedimento di assegnazione del Tribunale.
Ciò può avvenire mediante semplice cessione a terzi dell’immobile prima del provvedimento del giudice, ovvero con l’iscrizione di ipoteca sul bene e la creazione di finti crediti al fine di procedere all’espropriazione della casa, anche successivamente al provvedimento di assegnazione, con la creazione di diritti reali in favore dei terzi sul bene, con la richiesta di un mutuo garantito da ipoteca sull’immobile, e simili.
Va detto in tal senso, che vi è una manchevolezza della norma, laddove non si prevede espressamente la possibilità, una volta presentato il ricorso per separazione, con richiesta di assegnazione della casa, di poter trascrivere presso la Conservatoria dei RR.II: la domanda sul bene, ad evitare cessioni artificiose dell’immobile, in attesa della fissazione dell’udienza presidenziale.
Talvolta capita al legale di trovarsi di fronte ad affannosi tentativi del marito, di vendere l’immobile, fissando le visite dei possibili acquirenti nei momenti in cui la moglie è impegnata a lavoro!
Nessun dubbio ovviamente sussiste viceversa sul diritto (e sulla opportunità) di trascrivere il provvedimento di assegnazione presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari competente, una volta emesso il provvedimento di assegnazione; anzi, come vedremo si tratta di un incombente assolutamente consigliabile dopo l’entrata in vigore della legge n° 54/06.
La normativa divorzile sul punto, all’art. 6 comma 6° della legge 898/70 modificata dalla legge n° 74/87 e successive, prevedeva che “L’assegnazione in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ai sensi dell’art. 1599 c.c.”.
La Corte Costituzionale aveva già esteso tale principio ai procedimenti di separazione, e la norma veniva interpretata nel senso di favorire il soggetto che avesse trascritto per primo.
Successivamente la Corte di Cassazione, attribuiva alla dettato legislativo, un significato molto più estensivo, ritenendo che, nel caso di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, il relativo provvedimento in quanto avente per definizione data certa, sia esso la sentenza che definisce il giudizio di separazione o di divorzio sia il provvedimento provvisorio pronunciato dal Presidente del Tribunale ai sensi degli art.li 708 c.p.c. ed ai sensi della normativa divorzile, fosse comunque opponibile al terzo acquirente del bene, anche in epoca successiva al provvedimento medesimo, nel termine di 9 anni ed anche oltre, nel caso in cui il provvedimento risultasse trascritto.
Tale interpretazione decisamente favorevole alla donna assegnataria della casa, anche in assenza di trascrizione, appare tuttavia poco convincente quanto meno perché pone in uno stato di oggettiva incertezza l’acquirente di un qualunque immobile il quale, non può sapere se, nel frattempo sia stato emesso un provvedimento di assegnazione della casa ad uno dei coniugi e quindi se, di fatto egli rischi di essere estromesso dalla casa, dopo averla pagata!
Infatti, il ritenere opponibile il provvedimento di assegnazione nei confronti di chiunque senza alcuna forma di pubblicità esteriore, e cioè senza un idonea trascrizione presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari, finisce con il porre a rischio qualunque negoziazione immobiliare.
Con la nuova normativa, e cioè con la nuova redazione dell’art. 155 quater c.c. effettuata dalla legge 14/02/2006 n° 54, il legislatore ritornava sul punto e così ha statuito: “Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili ed opponibili ai terzi ai sensi dell’art. 2643”.
Sembrerebbe che, il significato sia quello di imporre ora comunque la trascrizione del provvedimento di assegnazione, facendo prevalere il diritto di chi per primo abbia trascritto, soluzione più conforme a giustizia, evitando di trascinare in lunghi e costosi giudizi, soggetti del tutto estranei al rapporto coniugale.
Quindi così come avviene per qualunque azione giudiziaria diretta a rivendicare un diritto reale, appare possibile opporre l’assegnazione nei confronti del terzo, soltanto se il provvedimento venga trascritto dall’avvocato presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari.
È evidente che, in attesa delle interpretazioni giurisprudenziale prossime, è sempre consigliabile che, il legale provveda alla trascrizione del provvedimento presso la Conservatoria, apparendo ben trascurabili gli ulteriori oneri economici per l’attività professionale svolta, rispetto il vantaggio decisivo per il cliente ed i valori in gioco.
Secondo alcuni potrebbe interpretarsi la norma anche nel senso della possibilità di trascrivere ora la stessa domanda di separazione con richiesta di assegnazione della casa, direttamente, così come avviene con una ordinaria citazione con la quale si rivendichi un diritto reale ed un provvedimento costitutivo da parte del Tribunale, ma i responsabili delle Conservatorie, non sembrano aderire a tale interpretazione, in assenza di un chiaro dettato legislativo o di una interpretazione in tal senso della Cassazione.

I diritti dei terzi sull’immobile

È pacifico che, il provvedimento di assegnazione non privi ovviamente il terzo dei propri diritti sull’immobile e quindi in caso di rapporto locativo, o comunque di occupazione della casa ad altro titolo (comodato, rapporti di natura lavorativa, concessione dell’immobile con patto di riscatto, ecc.), la giurisprudenza ha sempre chiarito che il provvedimento del magistrato, in realtà va a sovrapporsi sul rapporto giuridico preesistente, costituendo un titolo autonomo a favore del coniuge assegnatario e della prole a lui affidata.
Quindi in sostanza, per esempio, nel caso di locazione non accadrà altro che la sostituzione del beneficiario, modificandosi il nominativo della moglie assegnataria al posto del marito originario conduttore, e così nel rapporto di comodato.
Ovviamente nulla muta per ciò che riguarda gli altri elementi del contratto e quindi, in ogni caso, pur se assegnatario, il coniuge dovrà lasciare l’alloggio alla scadenza e rispettare le condizioni pattuite e pagare il canone.
La questione si complica allorché l’alloggio sia concesso in locazione da parte di un Ente Pubblico con patto di futura vendita, oppure da un Ente Previdenziale il quale intenda in seguito, cedere gli immobili a terzi e prioritariamente ai conduttori.
Ove la casa familiare, nel primo caso, consista in un alloggio edificato con pubblico denaro assegnato dall’Istituto in godimento con patto di riscatto ad uno dei coniugi, il provvedimento del giudice che, di contro assegna l’immobile all’altro coniuge, non va ad incidere sulla validità dell’atto amministrativo.
Il provvedimento in realtà va a sovrapporsi su quello della pubblica amministrazione, costituendo un titolo autonomo di godimento in favore del coniuge assegnatario ed a favore della prole a lui affidata, ma non modifica i termini del contratto.
Quindi secondo la giurisprudenza, il coniuge, estromesso dalla casa, ma beneficiario del provvedimento amministrativo, per esempio dell’Istituto delle case popolari, conserva l’aspettativa avente ad oggetto l’acquisto della proprietà mediante l’esercizio del riscatto, mentre il coniuge beneficiario del provvedimento di assegnazione del giudice, ne acquista la facoltà di godimento.
Diverso è il caso di dismissione del patrimonio immobiliare da parte degli enti pubblici o previdenziali, con decisione assunta dopo l’assegnazione della casa alla moglie, la quale è subentrata nel rapporto locativo del marito. In tale ipotesi manca un contratto originario che attribuisca la proprietà con patto finale di riscatto, ma si è in presenza soltanto della volontà, manifestata successivamente dall’ente di vendere comunque a terzi l’mmobile, e di privilegiare con la concessione di una prelazione, il proprio conduttore, mediante la fissazione di un prezzo proposto, in genere inferiore a quello di mercato.
In questa ipotesi la giurisprudenza di merito ritiene che la cessione del contratto locativo in favore della moglie assegnataria opera ex lege, con l’assegnazione dell’alloggio a questa ed ai figli, in sede di separazione o divorzio.
Conseguentemente il contratto originario deve considerarsi estinto, senza possibilità di una sua reviviscenza, trasferendosi tutti gli effetti del contratto in capo al nuovo conduttore.
Se a ciò si aggiunge che, lo scopo del prezzo ridotto, è proprio quello di favorire il nucleo familiare convivente nell’alloggio, è naturale che il diritto di acquisto non possa che riguardare l’occupante effettivo dell’immobile, e non il conduttore originario ed ormai estromesso.

Casa coniugale di proprietà dei genitori di un coniuge o di altri parenti

Una grande limitazione dei diritti del proprietario, è stata tuttavia posta dalla Corte di Cassazione allorché, l’immobile sia stato concesso, così come spessissimo avviene, dai genitori di uno dei coniugi, in favore della coppia e dei figli, per l’utilizzazione della casa, quale abitazione familiare.
La questione è stata affrontata dalla Cassazione a Sezioni Unite, con una decisione, che ha lasciato ampio spazio a critiche.
Infatti si è accentuato, con tale decisione, l’orientamento che attribuisce sempre più rilevanza al provvedimento di assegnazione della casa familiare alla moglie, comprimendosi i diritti di proprietà non solo del coniuge, ma anche in alcuni casi dei parenti estranei al rapporto coniugale.
La situazione, esaminata, sostanzialmente poteva così riassumersi: il padre del marito concedeva un appartamento in comodato al proprio figlio perché vi abitasse con la moglie ed i nipotini. Successivamente i coniugi si separavano ed il suocero richiedeva alla nuora la restituzione del proprio immobile, pur se assegnato dal giudice della separazione alla donna, non sussistendo più il presupposto che aveva dato luogo alla concessione in uso gratuito, essendosi interrotto il rapporto tra il figlio e la nuora. Il proprietario, in sostanza, rilevava di aver concesso in comodato l’immobile al proprio figlio perché lo utilizzasse quale casa familiare per sè e la moglie, ma ciò nel presupposto che, il matrimonio rimanesse in essere. Tuttavia una volta che i coniugi si erano separati, egli non aveva più alcun interesse a mantenere l’immobile in uso a favore della nuora, la quale peraltro era legittimata a ricostruirsi una nuova vita con un altro compagno e quindi richiedeva di recuperare il proprio bene ai sensi dell’art. 1809 c.c. che appunto prevede come il comodatario sia obbligato a restituire la cosa alla scadenza del termine convenuto, o in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità al contratto ed in ogni caso ai sensi dell’art. 1810 c.c. che prevede come, in assenza di un termine, il comodatario sia tenuto a restituire il bene non appena il comandante lo richieda.
La Corte di Cassazione in mancanza di un espressa previsione legislativa, riteneva di contro, che la casa dovesse essere lasciata alla nuora gratuitamente, e ciò sotto il profilo della prosecuzione del preesistente rapporto contrattuale di comodato.
Rilevava in sostanza la Cassazione che, il comodato fosse stato concesso dal padre del marito separato, proprio affinché l’immobile fosse destinato ai bisogni del nucleo familiare e quindi nell’interesse della prole.
Quindi interpretato così il rapporto contrattuale preesistente, la Corte riteneva che, il contratto di comodato fosse rapportato alla tutela della famiglia e quindi il rapporto negoziale rimanesse in essere, anche in caso di separazione, non venendo meno all’obbligo di protezione della prole.
Sostanzialmente escludeva la Cassazione, il diritto del suocero, a poter riottenere il proprio immobile, non potendosi considerare il contratto privo di termine ex art. 1810 c.c., ma dovendosi ritenere che questo perdurasse fino all’autonomia economica dei figli (e cioè in un periodo in cui presumibilmente il suocero avrebbe cessato di vivere!).
Ciò salva però la sopravvenienza di urgenti ed imprevisti bisogni personali.
Tale interpretazione giurisprudenziale è stata reiterata più volte da vari giudici di merito ed anche dalla Suprema Corte con alcune precisazioni.
Quindi appare importante che, in caso di separazione tra i coniugi, ove la casa appartenga ad un altro parente, si abbia l’accortezza di regolamentare il rapporto mediante un contratto di locazione o altro espresso accordo contrattuale, al fine di evitare che il coniuge assegnatario, poi rivendichi il diritto di rimanere gratuitamente nell’immobile fino all’autonomia economica dei figli.
Va comunque accentuato, che tale rilevante peso posto a carico del genitore del coniuge separato, è operante esclusivamente allorché sussista l’affidamento dei figli.
Infatti, la Suprema Corte ha precisato come, allorché il terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di cui sia proprietario o usufruttuario, perché sia destinato a casa familiare, il successivo specifico provvedimento pronunciato in giudizio di separazione o divorzio, di autorizzazione di uno dei coniugi ad abitare nella stessa casa emesso dal giudice della separazione, al di fuori delle previsioni e dei limiti normativi, in quanto pronunziato in assenza di provvedimento e di affidamento della prole, non impone al comodatario alcun obbligo di consentire la continuazione del godimento del bene.
Ne consegue che in tale ipotesi l’occupante dell’alloggio non è in possesso di alcun titolo opponibile al comodante, il quale è legittimato a chiedere il rilascio dell’immobile.

Spese condominiali, mutui ed oneri fiscali

L’assegnazione della casa coniugale ad uno dei due coniugi, in presenza di figli minorenni o maggiorenni non autonomi, comporterà quindi il legittimo esercizio del diritto personale di godimento, esteso anche ai beni mobili all’interno dell’alloggio.
L’assegnazione comporterà secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, l’accollo di tutti gli oneri condominiali ordinari e delle spese di manutenzione del mobilio, a carico del beneficiario dell’assegnazione della casa, mentre di contro, le spese straordinarie resteranno a carico del proprietario in senso analogo alla disciplina civilistica in tema di usufrutto (art. 1005 e 1026 c.c.).
Per ciò che riguarda viceversa i contratti di mutuo preesistenti sull’immobile, ipotesi che peraltro si verifica di frequente, e cioè per quanto concerne il pagamento delle rate residue a scadere, il provvedimento di assegnazione non comporterà alcuna modificazione, non potendo le statuizioni del giudice della separazione o del divorzio, incidere in alcun modo sui legittimi diritti dei terzi, né su un contratto di natura privatistica stipulato in precedenza.
Conseguentemente chi si è accollato il mutuo, (l’uno, l’altro, o entrambi i coniugi), dovrà provvedere al pagamento delle residue rate, tenendo ovviamente conto il giudice di tale situazione nella determinazione dell’assegno di mantenimento per moglie e/o figli e per la regolamentazione degli altri rapporti economici.
Quanto all’imposta comunale sugli immobili, la giurisprudenza ha ritenuto che il diritto del coniuge al quale in sede di separazione o di divorzio, sia stato assegnato il godimento della casa coniugale di proprietà dell’altro coniuge (proprio perché configurabile quale diritto personale di godimento e non quale diritto reale), non è tenuto al pagamento dell’ICI, contrariamente a quanto si riteneva in precedenza
Conseguentemente il coniuge assegnatario dell’abitazione familiare, anche se obbligato al pagamento delle spese correlate all’uso dell’alloggio, ivi comprese quelle condominiali che riguardano la manutenzione delle cose comuni poste a servizio di questo, non può essere destinatario della pretesa dell’Ente impositore quanto all’ICI gravante sull’immobile, nè è tenuto a rimborsare al coniuge proprietario quanto da questi pagato al Comune a detto titolo.
Sul punto si annoverano tuttavia alcune decisioni contrastanti.

La restituzione dell’ex abitazione coniugale

In modo innovativo l’art. 155 quater c.c. per la prima volta stabilisce normativamente i casi di restituzione della casa, prevedendo che: “Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio”.
Ove inoltre, uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, e tale mutamento interferisca con le modalità dell’affidamento, l’altro può chiedere la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici.
Mentre non vi è dubbio sulla fondatezza della norma, allorché il diritto all’abitazione venga meno per rinuncia, in caso di cessazione dell’occupazione dell’immobile in modo stabile, o contraendo un nuovo matrimonio, del tutto critica è apparsa la dottrina, fin dal primo esame della nuova disciplina, per la parte in cui si prevede la perdita del diritto alla casa coniugale, ove il coniuge beneficiario conviva more uxorio, non essendosi posto evidentemente il legislatore il problema di quale fine avrebbero fatto i figli conviventi con la madre nella casa.
Se tali situazioni, possono ben legittimare una revisione delle condizioni economiche, non sembra che da sole, possano giustificare certamente la perdita della casa, in presenza dei figli conviventi, evidentemente incolpevoli.
Quanto invece alla possibilità di ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti economici già adottati, nel caso di abbandono della residenza o del domicilio e di trasferimento del coniuge e dei figli, tale ultimo comma dell’art. 155 quater c.c. ricalca in maniera speculare gli orientamenti giurisprudenziali che si erano formati nel frattempo, anche da parte della Suprema Corte, laddove non si può impedire al genitore di trasferire la propria residenza in qualunque parte lo desideri, ma di contro, si deve valutare il maggior costo che subisca il coniuge non collocatario, nell’andare a trovare i figli a causa della lontananza, potendosi agire, a compensazione, appunto sui parametri di natura economica e patrimoniale.
Tra l’altro, sul punto, la Corte di Cassazione si era già pronunciata in varie occasioni permettendo al coniuge affidatario di spostarsi con la prole anche all’estero, essendo il diritto di uscita dallo Stato costituzionalmente garantito e non sopprimibile per tutelare il diritto di visita dell’altro genitore.

Restituzione della casa per autonomia economica dei figli

Tutt’altro è il discorso allorché il coniuge proprietario richieda il rilascio della casa essendo venuti meno i presupposti dell’assegnazione e, cioè per essere i figli divenuti   maggiorenni ed autonomi e quindi mancando il diritto a permanere nell’alloggio di proprietà dell’altro.
Se, da un punto di vista teorico, la soluzione del problema dovrebbe essere evidente, restituendosi la casa all’altro coniuge legittimo proprietario, in realtà, come si vede dalle decisioni di merito, i magistrati sono estremamente cauti in tal senso.
Ciò deriva dal fatto che nella realtà giudiziaria, la richiesta di restituzione della casa avviene in genere, quando i figli hanno consolidato un’attività lavorativa stabile ed allorché i coniugi sono già in età avanzata.
Togliere l’alloggio ad una donna ultracinquantenne la quale vive soltanto grazie all’assegno di mantenimento del marito, costituisce un atto di ingiustizia sostanziale, anche se la norma imporrebbe un provvedimento del Tribunale in tal senso.
Sotto questo profilo la giurisprudenza è intervenuta, valorizzando il principio che impone al giudice di valutare, nell’assegnare l’immobile, di proprietà o in comproprietà dell’altro, il valore economico, corrispondente di regola al canone teorico ricavabile dalla locazione dell’immobile e del quale appunto, il magistrato deve tener conto, ai fini della determinazione dell’assegno, dovuto al beneficirio, per il mantenimento proprio e dei figli.
Ragionando ex adverso, in caso di richiesta di revoca, fermo restando che l’assegnazione della casa, per il suo carattere di eccezionalità, incontra un limite invalicabile nella raggiunta autonomia economica della prole medesima o anche solo nell’allontanamento dall’ambiente familiare, con scelte incompatibili con lo stato di dipendenza dalla famiglia di origine, va rivisto tutto l’equilibrio economico. Infatti la revoca dell’assegnazione, ben costituisce   un elemento valutabile ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio in quanto essa incide negativamente, (e normalmente in modo rilevante), sulla situazione economica della parte che, perdendo l’alloggio, debba stipulare un contratto di locazione per altro immobile per far fronte alle proprie necessità abitative.
Poiché quindi, ne deriva un peggioramento della situazione economica dell’ex coniuge tale da renderla insufficiente ai fini della conservazione di un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio, è legittimo che, in concomitanza con la perdita della casa, venga aumentato l’assegno di una somma sufficiente per locare altro alloggio, (in senso conforme Cassazione e numerose decisioni di merito).
Con tali sentenze si precisa come, la revoca dell’assegnazione dell’abitazione coniugale all’ex moglie affidataria dei figli minori, con conseguente obbligo di restituzione della stessa all’altra parte, proprietario esclusivo, oltre che comportare un evidente peggioramento della situazione economica della parte che perde la casa, costretta a locare altro alloggio, comporta contemporaneamente un significativo miglioramento delle condizioni economiche del proprietario, circostanza sopravvenuta, che giustifica doppiamente l’attribuzione alla ex moglie di un assegno divorziale, anche se prima non previsto.
Quindi presti ben attenzione il legale prima di richiedere la restituzione della casa coniugale, atteso che quasi certamente, il Tribunale provvederà ad attribuire un congruo assegno alla moglie, sotto il profilo della perdita di reddito derivante dalla restituzione della casa ovvero sotto il profilo del miglioramento delle condizioni del coniuge beneficiario della restituzione, con obbligo di versare un assegno al coniuge più debole.
Tra l’altro far attribuire un assegno divorzile all’ex moglie che prima non l’aveva, significa aprirle la strada a tutta una serie di benefici prima inesistenti (diritto in percentuale al T.F.R., ex legge divorzile n.898/70 e succ.ve modifiche, art.12 bis, diritto in caso di ritardato pagamento ad iscrivere ipoteca sui beni dell’altro, (art.8), diritto a farsi garantire dagli eredi il pagamento di un assegno periodico, (art.9 bis), diritto alla pensione di reversibilità pregiudicando l’analogo diritto del nuovo coniuge dell’ex marito deceduto, (art.9), benefici che quasi mai compensano il vantaggio di recuperare, dopo una lunga causa, l’immobile.

Il trasferimento di proprietà della casa coniugale

Nell’ambito delle statuizioni concordate dai coniugi nella separazione consensuale, accanto alle condizioni cosiddette necessarie, (affidamento e/o collocamento dei figli, diritto di visita, assegnazione della casa, determinazione di un assegno di mantenimento per figli e/o coniuge), è possibile inserire clausole relative anche alla regolamentazione delle proprietà, (cosiddette clausole eventuali).
Ciò anche se, in realtà, tali accordi sono sempre collegati gli uni con gli altri e non è possibile scindere le clausole “essenziali” da quelle “eventuali”, nel senso che le prime non sarebbero state inserite, se non in presenza delle seconde, (per esempio un assegno di mantenimento viene stabilito notevolmente più basso di quanto si sarebbe dovuto determinare, tenendo conto dell’attribuzione per esempio di un immobile in comodato o in proprietà).
Fra le clausole eventuali, per ciò che qui ci interessa circa il destino della casa di abitazione, i coniugi possono prevedere non soltanto l’impegno vicendevole circa l’utilizzo dell’immobile, ma possono ottenere direttamente il trasferimento di proprietà, dall’uno all’altro, includendo il relativo accordo nella separazione stessa.
In sostanza i coniugi al momento della sottoscrizione del verbale avanti al Presidente, dovranno inserire la pattuizione del trasferimento di proprietà dell’immobile in favore di uno di loro, riportando tutti gli estremi, le parti, i codici fiscali, i dati catastali, esattamente come se fosse un atto notarile di trasferimento di proprietà.
Accade però che, molti magistrati e molti Tribunali appaiano contrari a detti trasferimenti, operati con la semplice sottoscrizione del verbale di separazione firmato dai coniugi e dal giudice, soprattutto perché talvolta le Conservatorie dei Registri Immobiliari, rimandano l’atto indietro per errori materiali o mancando qualcuno dei datti necessari.
In realtà però la giurisprudenza è costante nel ritenere che, il progetto divisionale di un immobile, abbia natura di negozio giuridico, alla cui validità non osta il fatto che il bene ricada in comunione pro indiviso tra i coniugi.
È infatti rimesso alla discrezionalità e comune volontà dei coniugi, di disporre dei beni in comunione, talché l’atto divisionale o di assegnazione ad uno dei coniugi, costituisce titolo per la trascrizione, unico requisito previsto, essendo la forma scritta ai sensi dell’art. 1350 c.c. n° 11.
In realtà la convenienza in sede di separazione consensuale o di divorzio congiunto, di attribuire un bene, ad uno dei coniugi è rilevante, sia soprattutto per i benefici fiscali, risparmiandosi sempre molte migliaia di euro, (legge divorzile n° 898/70 modificata dalla legge n° 74/87, art. 19), sia perchè si evita un trasferimento notarile di proprietà, con notevole guadagno per entrambe le parti, anche se, in molti casi, i magistrati pretendono che, sia pure in esenzione delle imposte, l’atto vada comunque poi redatto tramite notaio.
D’altra parte, spesso è conveniente per il marito cedere direttamente la propria quota di proprietà della casa coniugale alla moglie, dal momento che questa, in presenza di figli, comunque diverrebbe assegnataria del bene e, di fatto, ne spossesserebbe il marito non infrequentemente a vita.
Pertanto il trasferimento della quota di casa in favore della moglie, se non dell’intera proprietà, diviene un mezzo importante di negoziazione tra i coniugi, per esempio per ridurre od escludere l’assegno dovuto al beneficiario in cambio appunto della cessione del bene.
La Suprema Corte, sul punto, ha precisato che, il suddetto accordo di separazione in quanto inserito nel verbale di udienza, redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato, assume la forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2699 c.c..
Ove pertanto l’atto implichi il trasferimento dei diritti reali immobiliari, esso costituisce dopo l’omologazione, titolo per la trascrizione presso la Conservatoria dei Registri del passaggio di proprietà.
Non va sottaciuto che, talvolta tali cessioni immobiliari mediante l’atto di separazione, costituiscono di fatto un negozio simulato allo scopo di spogliare il coniuge indebitato nei confronti dei terzi, di qualunque bene e quindi la separazione ha il sostanziale scopo di rendere nullatenente il debitore.
Circa la possibilità di esercitare l’azione revocatoria di tali separazioni simulate, ed in particolare degli atti di trasferimento dei beni, la giurisprudenza non appare univoca ed in tal senso (per esempio Cass. 23/03/2004 n° 5741), ha ritenuto che, gli accordi di separazione personale tra i coniugi contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell’uno nei confronti dell’altro e concernenti i beni mobili ed immobili, non risultano collegati necessariamente alla presenza di uno specifico corrispettivo o di uno specifico riferimento ai tratti propri della donazione, ai fini di una loro assoggettabilità all’azione revocatoria di cui all’art. 2901 c.c., ma rispondono di norma ad un più specifico spirito di sistemazione dei rapporti, proprio in occasione della separazione consensuale o del divorzio congiunto.

L’assegnazione della casa nei rapporti di convivenza

Da ultimo ricordiamo che la Corte Costituzionale ha esteso in parte, per la prima volta, e dopo decenni di diverso orientamento della giurisprudenza, anche alle famiglie di fatto, l’applicabilità della disciplina che regolamenta l’assegnazione della casa nelle crisi matrimoniali.
Infatti, in base a tale interpretazione, anche all’ex convivente al quale vengano affidati i figli naturali o comunque con il quale gli stessi vengano collocati, spetta il diritto all’assegnazione della casa precedentemente occupata.
La decisione è apparsa decisamente innovativa, non tanto per la parte in cui equipara lo status ed i diritti dei figli naturali a quelli dei figli legittimi, situazione ormai consolidata, quanto perché rende applicabile alcune normative previste in tema di crisi dell’unione matrimoniale, anche ai rapporti di convivenza, configurando il diritto del convivente, il quale riceve dal Tribunale l’affidamento dei figli o comunque il loro collocamento, con il diritto a farsi assegnare ora ex art. 155 quater c.c., l’ex casa comune anche se di proprietà dell’altro genitore, estromettendo quest’ultimo.
La Corte Costituzionale ha precisato infatti che, l’interesse del figlio all’abitazione come al mantenimento costituisce una linea guida alla quale bisogna riferirsi, sia nei rapporti di coniugio, sia nei rapporti di convivenza, essendo obbligo della società, tutelare la figura dei figli, indipendentemente dalla formalizzazione del rapporto tra i genitori.

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