La POESIA è qualcosa di profondamente emotivo, che s’impossessa del poeta dettando le sue regole quando meno egli se lo aspetta; ci si emoziona, ma è un tipo d’emozione che può stravolgere la giornata scelta appunto dalla POESIA per comunicare con chi umilmente si mette al suo servizio, ed è allora che non c’è vera arte se non c’è meraviglia.

Corrado Calabrò, giurista e scrittore, già Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), uno dei poeti in lingua italiana più tradotti oggi nel mondo, alto funzionario dello Stato Italiano, a 25 anni Capo dell’Ufficio Legislativo al Ministero del Lavoro, a 27 anni Vice Capo Gabinetto del Ministro Aldo Moro alla Presidenza del Consiglio, 45 anni di magistratura, già Presidente del TAR del Lazio, Presidente aggiunto del Consiglio di Stato.

D – Pensando ad Aldo Moro cosa ricorda del rapporto di collaborazione tra lei e lo statista barbaramente ucciso?

R – L’esperienza di Palazzo Chigi è incomparabile: lì è il centro decisionale del Paese. In quegli anni di trasformazione, poi, per me, giovanissimo, era esaltante. Fu nel corso degli anni Sessanta che l’Italia cessò di essere un Paese povero che doveva destinare la maggior parte delle sue risorse ai bisogni di pura e semplice sussistenza e divenne un Paese che sedeva nel ristretto consesso dei più sviluppati. È stata l’Età dell’Oro di cui parla Eric Hobsbawn. Una crescita economica eccezionale come quella che caratterizzò quegli anni non poteva non avere conseguenze sulla società, sulla politica e sulla cultura. Moro, con la sua fine sensibilità, coglieva acutamente i segni del cambiamento e non mancò, sia pure nella sua maniera soft, di cercare di indirizzarlo. La sua visione politica portava a uno spostamento della società italiana verso nuovi scenari. Solo che era uno spostamento così poco ostentato da risultare impercettibile a molti. Non ai più acuti osservatori; non a quelli tra noi che godevano della sua fiducia e ai quali la sera, quando non aveva da distribuirci lavoro, parlava un po’ del suo disegno politico, le cui linee potevamo vedere prendere sempre più forma. Nel parlare in pubblico Moro era molto cauto e questo faceva pensare a qualcuno che ci fosse dell’aria fritta nel suo disegno. Non era così. Il disegno era nitidissimo, ma il popolo democristiano di quei tempi non l’avrebbe accettato se lui lo avesse esposto in maniera più diretta e se avesse preso di petto la situazione. Lo fece soltanto in qualche occasione: quando reagì, per esempio, all’affare Lockheed.
Ma a proposito dello stile di Moro, voglio dire una cosa. A quell’epoca i discorsi “organici” del presidente del Consiglio, i suoi resoconti periodici in Parlamento si componevano essenzialmente di tre parti: una parte politica, una parte economica e una parte che riassumeva l’azione di governo. La prima parte Moro la faceva da sé, un po’ con l’aiuto di Corrado Guerzoni e con qualche suggerimento dei suoi consiglieri politici. La parte economica si basava essenzialmente sull’impostazione di Beniamino Andreatta, ch’era consigliere di Moro a Palazzo Chigi e che aveva la stanza accanto alla mia. Le idee, la visione che Andreatta proponeva venivano poi discusse con Moro: a volte le accettava, a volte le modificava; ma anche quando le accettava in toto, nello stile modificava notevolmente l’esposizione perché lo stile di Andreatta era molto diverso da quello di Moro. Poi c’era la terza parte, se vogliamo la meno importante, la meno significativa, il cosiddetto “pastone dei ministeri”, che era il riassunto dell’attività ministeriale e degli obiettivi che il governo si proponeva sul piano amministrativo-legislativo. E quella parte la facevo io utilizzando i contributi dei vari ministeri. Di quella parte Moro non modificava nemmeno una frase, perché io, che pure ho uno stile diverso, avevo per mimesi acquisito l’attitudine a scrivere nello stile di Moro, con quel suo periodare un po’ alla Proust (un autore che ho amato molto). Era per questo che a lui piacevano anche le lettere che gli predisponevo, perché riuscivo a seguire fin nelle sfumature il suo pensiero, che era sì chiaro ma direi in filigrana, non veniva spiattellato brutalmente ma andava letto in trasparenza.
Ma di Moro voglio ricordare anche il tratto umano. Quando la figlia di un commesso della sua anticamera dovette sottoporsi a una delicata operazione agli occhi Moro la mise in contatto col suo oculista e al risveglio lui era accanto al suo capezzale.

D – Una sua riflessione sulla poesia civile, su Pier Paolo Pasolini, su il delitto di Stato a quarant’anni dall’uccisione del poeta?

R – Il poeta non può estraniarsi alla realtà sociopolitica del suo tempo. La poesia greca classica –specie la tragedia, ma non solo- si confrontò sempre con quella realtà. La passione civile può e deve essere una delle motivazioni a poetare; senza una forte motivazione la poesia è esangue, inerte, celebraloide. Ma nessuna passione –civile, religiosa, amorosa, scientifica- può costituire oggetto di enunciazione diretta in poesia. La poesia non espone, non argomenta, sia pure intelligentemente, come si può fare in prosa. Con una combinazione di parole che ha del magico, la poesia allude, evoca, trasmuta, accosta ossimoricamente termini per dare un palpito nuovo, per far cadere la cateratta mentale che c’impedisce di vedere oltre il consueto, oltre il quotidiano. Quando c’è oppressione, ingiustizia sociale, sessuale, gli scrittori (e i poeti) trovano spesso nel reagire una pulsione vitale che concorre non poco alla riaffermazione, alla rigenerazione dei fondamentali valori umani conculcati. Oggi questo vale in particolare contro l’infiltrazione mafiosa e la corruzione. Purché l’ispirazione sia sincera e il dettato non convenzionale o, peggio, opportunistico.  C’è più poeticità nella cipolla di Neruda che in certe poesie che parlano banalmente di Dio.

D – Diversi passaggi e tanti cambiamenti hanno segnato la storia umana; secondo lei quali sono da ritenersi fondamentali per la Cultura e quali altri ci attendono?

R – La possibilità del contatto istantaneo tra persone distanti migliaia di chilometri cambia il nostro modo di essere al mondo e gli stessi concetti di comunità, di vicinanza, di contemporaneità. Oggi un ragazzo di Frascati può avere un rapporto più immediato con uno di Kathmandu che col suo vicino di casa. Il cambiamento impresso al mondo da Steve Jobs non è minore di quello di Johannes Gutenberg; è secondo soltanto all’invenzione della scrittura.
La società è globale nell’economia ma lo è anche culturalmente. Questo è assolutamente vero per la musica, per la scienza (che peraltro usa preferibilmente l’inglese), per la pittura, per la fotografia (la foto del bambino morto sulla riva del mare in Turchia ne è una conferma); lo è abbastanza per la narrativa; lo è meno per la poesia. La poesia è già in se una scommessa estrema: dire qualcosa di non detto, forse d’indicibile, usando le parole, vale a dire il mezzo più usato, più sciupato dall’uso quotidiano. La traduzione comporta una duplice scommessa: dire poeticamente qualcosa restando il più possibile fedeli a quel che l’autore ha detto mediante una combinazione di significanti–significati espressi in un momento felice in un’altra lingua. Io, vanitosamente, vado orgoglioso della traduzione delle mie poesie in molte lingue; ma nei recital all’estero in lingue anche molto diverse (svedese, polacco, ungherese, danese, serbo, russo, ucraino…) io interrogo i volti degli astanti  per vedere se colgo su essi almeno un’emozione in coincidenza con certe espressioni.

Corrado Calabrò è un poeta, accolto inizialmente con scetticismo dai detentori del “sapere”, dalla baronia culturale, poiché anche chi scrive di poesia e narrativa è controllato da questa orrida setta, che per fortuna sta scomparendo alla velocità della vita umana.

D – In una precedente intervista Lei mi raccontò che nacque sulla riva del mare e che in certi autunni le mareggiate giungevano fino alla soglia della vostra casa ai bordi della spiaggia. È una immagine troppo bella perché possa dissolversi così. Ci può descrivere altri attimi così pieni di poesia?

R – Sì, sono nato sulla riva del mare Non ricordo l’età in cui ho cominciato a nuotare. Dev’essere stata un’età antecedente quella della ragione. Per me è difficile immaginare che uno non sappia nuotare come non ci passa per la testa che qualcuno non sappia camminare.
Avevamo una casa di villeggiatura a Bocale (ch’è solo a quindici chilometri da Reggio Calabria, ma che allora sembrava Macondo), al bordo della spiaggia. In autunno, con le mareggiate, le onde giungevano fino alla soglia di pietra e la smuovevano. Lì, ma anche altrove sulla costa ionica (a Locri, a Roccella, a Soverato), dove avevo dei parenti, d’estate facevo grandi nuotate. Ho così, tra l’altro, attraversato a nuoto più volte il mare lungo la costa di Riace senza sospettare minimamente che sotto pochi metri d’acqua ci fosse un’altra presenza: i guerrieri di bronzo, rimasti distesi sopra un letto di sabbia per millenni e levatisi in piedi ai nostri giorni come se soltanto adesso, soltanto per noi, prendessero forma dall’inconscio dello scultore che li ha plasmati. Due statue bellissime, le più belle statue in bronzo che ci siano pervenute dall’antichità; corpi perfetti, di contemporanei, ma con gli occhi di chi non ha più fretta.
Da ragazzo uscivo in mare, di notte, coi pescatori; di giorno, con la barca a vela.
Passavano al largo le navi che attraversavano lo Stretto di Messina e piano piano s’allontanavano fino a venire ingoiate dalla distesa liquida. Avrei voluto seguirle, a nuoto o in barca, fino a veder aprirsi dinanzi a me un nuovo orizzonte.
È questa una sensazione che il mare mi lascia dentro da sempre: la possibilità, l’impulso a sfuggire al condizionamento delle strade (ferrate o asfaltate) terrestri, l’aspirazione a inoltrarmi in una dimensione inesplorata. Lo stesso impulso che, proprio in quell’epoca, sui 15 anni, m’indusse a scrivere le prime poesie.
Nella mia infanzia e nella mia prima adolescenza ho vissuto come una doppia vita. D’inverno studio, orari da rispettare, impegni da onorare, applicazione funzionale ai programmi impostimi. Non si scherzava con lo studio a casa mia. Mi veniva continuamente portato a raffronto (dai professori ancor più che da mio padre) l’esempio dei miei fratelli: una mia sorella aveva conseguito la maturità classica a sedici anni appena compiuti; mio fratello a diciassette. Pur essendo sulla media dell’otto, io -che ho preso la maturità a diciott’anni- ero il ritardato della famiglia.
L’estate, l’estate era un’altra cosa. L’estate era vacanza, vacatio da qualsiasi imposizione. Da giugno a ottobre vivevo nella casa di campagna dalla soglia sempre insabbiata per le onde lunghe che giungevano a lambirla, con una decina di cani da caccia (sette-otto di mio zio) che la notte circolavano liberamente per casa. Non c’era illuminazione pubblica nei paraggi; quando annottava, calava sulla casa un buio nero come un secchio di pece. Ma nelle notti di luna un chiarore innaturale filtrava dagli infissi e i cani raschiavano la porta per uscire. Dormivo spesso solo, con un fuciletto calibro 32 appoggiato accanto alla spalliera del letto; soltanto il sabato sera e nel mese di ferie mi raggiungeva mio padre. Andavo -se ne avevo voglia- a pesca coi pescatori di notte; andavo, quand’era stagione, a caccia, alzandomi prima dell’alba, col fattore Peppe e con i suoi figli che portavano sulle spalle i gabbioni con le quaglie che facevano da richiami. Ci andavo anche da solo, a undici anni, col mio fuciletto calibro 32 e con due-tre cani, battendo la campagna dalle colline fino al mare. Oppure prendevo il largo in barca a vela, con qualche altro ragazzo; spesso, quand’ero lontano dalla riva, mi tuffavo per ritornare a nuoto. Dopo la prima impressione, il mare mi accoglieva con una carezza tiepida e avvolgente, mi sosteneva come un pallone elastico, mi toglieva la sete: a tratti, quand’era liscio, quasi mi assopivo facendo il morto. Nessuno si spingeva a nuoto così lontano. Ero considerato un po’ pazzo dalle mogli dei pescatori e dei contadini sparsi con le loro casette lungo la costa: richiamavano con grida lamentose i loro ragazzi perché non mi seguissero nelle mie sfide ad oltranza.
E leggevo, leggevo furiosamente. Se ero preso da un libro me ne restavo un paio di giorni a letto (leggevo prevalentemente a letto). Sì, vivevo una vita alternativa, in due mondi completamente separati: d’inverno scuola e città, d’estate mare, terra bruciata, libertà trasgressiva. Quel mondo venne spazzato via quando avevo sedici anni: la terra passò di mano e io non ci rimisi più piede, come se all’improvviso non esistesse più. Cosa m’è rimasto dentro? Rigorosa osservanza dei doveri di stato e libertà di saggiare all’estremo le mie forze in assoluta autodeterminazione: questo, questo m’è rimasto dentro.
Ebbi la fortuna di vedere pubblicate le mie prime poesie, scritte tra i quindici e i diciotto anni, da Guanda (all’epoca grande editore di poesia), in una collana minore. E furono  bene accolte, dando luogo addirittura a una querelle letteraria tra Domenico Rea e Pietro Cimatti.
Spontaneismo, istintività d’artista, immedesimazione nella natura per innato talento aveva soprattutto visto nella mia poesia Domenico Rea. Ma quale freschezza istintiva!  gli aveva dato sulla voce Cimatti; la poesia di Calabrò non va verso il sud dei sentimenti primitivi, naïfs, sanguigni, va verso il nord metafisico delle ricerche di assoluto, colte e sapienti sotto il palpito dei sentimenti.
Poi venne quello che J. P. Aron ha definito il periodo di glaciazione della cultura e s’impose in poesia l’artificio, il rifiuto di qualsiasi significato, il pregiudizio per cui prima si stabiliva che erano i poeti (gli appartenenti a un certo gruppo) e poi che cos’era la poesia: il prodotto esclusivo degli appartenenti a quella cerchia.
Io non appartenevo a nessuna congrega; per di più in quegli anni, vincendo un concorso dopo l’altro, ero diventato, giovanissimo, consigliere di Stato. Venni ostracizzato spietatamente.
Con gli anni, tuttavia, la mia poesia si è diffusa all’estero in una maniera sorprendente. Per cui si ripropone l’interrogativo: può la poesia comunicare, o comunque essere intesa in un’altra lingua? O viene, piuttosto, fraintesa? Sia quel che sia, purché sia poesia….

D – Quale è il suo rapporto con la mitologia greca e quale valenza ha nel mondo attuale dove Europa sembra traballare sul dorso del toro?

R – Nella poesia greca fu soprattutto il ricorso al mito a dare un senso più profondo e un’evocazione indeterminata (l’indeterminatezza è un lievito della poesia) alla narrazione e alle allusioni poetiche. Il mito mescola e rifonde la visione del reale con i sogni, l’evocazione di memorie ancestrali con la fantasia, pulsioni dell’inconscio con l’immaginazione. Al tempo stesso il mito era pseudoscienza (consapevolmente metascientifica: v. Platone) con cui la poesia interagiva. Metascienza di che? Dell’insondabile psiche umana ma anche del mistero della nostra esistenza .
I miti – cioè la  dimensione “oltre” della nostra realtà esistenziale – costituiscono il tessuto connettivo della poesia classica: da Esiodo a Omero, a Pindaro, a Eschilo, Sofocle, Euripide. Sono soprattutto le tragedie a farli rivivere, evocarli, sottintenderli. E il popolo – il popolo di Atene che assisteva alla rappresentazione – ne coglieva subito gli accenni, ogni semplice allusione, perché i miti appartenevano al patrimonio culturale comune. La trama della tragedia greca si svolgeva su un doppio livello: quello della narrazione espositiva e quello dell’evocazione sottostante. È il coro, soprattutto, a fare da contrappunto al dialogo. I protagonisti parlano, agiscono mossi da motivi esplicabili; il coro aggiunge, contrappone un’altra interpretazione più profonda, più complessa, più sfuggente. Inconoscibile e inesorabile è il destino che governa le vicende degli uomini, al di là della loro volontà. L’inconscio collettivo, espresso dal mito, lo sente oscuramente. Ogni dizione non evocativa non può che essere superficiale.
La poesia classica obbediva all’ispirazione. Omero e molti altri poeti antichi anteponevano ai loro poemi l’invocazione delle Muse. Oggi, nelle congreghe degli Arzigogolati, l’ispirazione viene considerato un concetto malsano.
Persa la fiducia nella capacità rappresentativa, la poesia è diventata costruzione artificiosa, arzigogolo. Una grammatica letteraria convenzionale è stata cerebralmente applicata da una cerchia di letterati autoreferenziali. Il significato è stato deprivato di significanza per irrisione, autoderisione, disarticolazione, affettazione, non-sense. La poesia è morta per asfissia, soffocata dal cerebralismo. E il risultato di tante bottiglie rotte è stato una montagna di cocci di vetro; nemmeno un diamante.

D – Il medio oriente è un bacino di contrapposizioni, di conflitti, di convivenze difficili, ma anche di incontro tra varie Culture. Quale è il suo punto di vista?

R –  Assistiamo a un’incredibile regresso culturale nelle fazioni estremiste dell’Islam. Se si pensa che cos’è stata la civiltà islamica di Al Rashid, Avicenna, Averroè, sbalordisce che i talebani vogliano che si studi solo il Corano; meglio ancora se lo si impara a memoria nelle madrase restando analfabeti.
Boko Haram, la sigla di uno dei più efferati movimenti terroristici, significa “la cultura occidentale è peccato”. In nome di questo assunto da trogloditi, loro rapiscono e violentano le studentesse, sgozzano  ragazzi musulmani che studiano chimica, fisica, geometria. In realtà il loro è un rifiuto totalizzante di qualsiasi apprendimento che non sia quello mnemonico del Corano e quello dell’uso delle armi. Conoscere la storia, la cultura propria e quella degli altri popoli porta a intendere la matrice comune dell’umanità, per la quale la poesia dei lirici e dei tragici greci, le statue greco-romane, le opere dei grandi storici dell’antichità, le scoperte e le ricerche scientifiche dei nostri tempi sono tutte contemporanee, sono tutte nostre, sono per noi, sono  di ogni uomo d’oggi che ne riscopra la bellezza e la verità, a qualsiasi razza o Stato egli appartenga, qualsiasi convinzione religiosa egli professi o meno.
Homo sum, nihil humani a me alienum esse puto”, scriveva Seneca. Ma homo sapiens, non idiota ebbro di delirio di onnipotenza perché ha un fucile mitragliatore in mano, un idiota che crede il mondo sia cominciato e finisca con lui. 

D – I fatti che hanno coinvolto la Tunisia e l’Egitto sono diversi da quelli che stanno avvenendo in Siria, nello Yemen e in  Libia. A cosa porterà questa inaudita violenza? Perché l’America sta a guardare?

R – Ho accennato sopra al culmine di civiltà che il medio oriente, come la Sicilia di Federico II, raggiunse quando fu il crogiolo di culture diverse armoniosamente conviventi. Oggi assistiamo ad atti di atrocità inaudita in Iraq, in Siria, in Nigeria, in Libia, nello Yemen e altrove. Vengono crocifissi i cristiani, decapitati gli occidentali e i  curdi, vengono uccisi gli sciiti dai sunniti  e viceversa. Vengono distrutti statue, templi, colonnati, edifici antichi.
Come mai? È la monocultura che porta a questo. Come dicevo, per i fanatici dell’Islam niente esiste e niente deve esistere fuori del Corano. Niente deve restare di quel che c’era prima. I fanatici  intolleranti  che impongono questo modo di vivere e di pensare sono un’esigua minoranza. Riescono a tenere sotto controllo zone abbastanza ampie di Paesi diversi mediante la violenza più efferata; ma spesso le loro incursioni devastanti sono solo un mordi e fuggi, non riescono a diventare un regime territoriale stabile. La grande maggioranza degli islamici è moderata, è istruita e ritiene irrinunciabile la cultura, esercita professioni e svolge attività che la presuppongono. Nelle zone sotto controllo dei tagliagola  i moderati (con l’eccezione dei curdi) non osano reagire, paralizzati come sono dal terrore e dall’ostentazione del culto della morte.
Ma in Marocco, Egitto, Tunisia, in Giordania, nei Paesi del Golfo (e, secondo me, anche in Iran, malgrado i pasdaran) la maggioranza moderata ha saputo espellere, o almeno circoscrivere il bubbone.
L’America ha fatto una guerra sbagliata dopo l’altra: Vietnam, Iraq, Libia. Conseguenza: più di 50.000 morti, tanti invalidi, e risultato finale opposto a quello perseguito. L’Iraq e la Libia erano Paesi gestiti autoritariamente ma in modo ordinato e vivibile e, specie in Iraq, con un discreto funzionamento dell’amministrazione e dei servizi civili. Gli inconsulti interventi destabilizzanti delle guerre compulsive hanno lasciato devastazione, disservizi, caos, guerra civile. Obama ha fatto piuttosto bene in politica interna. Ma in politica estera gli USA brancolano, come è bene illustrato in un recente libro di uno storico americano, su  La tragedia della politica estera degli USA.
Confido comunque che si riesca a intervenire contro l’ISIS in maniera più incisiva di come si è fatto finora. Anche la Gran Bretagna e Francia parrebbero sulle mosse di farlo. Intanto truppe russe si accingono a scendere in campo….

A me, che la sto intervistando, viene in mente una considerazione e una risposta di un Poeta: “Nonostante questo non rispetto dell’essere umano e delle cose eccelse da lui costruite, la POESIA potrà ancora far vibrare le corde delle cetre dei poeti?”.
Così Salvatore Quasimodo rispondeva:

E come potevano noi cantare
 con il piede straniero sopra il cuore,
 fra i morti abbandonati nelle piazze
 sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
 d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
 della madre che andava incontro al figlio
 crocifisso sul palo del telegrafo?
 Alle fronde dei salici, per voto,
 anche le nostre cetre erano appese,
 oscillavano lievi al triste vento.

Ora attendo la sua riflessione, presidente.

R – Sì, la poesia ha una funzione anche di fronte alla tragedia.
Questa mia poesia, Ecce tibi  filius forse concorre a dimostrarlo.

Ecce tibi filius

Hanno spigoli netti le ombre
delle case sventrate di Grozny.
 
Nere, la luna spinge madri insonni
tra mucchi di neve alla ricerca,
ogni notte, in spazi troppo bianchi.
 
Cercano la loro via alla vita,
la loro via alla morte, i nostri figli.
Svoltano, a un isolato di distanza,
da un altro lato; ed è per questo che
è così raro che li ritroviamo.
 
L’attesa di ogni madre è una moneta
che subisce ogni volta una tonsura.
Stringe forte alla gola in un nodo,
spolverato di bianco, il fazzoletto;
imperlate di bianco la fronte,
le palpebre. Passa sulle labbra,
il vento, e le dissecca  come un lapis
emostatico, e via spazza le strade
schiaffeggiando bandiere bruciacchiate.
 
Visori dell’ansia, solo gli occhi
ardono nelle occhiaie come carboni.
Guidano a una ricerca dissennata:
non della mamma, ma di munizioni,
abbisognano i figli, se vivi;
e pesano troppo, se morti,
perchè nessuna madre al mondo possa
riportarseli indietro sulle braccia.
 
Accanto a corpi illividiti giacciono
ferree ghirlande, le sole che il vento
non spazza: nastri di mitragliatrici,
cingoli spezzati di goffi
e fumanti carri disarmati.
 
Lì, fermato per sempre e ancora in fuga
come un pompeiano calcinato,
lì, madre, quasi una foto di guerra,
lì in cima alla torretta puoi guardare,
come a un monumento familiare,
all’immolato corpo d’antracite
d’un figlio di madre lontana.
 Corrado Calabrò

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