Gli unici a sorridere, forse amaramente, in questo periodo così complesso per l’Europa economica e politica, saranno i cosiddetti “euroscettici” degli anni ’90, che predicavano l’insostenibilità del modello di moneta unica messo a punto in assenza di un’unione politica tanto forte da poter affrontare una crisi chiaramente sistemica.

Sembra che avessero ragione in particolar modo coloro che si sono battuti invano per escludere i paesi dell’Europa meridionale dalla moneta unica, in primis l’Italia e la Grecia: si è pensato che il semplice “mettersi insieme” avesse portato quei paesi, così indisciplinati dal punto di vista dei conti pubblici, a modificare radicalmente i propri comportamenti.
D’altra parte le misure imposte dall’Europa, forse a scopo più “punitivo” che curativo, non sembrano aver portato i frutti desiderati. Dopo due anni di terribili restrizioni economiche in Grecia, vedi licenziamenti massici e tagli agli stipendi pubblici, non si è riusciti ad evitarne il fallimento di fatto, dimezzando forzosamente il valore del debito del 50% e spendendo miliardi di euro (di soldi pubblici ovviamente) per ricapitalizzare le banche che ne detenevano i titoli. Salvare le banche in questa situazione è certamente prioritario per evitare fallimenti disastrosi e restrizioni al credito che ucciderebbero l’economia, ma sembra tuttavia necessario rivedere i meccanismi regolatori del sistema, altrimenti si legittimano comportamenti speculativi.
Così, mentre i grandi del pianeta si interrogano ormai da mesi, anche durante l’attuale G20 di Cannes, su quale sia lo strumento più adatto per salvare il sistema finanziario dal collasso (attraverso il fondo salva-stati, il Fondo Monetario Internazionale o addirittura con capitali cinesi), non c’è da stupirsi se in Grecia il dibattito diventa paradossale. Il referendum sulle misure di austerity richieste dall’Europa, idea smentita poi dallo stesso premier Papandreou proprio durante il G20, è un segno tangibile della perdita di controllo da parte di istituzioni politiche ormai in balia dei mercati e di un’ortodossia economica che scricchiola sempre più vistosamente. Quale popolo, chiamato alle urne, voterebbe per ridursi gli stipendi, per aumentarsi le tasse, auto-condannando se stesso ad un periodo di profonda recessione?
È il motivo per cui in tutti i paesi democratici le leggi di bilancio non possono essere sottoposte a referendum abrogativo. D’altra parte un voto favorevole del popolo greco avrebbe reso evidente il vuoto normativo che affligge la moneta unica. Il quesito referendario, infatti, non avrebbe riguardato l’abbandono della zona Euro, ma il rifiuto degli aiuti europei condizionati al piano di austerity: sulla base dei trattati vigenti, dunque, nessuno avrebbe potuto cacciare la Grecia.
L’effetto sui mercati di un annuncio simile, sorprendente quanto inedito, non ha tardato ad arrivare, propagandosi immediatamente sulla stabilità del paese più simile in termini di criticità dei conti pubblici. Lo spread sui titoli del debito italiani, ovvero la differenza tra il tasso d’interesse dei BTP decennali ed i corrispettivi Bund tedeschi, è schizzato verso l’alto, sfondando il massimo storico dall’entrata nell’Euro e toccando quota 460 punti. L’Italia, per piazzare i propri titoli, è costretta a pagare un tasso intorno al 6,3%: basti ricordare che quando un paese ha superato la soglia del 7% (come l’Irlanda e la Grecia) è stato necessario chiedere aiuto al FMI ed all’Europa, attivando i meccanismi di salvataggio. È importante capire come questa situazione instabile si ripercuota non solo sulla nostra economia, ma addirittura sul panorama sociale del nostro paese. Nelle prossime aste del debito, per rimpiazzare i titoli in scadenza a breve, saremo costretti a pagare tassi molto elevati, con un aggravio stimato intorno ai 16 miliardi di euro, rendendo necessarie in futuro ulteriori manovre restrittive della spesa pubblica (o aumenti delle tasse) al fine di contenere il deficit e raggiungere il famigerato pareggio di bilancio. Lo scenario ancora più drammatico, che inizia ad insinuarsi nel dibattito economico, prevede che non si riesca affatto a piazzare i titoli: a quel punto il salvataggio esterno sarebbe inevitabile, se si vuole scartare l’ipotesi default. In questo caso dovremmo subire le misure di austerità che condizionano gli aiuti economici, come sta accadendo in Grecia, dove si è generato un conflitto sociale e generazionale che rimarrà una ferita aperta per molti anni a venire.
La priorità delle frenetiche riunioni che si sono susseguite durante il G20 francese sembra proprio quella di scongiurare questa eventualità. A nessuno conviene lasciar fallire l’Italia, per diversi motivi. Il primo riguarda l’entità del debito e la diffusione dei titoli nelle banche di tutto il mondo, specialmente in quelle europee: un default italiano, anche limitato al 50% del valore, manderebbe in crisi di liquidità gran parte del sistema finanziario, con costi di ripristino ingenti. Anche un piano di salvataggio attraverso l’erogazione di finanziamenti avrebbe costi esorbitanti, che l’Europa non potrebbe sostenere con gli strumenti attuali. Il fondo salva-stati ha una dotazione di 440 miliardi, mentre il debito italiano ammonta a circa 1.900 miliardi: un aumento ulteriore del fondo non sarebbe tollerato dall’elettorato nord-europeo. Non ultima rimane la questione politica, in quanto l’Italia rimane la terza economia della zona Euro con una popolazione di 60 milioni di cittadini, dunque è difficile immaginare un passo indietro che non porti alla disgregazione dell’intero progetto.
Per il nostro paese è dunque essenziale non solo evitare il fallimento, ma riuscirci senza alcun aiuto economico internazionale, che comporta di fatto una completa rinuncia all’autonomia economica nazionale. Il compromesso formalizzato a Cannes dal presidente Berlusconi è la sintesi di questo concetto. La richiesta “volontaria” al FMI di “certificazione dei nostri impegni” assunti dal governo, che si aggiunge al monitoraggio della Commissione Europea, dovrebbe servire come garanzia per tranquillizzare i mercati, senza però alcun vincolo specifico: non essendo in ballo aiuti finanziari, il Fondo non ha alcuno strumento per imporre con la forza la propria linea economica.
L’Italia, insomma, deve farcela con le proprie forze, trovando al suo interno le risorse e gli strumenti per uscire dalla crisi il più in fretta possibile. Questa visione spiegherebbe l’indulgenza dimostrata finora dalle diplomazie europee nei nostri confronti, nonostante l’innegabile assenza di misure in grado di fronteggiare la situazione. Malgrado le dichiarazioni accomodanti dei rappresentanti europei in merito a progetti di riforma quantomeno fumosi, i mercati continuano inesorabilmente a punirci come dimostra la chiusura in rosso (-2,66%) della borsa di Milano e l’aumento dello spread. Gli operatori finanziari ragionano in termini molto più pratici rispetto ai salotti della politica: quello che conta in questo momento è la crescita economica, il PIL, che ristagna ormai da dieci anni, ma soprattutto non ha prospettive di crescita neanche minime. Si tratta, in sostanza, della famosa “credibilità” di un governo, che si esplicita nella capacità di rilanciare l’economia con riforme coraggiose. Le spaccature emergenti nella maggioranza e i numeri sempre più risicati non possono che peggiorare le aspettative, in attesa di un evento risolutivo che conferisca un minimo di fiducia.
Una piccola mano è comunque arrivata da un italiano, Mario Draghi, che ha iniziato il suo mandato alla BCE con un taglio del costo del denaro all’1,25%, auspicato da mercati, banche, imprese e governi, nonostante le prospettive di inflazione, venendo meno alla “regola aurea” imposta dai tedeschi. Tale misura riduce i tassi d’interesse sia per le imprese che prendono denaro in prestito, sia per le famiglie che pagano un mutuo, ridando fiato all’economia. Molti sperano che questo sia il preludio di un cambiamento nella politica della BCE che, a differenza della FED americana, ha come obiettivo primario il controllo dei prezzi e guarda solo in via secondaria ai livelli di occupazione. Un passo indietro della Germania su questo punto potrebbe aprire nuovi scenari per la costruzione di una nuova governance europea, di cui ormai tutti avvertono la necessità.

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