ROMA. A Roma ”sono sempre uno straniero, un soggiornante, per cui ho sempre la coscienza di dove sono”. Torinese di nascita, Alighiero Boetti spiegava così le ragioni del suo radicamento nella capitale dopo il trasferimento avvenuto nei primi anni Settanta. E al rapporto dell’artista con la città eterna, vissuta da lui come dai compagni di strada Luigi Ontani e Francesco Clemente come una sorta di porto aperto, di trampolino verso l’Oriente meta di tanti suoi viaggi, è dedicata la mostra inaugurata di recente e aperta fino al 6 ottobre al Maxxi, che raccoglie 30 opere, tra le quali diversi inediti e lavori rari.
”Un Boetti diverso, eccentrico, che fa del trasferimento a Roma un momento importante della sua ricerca, un momento in cui entra, improvvisamente, il colore”, commenta Giovanna Melandri, alla sua prima uscita ufficiale come presidente della Fondazione Maxxi, annunciando che il museo sta lavorando per organizzare, in concomitanza con la mostra, anche un ciclo di incontri dedicati alla cultura Sufi, tra i grandi interessi dell’artista torinese. Certamente più raccolta rispetto alle grandi monografiche che in questi ultimi anni sono state dedicate a Boetti dal Reina Sofia di Madrid, dalla Tate di Londra e dal MoMa di New York, la rassegna romana (che pure vanta opere mai esposte al pubblico o presentate per la prima volta in Italia come l’imponente Poesie con il Sufi Berang con i 51 quadrati realizzati nel 1989 per una mostra del Centre Pompidou di Parigi) parte dallo spunto biografico del trasferimento a Roma, nel 1972, e allarga lo sguardo, mettendone a confronto alcune opere, ad altri due protagonisti della scena artistica di quegli anni, Ontani e Clemente, anche loro trasferitisi a Roma, entrambi, come Boetti, affascinati dall’Oriente che in quel periodo drammatico della storia italiana diventava anche un luogo dove trovare conforto, un luogo vissuto in prima persona (quando approda nella capitale Boetti è già stato quattro volte in Afghanistan) e allo stesso tempo costruito, immaginato, in cui siamo tuttora immersi. L’accostamento di opere realizzate negli anni subito precedenti, come Rosso Palermo del 1967 o Mimetico del 1968, rende evidente come il trasferimento a Roma segni, nel lavoro dell’allora trentenne Boetti, un cambio di passo, con una vera e propria esplosione del colore che caratterizzerà le opere degli anni più maturi: ”Il colore c’era tutto – sottolinea la giovanissima curatrice Luigia Leonardelli – ma dopo l’arrivo a Roma tutto questo si è liberato”. Esposti ci sono quindi due splendidi esempi delle Mappe che Boetti disegnava a nel suo studio romano e poi mandava a ricamare in Afghanistan, una del 1971-73 ricamata su lino, l’altra del 1984 su tessuto. Ma anche Faccine (nella foto) un lavoro realizzato a quattro mani nel 1977 con la figlia Agata, che allora aveva cinque anni. Il dualismo, espressione di una delle costanti della sua ricerca e della sua biografia, è il tema del raro Clessidra, cerniera e viceversa (1981) realizzato strappando un testo manoscritto a partire dal centro e rivoltando il foglio in quattro lembi. Non mancano esempi dei tappeti, ideati nel 1993 e pensati come una sorta di testamento (lui morirà nel 1994), dove si riassume tutta la sua iconografia. E due grandissime carte, le Orme (I e II) che il figlio Matteo ha appena concesso in comodato alla collezione del Maxxi. Figura ‘vicina a tutti noi’, nota la direttrice arte del Maxxi Anna Mattirolo, Boetti (al quale da oggi è intitolata la piazza del Maxxi e di cui viene presentato il secondo tomo del catalogo generale) è anche un mito, sempre difficile da affrontare. Forse anche per questo la prima opera che accoglie il visitatore è un video realizzato nel 2004 nell’amato Afghanistan da Jonathan Monk: l’occhio della telecamera, che Monk mise in mano ad un afghano un po’ come Boetti affidava le sue opere alle mani delle ricamatrici, indugia sull’acqua color lapislazzuli dei laghi di Bandi a Mir, il luogo incantato dove Boetti avrebbe voluto venissero sparse le sue ceneri.