Cosa c’è dietro la netta presa di posizione di tutti i leader moderati europei contro una ricandidatura dell’ex premier? Perchè si affrettano a chiedere il Monti bis? Su tutto, il ruolo centrale della Merkel all’interno del Ppe.


La confusione politica di questa settimana dimostra che il percorso verso le elezioni di febbraio sarà particolarmente travagliato, ma soprattutto che la partita sarà giocata ancora una volta sui temi economici.
Il governo Monti lascia sicuramente un’eredità pesante, nella consapevolezza che la vecchia dicotomia tra sinistra e destra diventerà sempre più sfumata, specie sul fronte della gestione dei conti pubblici. La figura del premier ha messo in crisi entrambi gli schieramenti: i cosiddetti “moderati” hanno capito che Berlusconi non rappresenta un centrodestra di tipo europeo, ma piuttosto una linea sui generis con notevoli venature estremiste, mentre il centrosinistra dovrà fare i conti con l’agenda delle riforme, osteggiata da una parte consistente della coalizione.

La riunione tra i leader del Partito Popolare Europeo a Bruxelles, durante la quale il premier Monti è stato esplicitamente invitato a candidarsi, ha messo in luce l’evidente clima di sfiducia che aleggia sulla sesta discesa in campo Berlusconi. La vicenda è significativa almeno sotto due aspetti. Primo, mai come in questo periodo la politica interna deve fare i conti con le tendenze europee, per cui le rappresentanze comunitarie si arrogano il diritto di eleggere un premier addirittura prima della consultazione elettorale. In altre parole, gli schieramenti in campo sembrano aver bisogno di una sorta di riconoscimento formale (oggi si chiama “endorsement”) da parte di strutture sovranazionali. Che i leader europei esprimano un parere sulle candidature è piuttosto normale, specie quando sono state predisposte riforme che aumenteranno inevitabilmente l’integrazione, ma quanto avvenuto a Bruxelles rappresenta un passo successivo, visto che il PPE non ha solamente espresso delle perplessità su Berlusconi, ma ha proposto un’alternativa. Il secondo punto riguarda proprio questo aspetto: l’attuale destra italiana, in particolare la sua leadership, non riesce ad identificarsi nel PPE e nei valori che lo contraddistinguono.

Le motivazioni che hanno portato ad un allontanamento di fatto di Berlusconi dal partito europeo sono le stesse per cui non è considerato un capo di governo affidabile: l’ex premier è ritenuto responsabile della cattiva gestione in merito al dissesto finanziario italiano, che ha portato il paese sull’orlo del baratro. Le vicende personali, i processi, il conflitto d’interessi hanno sicuramente avuto un peso nel giudizio complessivo, ma la questione fondamentale riguarda performance economica dell’Italia nel corso dell’ultimo decennio, in cui Berlusconi ha governato 8 anni su 10. Il paese era in sofferenza ben prima dell’inizio di questa crisi economica, con redditi e produttività in netto calo rispetto agli altri paesi. Pesano inoltre le posizioni prese da Berlusconi contro la governance europea, in particolare nei confronti della Germania a causa delle politiche di austerità promosse da Berlino. Senza entrare nel merito della con divisibilità di tali critiche, è chiaro che la Merkel rappresenta un cardine per il PPE, che di conseguenza si rispecchia maggiormente nella figura di Monti.

L’apertura ad un ingresso dello stesso Monti nello schieramento di centrodestra sarebbe dunque un epilogo naturale, viste le affinità con i valori ed i principi del PPE, tuttavia occorre fare i conti con un elettorato estremamente contrario alla politica economica del governo in carica. La sfiducia della scorsa settimana non è stato certo un evento estemporaneo, quanto piuttosto un tentativo disperato di recuperare in extremis i consensi perduti dal PDL durante l’ultimo anno. Berlusconi non può aspettarsi che i suoi elettori, dopo mesi di forte contestazione verso l’operato del governo, si convincano in un mese a votare per il Professore, firmatario dei provvedimenti più osteggiati dal popolo di centrodestra, primo tra tutti l’IMU. Ancor più inverosimile appare lo scenario di un accordo con la Lega a livello nazionale, senza il quale rischia di saltare sia la candidatura unica di Maroni in Lombardia che le regioni di Piemonte e Veneto.

La confusione è tale per cui si aspetta solamente una parola dal diretto interessato, ovvero Mario Monti, che ha rimandato tutto all’approvazione della legge di stabilità, prevista per la settimana prossima. Per il professore si profila una scelta piuttosto ardua, soprattutto alla luce del problema più grande, l’assenza di un partito a vocazione maggioritaria disposto ad appoggiarne la candidatura. Nonostante il ruolo superpartes brillantemente ricoperto in questa fase, occorre ricordare che Monti è fondamentalmente un uomo di centrodestra, per cui un’eventuale candidatura non potrebbe che avvenire nell’ambito di quello schieramento. Le sirene dei “grande centro” non rappresentano da sole un incentivo così forte, perché le speranze di vincere solo con Casini e Montezemolo sono praticamente nulle. Anche nel caso in cui una buona parte del PDL costituisse una lista di appoggio, resta il fatto che per il premier non è un uomo politico in senso stretto: affrontare una campagna elettorale fatta di comizi, promesse ed alleanze, rappresenta un ostacolo non indifferente.

La catena degli avvenimenti ha mostrato inoltre un quadro anomalo, emblema delle disfunzioni italiane, per cui al momento Monti potrebbe sentirsi paradossalmente più tranquillo con Bersani, che intende proseguire sulla strada tracciata e soprattutto potrebbe avere i numeri per farlo. Dal canto suo, il segretario del PD non ha alcuna intenzione di lanciarsi in una sfida contro il Professore, che vedrebbe particolarmente bene in veste di presidente della Repubblica, eliminando in questo modo la concorrenza per l’esecutivo. Sul piano europeo, le garanzie rigoriste fornite dal Partito Democratico superano quelle di un’eventuale destra senza Monti: la sinistra italiana gode di un certo apprezzamento da parte dell’Europa, grazie al ruolo giocato in passato da figure rispettate come quella di Romano Prodi. Non è certo la prima volta che un governo di sinistra è costretto ad adottare misure impopolari in ambito economico, dimostrando una fedeltà al progetto comunitario superiore a quella espressa dal centrodestra. L’apertura al centro da parte di Bersani costituisce un altro tassello in questa direzione, per cui con Monti appare più probabile una collaborazione piuttosto che uno scontro.

Alla luce dei fatti sembra ormai palese che Berlusconi, visto il clima di sfiducia sia sul piano europeo che all’interno del suo partito, ha ben poche possibilità di vincere da solo la partita. Le mancate primarie sono state certamente un errore strategico: un avvicendamento con Alfano avrebbe potuto semplificare l’inglobamento di Monti nel centrodestra, addirittura come candidato premier, con l’appoggio delle forze di centro. Al momento questo scenario sembra francamente inverosimile, a meno di voler dimenticare montagne di dichiarazioni ed interventi che hanno amplificato irrimediabilmente la distanza tra il Cavaliere ed il Professore. Bersani, d’altra parte, ha in mano il pallino del gioco: a lui spetterà il difficile compito di trovare un giusto equilibrio, che possa garantire la governabilità di questo paese.

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