Servono almeno 5 miliardi di euro per ridurre il rischio idrogeologico del Paese. A tanto, infatti, ammonta il piano di interventi straordinari e di messa in sicurezza delle aree ad elevata criticità, stilato dall’Anbi, l’associazione nazionale dei consorzi di bonifica che gestiscono molte delle aree a rischio idrogeologico del Paese.

Gli interventi proposti sono i più disparati e riguardano tutte le regioni d’Italia. Prevedono la realizzazione di bacini di laminazione o casse di espansione dei letti dei fiumi che permetterebbero di contenere eventuali piene o esondazioni dei bacini fluviali più a rischio come, ad esempio il Mincio nella zona del mantovano o, il Serchio e l’Arno (che rendono critico il territorio di Pisa), o in provincia di Udine, l’Isonzo, o, ancora, il Tevere nel Lazio. Ma nei progetti si parla anche di rinforzo degli argini , potenziamento delle pompe idrovore che favoriscono il deflusso delle acque piovane necessarie soprattutto nelle zone sotto il livello del mare (come per esempio Ferrara, la provincia di Venezia o, ancora la provincia di Latina). Sono a rischio idrogeologico anche quelle regioni dove c’è stata una massiccia opera di urbanizzazione legata soprattutto ai capoluoghi. Nelle città, infatti, la cementificazione, non solo costituisce un ostacolo per l’assorbimento delle acque reflue ma limita anche la possibilità di interventi massicci di messa in sicurezza del territorio.

 

Oltre cinquemila Comuni a rischio

franePer l’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in Italia sono a rischio idrogeologico 5.581 comuni pari a quasi il 70% del totale. Nella mappa disegnata dall’istituto, in pratica, ogni cento Comuni, ben 70, sarebbero a rischio frane (il 63,8%) o alluvioni (il 36,2%). Le regioni più esposte sono il Piemonte, dove sono a rischio idrogeologico 1046 Comuni distribuiti su una superficie di 2.981 kmq, la Lombardia (914 comuni e 2.274 kmq), la Campania (474 comuni e 2.253kmq) e la Calabria (tutti i 409 Comuni per una superficie di 1.167 kmq).

 

Sicilia, dati provvisori

In Sicilia si registra un forte ritardo nel censimento del rischio idrogeologico. I dati dell’Ispra, aggiornati al 2003, ci dicono che i Comuni a rischio sono 272 per una superficie di 202 kmq. Ma la superficie ad elevata criticità passa a 833 kmq nel rapporto 2008 del ministero dell’Ambiente (il 3,2% rispetto alla media italiana del 9,8%). Si tratta però di dati provvisori, come chiarito nello stesso documento perché la Sicilia è l’unica regione a non contare su cifre e mappe del rischio valide. In ogni caso, anche nella loro incompletezza, i numeri mostrano che la provincia di Messina è in assoluto la seconda con 65 Comuni interessati e 65 chilometri di territorio affetto da frane e rischio alluvioni, rispetto a Palermo che ha però un territorio quasi doppio.

 

Calabria, discariche fluviali

Fondamentale, di fronte al rischio di frane o alluvioni è l’attività di ordinaria manutenzione degli impianti o, ad esempio, dei fossi e dei canali di scolo che devono rimanere puliti. Eppure non sempre così accade. In Calabria, per esempio, i letti dei corsi d’acqua sono spesso delle discariche a cielo aperto, piene di rifiuti anche ingombranti, erbacce ed arbusti che in caso di piena del corso d’acqua si trasformano delle vere e proprie dighe che impediscono in normale flusso delle acque. Eppure in regione ci sono ben 8mila gli operai idraulico forestali, che ben potrebbero occuparsi della pulizia dei canali e dei fossi. E allora perché i greti dei torrenti e dei fiumi sono pieni di lavatrici, sacchi di plastica e ogni genere di scarto?
“La legge regionale c’è – spiega Grazioso Manno Presidente dell’Urbi Calabria – è la 7 del 2001. Prevede l’utilizzo dei forestali su tutto il territorio. Di fatto è inapplicata. Basterebbe applicare le norme vigenti per iniziare ad impiegare a pieno regime questo fantastico esercito con immediati benefici ambientali e risvolti, in termini di efficienza ed economicità”.
Gli effetti di una mancata o adeguata azione preventiva sono poi acuiti da uno scarso senso civico dei cittadini – che costruiscono abitazioni abusive nei greti dei fiumi, o sulle pendici di monti e colline a rischio frana – o peggio da una miope progettazione infrastrutturale.

 

Emilia Romagna, variante di Valico

È di questi giorni l’allarme lanciato dal consigliere regionale Emilia-Romagna, Andrea Defranceschi, del Movimento 5 stelle, sul rischio idrogeologico legato alla costruzione della cosiddetta variante di Valico. Relativamente a quest’opera, infatti, il consigliere denuncia che “all’interno della massa di terra del volume di 2 milioni di metri cubi che si sarebbe mobilizzata in seguito ai lavori di scavo della galleria Val di Sambro, passando da frana quiescente ad attiva, vi sarebbero diverse falde acquifere sulla cui localizzazione e dimensione non risulterebbero essere state fatte indagini con piezometri”. L’effetto è che la galleria, sul lato sud, si sta spostando assieme all’ammasso fino ad ora di circa 9 centimetri di cui uno negli ultimi due mesi. I lavori, nonostante tutto stanno proseguendo perché i contratti vanni rispettati.

 

Versilia, colture collinari

Il rischio idrogeologico, nel nostro Paese, legato alle abitudini dei residenti, deriva anche dal progressivo abbandono delle colture collinari e montane ed il conseguente esodo verso le città. Così è successo in Versilia Alta, a partire dagli anni Sessanta. Ettari ed ettari di terreni coltivati sui territorio appenninici e delle alpi apuane sono stati progressivamente abbandonati per inseguire il mito della metropoli o della bella vita sulla riviera versiliana.
“L’abbandono delle colture – spiega Fortunato Angelini, presidente del Consorzio di Bonifica Versilia-Massaciuccoli e presidente dell’Urbat, l’unione regionale dei consorzi di bonifica toscani – produce effetti devastanti sulla stabilità di un territorio che, in mancanza della naturale manutenzione legata all’attività del contadino, rischia di venire giù tutte le volte che viene giù un po’ più di acqua del previsto”.

 

Veneto, emergenza continua

Nell’alluvione del Veneto del novembre 2010 sono bastati 100 mm di acqua piovuta in 48 ore a Padova, 370 a Treviso, 386 a Verona, 530 a Vicenza, 586 a Belluno per allagare 131 Comuni, bloccare un’autostrada (l’A4 per 4 giorni) e 55 strade statali, sfollare quasi 7mila persone, oltre che provocare 51 tra frane e smottamenti, 29 esondazioni e 15 rotture di argini. Danni per mezzo miliardo di euro ai quali bisogna aggiungere i quasi due miliardi di euro di investimenti individuati dal piano di intervento predisposto dalla regione fino ad oggi finanziato per appena 200milioni di euro, neanche il 10% di quanto necessario.

 

Liguria, vecchi piani straordinari

frane_2Lo stesso discorso viene proiettato sul presente nei disastri di Genova (300 mm in 24 ore e oltre 200 milioni di danni) e della Lunigiana (causato da 366 mm di pioggia in un giorno che hanno determinato più di 800 milioni di euro di danni). “Abbiamo proposto – continua Angelini – un piano straordinario decennale di interventi di fronte al quale la regione ha risposto subito stanziando più di 80milioni per l’emergenza ma è evidente che siamo ben lontani dal raggiungere la somma necessaria. Per trovare i soldi in tempi difficili come questi occorre la collaborazione di tutti”.

 

Lazio, un esempio positivo

Non mancano gli esempi positivi. Nel Lazio, dove il rischio idrogeologico riguarda 366 comuni e una superficie di 1.252 kmq, gli impianti esistenti in regione, gli impianti dei consorzi di bonifica (che non hanno competenza nelle città) hanno retto bene alle piogge degli ultimi giorni. “Un unico rammarico – precisa Massimo Gargano, presidente dell’Anbi, l’associazione nazionale delle bonifiche – legato ai milioni e milioni di ettolitri d’acqua dolce che avrebbe potuto essere riutilizzata per le colture ma che abbiamo dovuto buttare in mare per la mancanza di impianti di recupero”.

RIDUZIONE DEL RISCHIO IDROGEOLOGICO2011-1
TABELLACONSORZIBONIFICA2010

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