È buio. Sento una leggera pressione sugli occhi e mi accorgo di essere bendato. Ora ricordo: qualcuno mi ha portato fin qui, guidandomi per mano. L’odore che sento è quello di legna bruciata e tutt’intorno c’è un silenzio totale.

Sciolgo la benda sul capo e il mio cuore si ferma. Il primo sentimento che mi avvolge è un’assoluta incapacità di comprendere. Sono a Beslan. Sono nella palestra della Scuola n.1. Fotografie di bambini mi fissano dalle pareti piene di scritte in cirillico. Alcuni peluches impolverati sono appoggiati sotto le finestre. Anche loro mi fissano e sembrano chiedersi che diavolo ci fanno in un posto del genere. Forse anche loro desidererebbero avere una benda per non vedere, per non rendersi conto del luogo dove sono. I giocattoli sono fatti per giocare con bambini vivi. I giocattoli sono fatti per stare in una cameretta pulita, ordinata, nel letto di un bambino, su un mobiletto o, al limite, riposti in qualche vecchia soffitta… ma no, non sono assolutamente fatti per stare in questa palestra.

Quello che resta della Scuola n.1 è sufficiente a stringere il cuore. Di fronte all’assoluto non senso del male, ti crolla addosso un senso di impotenza totale: ti senti svuotato della tua umanità e gli occhi, senza che te ne accorga, si riempiono di lacrime. Cominci a singhiozzare non proprio sommessamente e fai fatica a “capire”. Una cosa così te la puoi spiegare solo come un’assurda distrazione di Dio. Il dolore si impossessa di te, ti costringe a condividerlo. A condividere il male, il dolore, lo strazio che, forse, un giorno di otto anni fa, non hai “condiviso” e ora ti colpisce come uno schiaffo imprevisto, come un rimprovero per quello che non hai voluto vedere, per quello che non hai voluto sentire, per ciò di cui non hai voluto parlare coi tuoi genitori, i tuoi amici, i tuoi figli, per quello che non hai voluto ricordare, seppellendolo nel cimitero della tua memoria.

Se poi si visita il cimitero eretto dopo la strage e si passa tra le tombe tutte eguali tra loro, si possono notare delle pietre sepolcrali più lunghe: ti avvicini per capire. Il ghiaccio ti avvolge tutto: sono tombe dove è seppellita un’intera famiglia. E, più avanti, puoi vedere un padre deporre tre fiori: nella scuola ha perduto la moglie e le sue due bambine. Poi ti accade di andare a trovare Ella ed Emilia. Ella ha perso suo cognato, musulmano: il primo a cadere sotto le mani dei terroristi, mentre cercava di portare in salvo i suoi bambini. Emilia ha perso suo figlio. Ti mostra la sua fotografia e la riconosco in mezzo a tutte quelle viste nella palestra perché indossa un buffo cappello. Pensi a te e a tuo figlio e guardi Emilia: ti chiedi come possa fare un genitore a sopportare. E la risposta non viene. Ritornano le lacrime, ma devi soffocarle. Assolutamente devi soffocarle.

Pensi ai bambini che hanno perso la vita nella palestra. E pensi alla giovane età di chi li teneva in ostaggio, terroristi guidati dall’idea che una vendetta è la migliore risposta ai torti subiti, a una sorella violentata, a una madre e un padre sgozzati; e pensi a chi ha eseguito l’ordine di bruciare tutto, cose e persone: cioè ai giovani soldati che hanno macchiato il proprio onore e le proprie coscienze con l’alibi per cui “non si tratta con i terroristi”, neanche quando a pagarne le conseguenze sono dei bimbi innocenti. Pensi a tutti loro: a loro nessuno ha lasciato una scelta. Nessuna scelta per le vittime. E nessuna scelta per i carnefici. Anche a loro nessuno ha insegnato a scegliere, a credere che esiste un’alternativa: quella dell’amore, del perdono, della misericordia di Dio e di Allah.

Durante le guerre ti insegnano a stare da una parte o dall’altra. Spesso in Cecenia molti ragazzi potevano scegliere solo tra due possibilità: entrare nella milizia o rimpinzare le fila della guerriglia in montagna. Entrambi percorsi di odio. Come percorsi di odio o, se non altro, di intolleranza sono lasciati spesso anche nelle Repubbliche dell’Ossezia del Nord e dell’Inguscezia, dopo la guerra del 1992 e dopo i fatti di Beslan. Lilja Jusupova nella sede di Memorial a Gudermes (Cecenia) invece ci ha insegnato che la terza via è possibile. Lilja, assieme ad altri volontari, è impegnata in una serie di progetti che aiutano ragazzi e ragazze ad avere una chance. Forniscono loro degli stages che gli consentono di entrare nel mondo del lavoro, un lavoro pulito, onesto. Per lo più si tratta di percorsi formativi rivolti a ragazzi con scarse o nulle risorse economiche. Tra di loro ci sono anche ragazzi con handicap fisici e mentali. Per tutti loro Lilja regala la chance.

Non voglio più girarmi dall’altra parte. Non voglio più far finta di non vedere. Non voglio più resettare la mia memoria, cancellando via le immagini di corpi bruciati sotto le macerie di una scuola. Voglio camminare a testa alta e gridare che d’ora in poi farò tutto quello che posso perché quello che è stato non accada mai più. Farò tutto quello che posso, anche dall’Italia, per aiutare il nostro futuro ad avere una chance.
Così, dopo l’incontro con Lilja mi sento più sereno…forse Dio non è sempre così distratto.

Chi volesse aiutare i progetti in Caucaso di Mondo in Cammino, può farlo mettendosi in contatto con l’associazione a questi recapiti: tel. 3338904279 o all’e-mail: mondoincamminoveneto@libero.it o sul sito: www.mondoincammino.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *