Una delle pochissime innovazioni positive del Porcellum è l’obbligo di depositare, unitamente al simbolo ed al nome del capo della coalizione (o lista monopartito), anche il programma con cui ci si propone di governare il Paese.
Alla URL ((http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/25_elezioni/6_MOVIMENTO_5_STELLE.PDF)) si può leggere quello del movimento di Grillo, che a pagina 2 (sesto punto) enuncia “eliminazione … del diritto alla pensione dopo due anni e mezzo“.
Si capisce bene il perché: il Movimento è nato e prosperato in mezzo ad una furibonda temperie mediatica, in cui l’attenzione alle spese della politica è stata esaltata dai sacrifici che sono richiesti a noi tutti cittadini.
In quel frangente, almeno due libri da top ten (la Casta e la Deriva, di Stella e Rizzo) – oltre a tutta una congerie di pubblicazioni minori – ha ribattezzato “pensione” la rendita vitalizia che da oltre cinquant’anni le Camere accendono per i loro ex componenti.
Non che la sostanza non sia quella, beninteso: solo che appariva più odioso comparare l’obbligo del contributivo delle leggi Dini e Fornero con qualcosa di analogo di cui disponessero i politici, piuttosto che stare a sottilizzare sulla veste giuridica con cui quell’assistenza previdenziale vita natural durante era attribuita agli ex parlamentari.
Che poi la ricaduta sul bilancio dello Stato fosse diversa, a seconda della veste giuridica prescelta, interessava a pochi cultori della materia: perché se un lato è vero che in ambedue i casi si grava sulle finanze pubbliche, dall’altro è anche vero che la rendita è un contratto assicurativo, una scommessa che si fa con l’amministrazione stipulante circa la durata in vita del beneficiario; la pensione, invece, è un diritto, tendenzialmente coperto da uno schema previdenziale che si basa sull’accorto investimento dell’ammontare dei contributi accantonati.
È ovvio che in nessuno dei due casi la realtà combaciava con lo schema: mai le Camere hanno “scontato” presso istituti assicurativi privati le posizioni dei loro “assistiti”, tant’è vero che sugli emolumenti era previsto l’assoggettamento all’aliquota impositiva delle pensioni; mai la fittizia contribuzione “del datore di lavoro” s’è diretta ad una cassa previdenziale, perché in partita di giro essa rientrava nel bilancio generale della Camera o del Senato (con il che erano questi, nella globalità della dotazione proveniente annualmente dal Ministero dell’economia e finanze, ad essere emunti per pagare l’ex).
Non a caso, la Corte Costituzionale – già nella sentenza n. 289 del 1994 – ebbe a riconoscere che «l’evoluzione che, nel corso del tempo, ha caratterizzato questa particolare forma di previdenza ha condotto anche a configurare l’assegno vitalizio come istituto che, nella sua disciplina positiva, ha recepito, in parte, aspetti riconducibili al modello pensionistico e, in parte, profili tipici del regime delle assicurazioni private».
Eppure, la stessa sentenza ammonì che tra assegno vitalizio e trattamento pensionistico – nonostante la presenza di alcuni profili di affinità – non sussiste una identità né di natura né di regime giuridico, dal momento che l’assegno vitalizio, a differenza della pensione ordinaria, viene a collegarsi ad una indennità di carica goduta in relazione all’esercizio di un mandato pubblico: indennità che, nei suoi presupposti e nelle sue finalità, ha sempre assunto, nella disciplina costituzionale e ordinaria, con notazioni distinte da quelle proprie della retribuzione connessa al rapporto di pubblico impiego.
Sta di fatto che – in modo assai indicativo sul come i politici guardano se stessi, in guisa degli aristocratici francesi nel luglio del 1789 – le stesse leggi hanno iniziato a parlare di “quella cosa” in termini di “pensione”; un memorabile bilancio interno del 2010 alla Camera vide l’Italia dei Valori proporne l’abolizione (respinta a stragrande maggioranza) ed uno successivo (miracoli del diritto parlamentare!) vide addirittura la Presidenza dichiarare inammissibile la stessa richiesta, in quanto non si può sottrarre ad un lavoratore la pensione.
La legislatura più pazza del mondo (la XVI repubblicana) finì addirittura con una rigorosa modifica delle normative interne delle Camere: dopo che la disciplina Bertinotti-Marini aveva posto il limite minimo di sessant’anni d’età per iniziare fruire del vitalizio, il duo Fini-Schifani si espose ulteriormente nel senso dell’equiparazione alla disciplina previdenziale, nel senso di prevedere il passaggio ad una sorta di contributivo pro quota per il calcolo dell’emolumento pensionistico degli ex parlamentari.
Ora, curiosamente, si registra un’inversione di tendenza, e proprio nel campo da cui meno lo si sospetterebbe: a firma di quarantanove senatori del Movimento 5 stelle è stato proposto un ordine del giorno G6 (prontamente accolto dai senatori questori della maggioranza) in sede di bilancio interno. Sorprendentemente, la parte politica che ha inventato lo slogan “i parlamentari sono nostri dipendenti” dichiara, in premessa, che “il mandato parlamentare, non configurandosi come un «impiego» pubblico, bensì come l’esplicazione di una missione pubblica in rappresentanza della Nazione, non può e non deve essere assistito da un regime pensionistico-assistenziale, in aggiunta alla costituzionalmente necessaria indennità“.
Si torna quindi alla configurazione di rendita vitalizia per l’emolumento, allo scopo di sottrarlo dagli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 116 del 2013 (che ha caducato il “contributo di perequazione” pari al 10 per cento per gli importi lordi fino a 90.000 euro e pari al 20 per cento per la parte eccedente gli importi lordi di 90.000 euro).
Uno scopo nobilissimo, si badi bene, che val bene uno sbrego alla coerenza: del resto, che non si tratti propriamente di fini giuristi, lo dimostra il secondo punto dell’ordine del giorno, nel quale si torna a richiedere che siano recepite le “ulteriori misure consimili che siano introdotte da norme previdenziali di carattere generale”.
Si gioca, cioè, ancora a cavallo delle due configurazioni giuridiche, visto che da vitalizio non si adempie alla sentenza della Corte costituzionale n. 116 del 2013 ma da pensione si recepirà il nuovo contributo di solidarietà introdotto dall’articolo 12 comma 4 del disegno di legge di stabilità.
Poiché però di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno, resta il dubbio che quel recepimento, rimesso al Consiglio di Presidenza delle Camere, mantenga un margine di “non automaticità” rispetto alle previsioni della legge esterna.
In altri termini, a saltellare tra le figure giuridiche a seconda delle convenienze, non ci guadagna veramente nessuno: se a pagarne le spese deve essere la coerenza dell’ordinamento, forse vale veramente la pena di abolirlo per tutti, questo vitalizio, piuttosto che farne il centro di una contesa politica che, oramai, sa sempre più di stantìo.

P.S.: A proposito di aporie interne ai documenti del Movimento 5 stelle. Se il mandato parlamentare non si configura come un «impiego» pubblico, bensì come l’esplicazione di una missione pubblica in rappresentanza della Nazione, allora il mandato imperativo – assunto dai “cittadini” dipendenti/eletti sottoscrivendo il programma del Movimento – confligge non solo con l’articolo 67 della Costituzione e con i reiterati moniti di Giovanni Sartori, ma anche con quanto hanno sostenuto i senatori pentastellati presentando il loro ordine del giorno G6 di martedì scorso….

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *