“La rivolta degli anziani” è il titolo di una serie televisiva, andata in onda sul secondo canale della tv pubblica tedesca qualche anno fa. La fiction, ambientata nell’anno 2030, narrava di una vera e propria rivolta armata di un gruppo di «pantere grigie», che reagivano a una progressiva ghettizzazione da parte della società.

Gli anziani dello sceneggiato erano costretti a vivere emarginati, con pensioni ridotte all’osso e senza servizi sociali, a parte l’eutanasia, gratuita da una certa età in poi. La fiction ebbe grande successo, probabilmente perché lo scenario che dipingeva era molto meno fantascientifico di quanto potesse apparire a prima vista. Ma la fantasia, spesso, anticipa la realtà e qualche giorno fa, il 13 aprile, è arrivato l’allarme del Fondo monetario internazionale.

Secondo quanto pubblicato dal Fmi nel “Rapporto sulla stabilità finanziaria globale”, l’allungamento della vita media rischia di far saltare i conti del welfare. Nel caso in cui, l’aspettativa di vita media dovesse aumentare di 3 anni più del previsto, da qui fino al 2050, “i già elevati costi legati all’invecchiamento aumenterebbero del 50 per cento”, afferma lo studio. In un periodo di forte recessione globale, il sempre maggiore indebitamento delle famiglie, connesso all’aumento delle spese del welfare sta facendo tremare le vene ai polsi a molti, tanto che, sempre secondo rapporto sulla stabilità finanziaria, “non esistono più beni che possono essere considerati davvero al sicuro”, neanche i buoni del tesoro Usa o i bund tedeschi.

Come evitare il collasso globale? La ricetta secondo il Fondo monetario è sempre una: aumentare l’età pensionabile di pari passi con l’aumento delle speranze di vita e incentivare la gente a ritirarsi dal mondo del lavoro più tardi possibile. L’Italia si è già adeguata al posticipo della pensione con la riforma Fornero e leggendo le prescrizioni del Fmi verrebbe da dire “eh meno male!”. Per gli Stati che continueranno a sottovalutare il rischio finanziario legato alla longevità, l’istituzione monetaria di Washington prevede un’unica strada obbligata: abbassare le prestazioni dello stato sociale.

Chi fa da sé fa per tre
In attesa che si avveri la profezia fantozziana e l’Inps si trasformi da “Istituto nazionale previdenza sociale” in “Istituto neutralizzazione parassiti sociali”, come nel film “Fantozzi va in pensione”, il messaggio è molto chiaro : chi vuol vivere più a lungo deve arrangiarsi da solo. In futuro infatti chi sceglierà di andare in pensione troppo presto non solo rischia di rimanere senza pensione ma anche di veder sfumare ogni tipo di assistenza sanitaria e sociale. E’ lo spostamento della responsabilità dalla società all’individuo che si assume sempre di più il rischio legato alla sua stessa sopravvivenza biologica. Per poter godere di una vecchiaia quanto meno decente conteranno sempre di più le scelte personali, in campo lavorativo, previdenziale e sanitario. Gli Stati europei dunque stanno progressivamente venendo meno a una serie di prestazioni sociali che fino a ieri elargivano ai propri cittadini e che oggi, semplicemente, non possono più permettersi. A ben vedere è il perfetto compimento dell’homo economicus, che diventa fino in fondo “imprenditore di se stesso” e si assume in prima persona la responsabilità di come vivere e di come morire. Condizionato da questi cambiamenti epocali, il cittadino contemporaneo delle democrazie liberali, agisce sempre di più interpretando se stesso non alla luce di una società particolare o del welfare state ,bensì all’insegna dell’auto-realizzazione, dell’autogestione personali. Egli esercita uno stretto controllo su se stesso e compie tutte le rinunce necessarie per il proprio bene, accettando costantemente i consigli dei vari esperti che lo indirizzano nella scelta del proprio “stile di vita”.

Il nuovo stato sociale individualizzato
Il cambiamento in atto è visibile in tutti gli ambiti del vecchio stato sociale, sempre meno “sociale” e sempre più “individuale”. Vengono delegate al singolo soggetto, tutti quei servizi e quelle politiche sociali che lo Stato non può o non vuole più gestire. Una trasformazione lampante se si prendono in esame le politiche sulla salute pubblica: in passato si cercava di mettere in campo strategie per trasformare l’ambiente e migliorare lo stato di salute della gente (bonifiche, miglioramento del sistema fognario, qualità dell’acqua, condizioni igienico sanitarie nelle città). Oggi invece, pur permanendo alcuni aspetti di attenzione alla salute ambientale, l’accento cade sempre di più sulle scelte degli individui e sul loro stile di vita. Se le statistiche presentano una fascia di popolazione (selezionata per sesso, età, alimentazione) come “ad alto rischio” di malattie cardiache allora quegli individui verranno incoraggiati a intraprendere uno stile di vita che porti ad evitare i rischi. Non è più necessario recarsi da un medico o sottoporsi ad analisi cliniche, le campagne di informazione dei massmedia si rivolgono direttamente all’individuo che deve essere in grado da solo di riconoscersi “a rischio” e prontamente deve assumere dei comportamenti che riducano il pericolo.

La società della prevenzione
È la cosiddetta “società della prevenzione” in cui siamo ormai immersi fino al collo. Il governo sociale del rischio è sempre più pervasivo e ci richiama, attraverso programmi di informazione ministeriali, giornali e tv, a una gestione attenta e quasi ossessiva del nostro corpo e della nostra salute. Ma spesso questi richiami alla prevenzioni sono richiami emotivi molto generici e approssimativi, raramente fondati su basi razionali, elementi scientifici comprovati o tecniche efficaci. Le esigenze a cui rispondono sono di tipo psicologico, sociale e politico più che sanitario. Un esempio lampante sono le raccomandazioni diffuse dalle autorità in occasioni delle presunte pandemie come la temutissima influenza aviaria. In quel caso governi e istituzioni sanitarie di mezzo mondo ci bombardarono per settimane con dei consigli eccezionali per salvarci la pelle: lavarsi le mani e evitare luoghi molto frequentati (come se fosse saggio tapparsi in casa preventivamente).

La nuova fase della biopolitica
Allarmismi ingiustificati, salutismo ansiogeno, autoresponsabilizzazione e manie igieniste sono gli ingredienti che compongono il nuovo paradigma biopolitico della “società della prevenzione”.
Se come sosteneva Michael Foucault, viviamo nell’era della biopolitica, oggi il paradigma stesso della biopolitica sta cambiando. Per biopolitica si intende la presa in carico da parte dei governi occidentali, dal XVIII sec in poi, della vita stessa degli individui. Dopo aver rinunciato al potere di vita e di morte sulle persone, gli Stati hanno preferito concentrarsi sui processi che regolano la vita degli individui: demografia, salute, malattia, riproduzione sessuale, nascita, morte. Un potere molto più pervasivo perché presente in ogni aspetto della vita del cittadino: attraverso tecniche, tecnologie, esperti e apparati amministrativi dall’educazione ai servizi sanitari, ogni aspetto della società è stato oggetto dell’esercizio del potere sulla vita stessa delle persone. Oggi è proprio questo modello che sta cambiando. Con il progressivo ritirarsi dello Stato dagli ambiti che interessano più da vicino la vita degli individui, il controllo si esercita in maniera preventiva con la politica del rischio e della prevenzione che passa attraverso il discorso pubblico che si rivolge non più alla società come organismo unitario, bensì all’individuo e alle famiglie, inquadrando i problemi sempre più spesso in termini economici: il costo della malattia, il costo delle assicurazioni, il costo della vecchiaia. La nuova biopolitica assicura la salute e il benessere delle persone (o almeno ci prova) strumentalizzandone l’ansia, dando forma alle speranze e alle paure del singolo, delle famiglie, mettendo continuamente in dubbio la loro stessa sopravvivenza o meglio, in termini di biopolitica, il loro stesso “destino biologico”.

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