Sono passati ormai diversi decenni da quando l’Italia ha avviato il processo federalista, dal riconoscimento delle regioni nei primi anni ’70 all’attuale legge n. 42 del 2009, passando per la riforma costituzionale del 2001. La decentralizzazione fiscale avrebbe dovuto portare ad una maggior razionalizzazione delle risorse, con conseguenti guadagni in termini di efficienza, ma ad oggi i risultati rimangono tutt’altro che soddisfacenti.

Nelle legislature dell’ultimo quindicennio il federalismo fiscale è diventato poi il cavallo di battaglia della Lega, costretta dalle responsabilità di governo a mettere da parte le intenzioni secessioniste. Il partito di Bossi, facendone una questione ideologica piuttosto che economica, ha paradossalmente contribuito al rallentamento del processo attuativo: il federalismo é apparso agli occhi degli italiani come un’idea radicale voluta da un partito sostanzialmente estremista.

Ascoltando gli esponenti del Carroccio, il fatto che le “tasse debbano rimanere nella regione di provenienza” suona come una punizione nei confronti degli evasori-spendaccioni-sfaticati del centro-sud. Non c’è dubbio che l’idea originaria del federalismo nasca proprio per soddisfare un’esigenza di riequilibrio, in un paese dove la dicotomia nord-sud è tra le più accentuate d’Europa. L’obiettivo finale è tuttavia diverso, in quanto dovrebbe realizzarsi un miglioramento complessivo per il paese, in termini di sostenibilità delle finanze pubbliche e gestione delle risorse, piuttosto che un’ulteriore allontanamento del settentrione dal resto d’Italia. Per questo motivo una vera riforma federalista, oltre a tener conto delle condizioni di partenza in cui si trovano gli enti destinati a gestire risorse proprie, non può prescindere dalla predisposizione di meccanismi di trasferimento del reddito, accompagnati da misure strutturali in grado di migliorare l’ambiente economico locale. In altre parole, il semplice taglio dei contributi statali non rende le amministrazioni più responsabili, piuttosto mina l’erogazione dei servizi essenziali, garantiti peraltro dal diritto costituzionale, acutizzando al tempo stesso i comportamenti scorretti: se la torta è più piccola, a spartirsela rimangono solo i piú furbi ed influenti.

Lo Stato assume dunque un ruolo fondamentale anche in un’ottica federalista, principalmente sotto due aspetti. Innanzitutto gli organi centrali, essendo responsabili del benessere collettivo della nazione, devono garantire livelli minimi di prestazione per alcune funzioni fondamentali, nonostante molte di queste siano state devolute alla competenza delle regioni e degli enti locali, come ad esempio la sanità oppure la polizia municipale. A tal fine la legge n. 42 del 2009 prevede la determinazione dei cosiddetti LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni), che garantiscono al cittadino un certo grado di servizi su tutto il territorio nazionale.

Il secondo aspetto riguarda invece la responsabilità economica del governo sull’insieme dei conti pubblici: lo Stato, al di là di qualsiasi forma di autonomia fiscale, agisce sostanzialmente come prestatore di ultima istanza nei confronti degli enti locali, garantendo la copertura finanziaria in caso di fallimento. Deficit e debito pubblico complessivi, infatti, derivano dall’aggregazione dei bilanci di tutti i livelli di governo, dai comuni ai ministeri. Per soddisfare gli obiettivi di bilancio, imposti soprattutto dai trattati dell’Unione Europea, occorre dunque che lo Stato centrale sia in grado di controllare la spesa delle singole amministrazioni attraverso una responsabilizzazione collettiva. Tale questione rappresenta ad oggi il maggior punto di debolezza. Gli enti locali, avendo entrate minori rispetto alle spesa, si appoggiano sui traferimenti statali per soddisfare il fabbisogno economico, erogati sulla base del criterio della cosiddetta “spesa storica”. In pratica, gli enti prendono soldi sulla base di quanto speso negli anni passati per lo svolgimento di una determinata funzione, con un adeguamento dipendente da fattori come l’aumento della popolazione ed il tasso d’inflazione. Questo sistema non implica alcuna forma di correzione delle inefficienze: ad esempio, se un comune ha sempre speso troppo per la manutenzione stradale, continuerà a farlo in modo automatico grazie ai trasferimenti pubblici.

La legge sul federalismo del 2009 impone il passaggio dal criterio della “spesa storica” a quello del “costo standard”, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza nella gestione delle risorse pubbliche, specie per quanto riguarda i trasferimenti statali. La nuova metodologia si fonda su principi più economici: l’utilizzo di una funzione di costo, fissando un limite alla spesa procapite, consente di valutare la performance di un comune sulla base di criteri razionali. Un esempio può essere utile per comprendere quanto tale passaggio influirà sulle scelte degli enti locali. Se la legge stabilisce che il costo standard per la polizia locale è di 100 euro procapite, un comune di 10.000 abitanti non potrà spendere più di un milione di euro all’anno per tale servizio: se le entrate dirette comunali consentono un impiego di 700.000 euro, la parte restante (300.000 euro) sarà erogata dallo Stato. Nel caso in cui ad oggi tale amministrazione spenda 1.200.000 euro per i vigili, sarà dunque costretta ad abbattere 200.000 euro di costi, mentre se spende di meno ci sarà margine per nuove assunzioni. Ripetendo l’esercizio per tutte le funzioni di un ente locale, avremo dunque una “mappa” delle amministrazioni italiane in base all’efficienza allocativa.

Il processo di implementazione dei costi standard presenta una serie di problematiche irrisolte, per cui al momento non sono ancora stati determinati i valori numerici. La questione è complicata sotto l’aspetto legislativo, dato che occorrono una serie di decreti attuativi, ma soprattutto sotto l’aspetto metodologico. Il nodo principale da affrontare riguarda la profonda differenza strutturale tra i diversi contesti socio-economici del nostro paese. Tornando all’esempio della polizia locale, è chiaro che in zone caratterizzate da tassi di criminalità elevati si debba spendere di più per tale funzione. Diventa dunque fondamentale capire quali variabili debbano concorrere a determinare il costo standard, che non può essere certamente fisso per tutto il territorio nazionale. Tenendo in considerazione un’ampia gamma di fattori, da quelli demografici per la spesa sociale a quelli topografici per la manutenzione delle strade, si corre il rischio di applicare un metro troppo “permissivo” che impedirebbe il raggiungimento del fine ultimo, ovvero la riduzione complessiva della spesa.

Dopo un periodo di stallo istituzionale, la questione è tornata sul tavolo della discussione nell’ambito della spending review. La conversione in legge del D.L. 52/2012 prevede infatti l’anticipazione all’inizio del 2013 della pubblicazione dei costi standard, da implementarsi per un terzo della spesa degli enti locali (fino a raggiungere la totalità negli anni successivi). Spetta ora alla S.O.S.E. spa, società per gli studi di settore partecipata dal Ministero dell’Economia alla quale è affidata la determinazione dei valori numerici, affrettare i tempi per garantire l’effettiva entrata in vigore del provvedimento. Tali misure avrebbero una portata senza dubbio epocale per il nostro paese: resta da capire se questo governo avrà la forza necessaria per superare il muro della politica fatto di proroghe, emendamenti e ritardi, che di fatto può mandare in soffitta per anni una legge dello Stato.

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