Il termine “flexicurity” (in italiano “flessicurezza”) è stato utilizzato per la prima volta con riferimento alle riforme nel mercato del lavoro messe in pratica prima in Olanda e poi in Danimarca, intorno alla metà degli anni ’90. Il modello, forte dei successi ottenuti sul piano occupazionale in questi paesi, è stato poi adottato come strategia ufficiale dalla Commissione Europea, attraverso una celebre pubblicazione del 2006, il Libro Verde dal titolo Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo.

Le parole “flessibilità” e “sicurezza”, nel contesto delle politiche occupazionali, assumono significati precisi, per cui la loro unione appare quasi come un ossimoro: con il primo termine, infatti, si intende la possibilità per un soggetto di cambiare posto di lavoro, o viceversa la facilità con cui un’impresa può liberarsi di un lavoratore, mentre con il secondo si descrive il grado di stabilità di una posizione lavorativa.

Il modello della flexicurity si propone di trovare un equilibrio tra i due aspetti, per cui ad una notevole flessibilità in materia di assunzioni e licenziamenti si accompagna un’altrettanta estesa sicurezza per coloro che si trovano ad essere disoccupati. Questo dovrebbe avvenire grazie all’implementazione di diversi ammortizzatori sociali e ad un efficace sistema di formazione permanente, volto a facilitare la transizione da un impiego all’altro.

In Italia il primo esperimento d’introduzione di tali principi risale al 1997, con il “Pacchetto Treu”, al quale è seguita la Legge Biagi nel 2003. In sostanza sono state progressivamente introdotte nuove forme contrattuali per il lavoro a tempo determinato, tra cui anche le collaborazioni a progetto, nell’intento di rendere il mercato più flessibile. I risultati sono controversi, in quanto da un lato si è riscontrato un aumento dell’occupazione, dall’altro un calo nella media degli stipendi, oltre che un aumento spesso eccessivo dei tempi di transizione da un impiego precario ad uno stabile. Le accuse che vengono mosse contro questo tipo di politiche occupazionali in Italia nascono dalla la scarsità riscontrata rispetto ai due requisiti fondamentali della flexicurity, ovvero una buona rete di ammortizzatori (soprattutto per quanto concerne i sussidi di disoccupazione) ed un sistema di formazione, in grado di riconvertire le capacità acquisite dai lavoratori licenziati.

L’attuale riforma, promossa dal governo Monti, punta a rafforzare i principi della flexicurity, attraverso la modifica dell’articolo 18, in merito ai licenziamenti, alla razionalizzazione dei contratti a tempo determinato ed alla riformulazione del meccanismo dei sussidi. (luigi borrelli)

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