Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, certo. Capaci e via D’Amelio, sicuramente. Però, nel ventennale dell’uccisione dei due giudici ad opera della mafia, sembra proprio che ci sia dimenticati di un altro uomo che, proprio nel 1992, perdeva la vita in un agguato di stampo mafioso. Un altro servitore dello Stato ucciso, in una Sicilia nuovamente sconvolta, ma in tono minore.

Era la sera del 27 luglio di vent’anni fa, quando Giovanni Lizzio, ispettore capo e responsabile della sezione anti-racket della Questura di Catania, veniva trucidato nella città etnea: quartiere Canaliccio, periferia nord, territorio del clan dei Laudani-Cappello. L’omicidio avvenne a poche ore di distanza dalla riunione, tenutasi proprio a Catania, tra tutti i prefetti della Sicilia orientale, che avevano discusso dell’opportunità e delle modalità di utilizzo dei soldati che in quei giorni giungevano in Sicilia.

In una città che, come il resto dell’isola, si trasformava in una zona militarizzata, tra corpi speciali e soldati-poliziotto, dove Cosa Nostra dimostrava di poter entrare in azione quando e come voleva; in una città che era il collegio elettorale di Salvo Andò, allora ministro della Difesa, cioè uno dei sostenitori più forti dell’Operazione Mafia-Storm, dove Cosa nostra dimostrava che l’operazione non aveva portato ai risultati sperati; in una città che veniva chiamata la Milano del Sud, dove Cosa Nostra faceva soccombere sotto i colpi del racket anche notai, ingegneri, dottori, commercialisti e persino grandi magazzini come Rinascente e Standa, vittime di attentati non solo dimostrativi; in questa città, Lizzio veniva sacrificato, nell’arroganza e nella prepotenza tipica della mafia, desiderosa di colpire lo Stato, di prenderlo in giro eliminando i suoi servitori, proprio nello stesso momento in cui l’isola accoglieva i battaglioni dell’esercito.

Giovanni Lizzio era senza dubbio uno dei poliziotti più conosciuti in città, per anni al servizio della Squadra Mobile, memoria storica della Questura. A bordo della sua macchina, un’Alfetta, veniva affiancato da una moto con a bordo due giovani. Pochi proiettili di pistola, colpi al torace e alla testa. Un ritornello banale, già sentito decine di volte, prendeva con sé Lizzio e lo portava via, via dalla vita.

Mentre Giovanni Lizzio, 47 anni, veniva ammazzato, si metteva in scena un copione già visto, simile a quello delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Simile ma non uguale.

È vero, durante il suo funerale ci fu l’appello del vescovo Luigi Bommarito, che chiese agli “uomini della mafia” di “trovare nella profondità del loro cuore palpiti di umanità, sensibilità, ragionevolezza”, così come Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, ucciso nella strage di Capaci, al funerale di suo marito si era rivolta agli “uomini della mafia” dicendo: “Sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare”.
Però, per Lizzio non c’era stata alcuna camera ardente e non c’erano stati personaggi importanti giunti da Roma. Né Vincenzo Parisi, allora capo della polizia. Né Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno. C’erano circa duemila persone, a quel rito funebre, ma non era folla: era silenzio. Mancava la rabbia di Palermo, forse per la rassegnazione, forse per una impensabile indifferenza.
Non ci fu, insomma, l’eco mediatica che le morti di Falcone e Borsellino avevano avuto. Certo, Falcone e Borsellino erano personalità differenti, ricoprivano ruoli differenti.
Eppure, la figura di Lizzio è stata presto dimenticata.

Il compito di Giovanni, padre di due figlie (ai tempi di sedici e vent’anni) era estremamente delicato, in una provincia in cui, secondo le stime delle associazioni dei commercianti, tra i proprietari di negozi sette su dieci erano abituati a pagare il pizzo. Terrore e paura esponenziale: su circa 17mila esercizi, quelli iscritti al Comitato direttivo dei commercianti erano solo trecento.
L’uccisione del responsabile anti-estorsione giunse in una Catania in cui l’ultimo omicidio eccellente risaliva al gennaio del 1984, vittima il giornalista Claudio Fava. Nitto Santapaola, il boss locale ritenuto mandante del delitto Lizzio (l’unico condannato all’ergastolo), infatti, fino a quel momento aveva gestito la città tenendo (per così dire) un basso profilo, senza colpire in maniera evidente uomini delle istituzioni. E basso fu anche il profilo tenuto dai mezzi di comunicazione dopo la morte di Giovanni.

Pierangelo Sapegno il 29 luglio 1992, all’indomani del funerale, sulla Stampa scriveva: “Non c’è dramma, non c’è rabbia, non c’è ribellione. Lo piangono così, Giovanni Lizzio, quasi con pudore. L’ispettore dell’antiracket, forse lo dimenticheranno in fretta”. Aveva tragicamente ragione, Sapegno. Di Giovanni ora si ricordano in pochi. Familiari, amici, conoscenti. Le persone che ha fatto arrestare. Ma, soprattutto, le persone che ha provato a estrarre dal pozzo del racket mafioso.

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