È tempo di elezioni e, come da copione, i ‘candidati’ (termine neutro, visto che taluni usano offendersi ad esser definiti ‘politici’, anche se di fatto lo sono) troneggiano sui media, in primis la sempreverde televisione, per esporre le proprie tesi.
Alcune sono francamente improbabili, vedi l’offerta di dentiere gratis per gli anziani: cosa c’entri con il Parlamento Europeo non è dato sapere. Alcune sfiorano invece l’utopismo, mentre altre marciano spedite sull’onda del catastrofismo assoluto, quelli del tipo “o me o morte”.
L’intramontabile ritornello degli ultimi anni, tuttavia, rimane l’uscita dall’Euro, talvolta dall’Europa, mentre qualche volta i due concetti vengono addirittura confusi. Per onestà occorre sottolineare che tale spinta sembra aver perso in parte il suo mordente con l’uscita di scena del governo Monti, ma nei momenti decisivi l’appello a rimaner padroni in casa nostra (qualunque cosa voglia dire) non manca mai.

Inutile girarci intorno: qui si parla di Grillo e delle sue affermazioni, che da qualche mese a questa parte fanno riferimenti espliciti al famoso referendum per uscire dall’Euro (“un cappio al collo”).
Riassumendo il pensiero del M5S, esercizio non semplice, l’obiettivo è l’abolizione del Fiscal Compact (“che sottrae tra i 40 ed i 50 miliardi di euro al bilancio”), altrimenti gli italiani dovrebbero avere il diritto di chiedere l’uscita dalla moneta unica.
Lasciando per un attimo da parte i concetti economici sottostanti alle richieste di cambiamento in Europa, promosse dal Movimento e peraltro parzialmente condivisibili, seri dubbi rimangono sul messaggio che arriva ai cittadini. In rete, strumento particolarmente amato dagli euroscettici, circolano un numero incredibile di citazioni fittizie, spiegazioni approssimative quando non palesemente false, incitamenti a ribellarsi contro un non meglio identificato complotto mondiale nei confronti del contribuente italiano.
Si parla di signoraggio, politica monetaria, inflazione, produttività in termini talmente semplicistici da far allibire non solo un professore di economia, ma anche un semplice studente del primo anno. L’Italia, grazie a questa crisi infinita, è diventata la patria degli economisti oltre che degli allenatori di calcio.

Eppure esistono argomentazioni più che valide per giustificare le critiche più aspre nei confronti del sistema Europa e anche sul funzionamento della moneta unica. Esistono addirittura tesi legittime economicamente per sostenere che l’Euro non funziona affatto, che sta generando squilibri difficilmente risanabili, che forse l’entrata dell’Italia non è stata una buona idea. Nel mondo accademico sono molti a professarsi anti-Euro, ma non si sognerebbero certo di ridurre il loro punto di vista, frutto di anni d’impegno e studio, ad un misero insulto verso un nemico invisibile.

Occorre, in altre parole, distinguere attentamente, anche nel criticare, perché essere contro il fiscal compact non porta necessariamente a voler abbandonare l’Euro. Le misure di austerity, che in buona sostanza impongono dei limiti all’indebitamento pubblico, si sono rivelate controproducenti quando adottate nel corso di un ciclo recessivo (ovvero negli ultimi anni), portando ad un peggioramento delle prospettive di crescita.
Il calo dello spread, che ha consentito all’Italia di evitare la richiesta di aiuto finanziario e soprattutto di ridurre le spese per interesse negli anni futuri, è stato con tutta probabilità favorito dalla politica monetaria della BCE di Draghi e solo minimamente imputabile ai tagli di bilancio. Questa affermazione non può che essere un parere, seppur supportato da qualche dato, poiché in effetti è impossibile dimostrare al 100% il ruolo di alcune azioni rispetto al comportamento dei mercati. L’economia, è bene ribadirlo, rimane una scienza sociale: non è la fisica.

L’esempio del fiscal compact dimostra che cambiare l’Europa non è dunque un ideale esclusivo dei movimenti nazionalisti oppure degli anti-sistema in generale.
A molti non piace l’Unione come la conosciamo oggi, ma sono convinti che serva maggiore integrazione, più democrazia: pensiero antitetico a quello di chi vorrebbe la riapertura delle dogane, una sorta di ritorno all’autarchia, che già ha fallito una volta.
Questo non significa che non sia possibile uscire dalla moneta unica, anzi. Sarebbe corretto, tuttavia, spiegare agli elettori cosa potrebbe accadere, in modo da fornire le informazioni necessarie per una scelta critica. Degli aspetti tecnici ci siamo già occupati su questo giornale (vedi qui), cercando di mettere in luce, in modo realistico, i rischi che si potrebbero correre. Rinunciare all’Euro può voler dire abbandonare per intero il progetto Europa.
La moneta unica, infatti, potrebbe non reggere l’uscita di una delle grandi economie, per cui la cooperazione con altri paesi potrebbe diventare insostenibile. I vantaggi, in primis svalutazione e ritorno all’inflazione, sono armi a doppio tagli, poiché il mercato globale tenderebbe a proteggersi (attraverso i dazi).
Il timore più grande, dunque, è l’isolamento, perché questa Italia da sola difficilmente può sopravvivere alla competizione globale.
Il nodo, quindi, non è nell’impossibilità di uscita, ma nella convenienza di tale scelta, per cui i pareri possono legittimamente essere discordanti.

Da ultimo, si ravvisa la solita tendenza tutta italiana a trovare, anche sul fronte Europa, il facile capro espiatorio. Tra scandali, corruzione, evasione fiscale alle stelle, delocalizzazione, mancanza di visione imprenditoriale, scarsi investimenti in ricerca, ce ne sarebbe abbastanza per fare almeno un po’ di mea culpa.
Il reddito in Italia si abbassa costantemente da ben prima dell’avvento della crisi prima e dell’austerity poi, quando dall’Euro dovevamo trarre l’unico grande beneficio: il bassissimo costo del debito pubblico. Nessuno all’epoca (sembra un secolo fa, ma parliamo del periodo 2002-2007) si sognava di attaccare le lobby, termine ampiamente abusato, che ovviamente esistevano anche allora.
E gli italiani, al bar, erano ancora occupati a parlare di calcio, piuttosto che di spread.

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