La settimana scorsa, a conclusione di un lunghissimo e travagliato Consiglio, è stato finalmente approvato il nuovo bilancio dell’Unione Europea per gli anni 2014-2020.

Il negoziato, in corso ormai da circa due anni, è stato caratterizzato da forti momenti di tensione tra i rappresentanti degli Stati Membri, portatori di interessi nazionali troppo spesso distanti ed acuiti dall’incombere della crisi economica in atto. Le divergenze, soprattutto in merito alla riduzione del tetto complessivo di spesa, hanno fatto temere il peggio: il compromesso finale, al solito, permettete a tutti di cantar vittoria, nonostante il quadro complessivo sia rimasto sostanzialmente invariato rispetto al periodo precedente.

 

Il bilancio comunitario attuale, relativo al settennato 2007-2013, ammonta a 1.033 miliardi di euro in termini reali, ovvero al netto degli effetti dell’inflazione, pari a circa l’1% del Pil europeo complessivo. Nel corso del dibattito per il post-2013 un’ampia fetta di Paesi nordici, guidati dal Regno Unito, si è aspramente battuta per ottenere una riduzione del bilancio, ritenuto uno strumento sostanzialmente inefficace in quanto mera espressione di un assistenzialismo tipico dell’Europa meridionale. In altre parole, l’accusa principale riguardava la scarsa propensione degli interventi a generare crescita economica, in quanto pensati per colmare i deficit dovuti all’inefficienza di alcuni sistemi. Si tratta di una visione perfettamente in linea con i principi liberisti tipicamente anglosassoni, per cui lo Stato deve intervenire il meno possibile in un’economia, lasciando che sia il mercato a determinare l’equilibrio. D’altro canto, i governi del sud Europa spingevano per ottenere quantomeno il mantenimento in termini reali della spesa, essendo beneficiari delle politiche più costose dell’Unione, ovvero la Coesione e la Politica Agricola. La Germania, in questa partita, ha giocato il ruolo di ago della bilancia, mantenendosi per lungo tempo neutrale per poi appoggiare la causa nordista. Alla fine il bilancio è stato ridotto complessivamente di circa 36 miliardi, evento che non si era mai verificato prima, accontentando sia la fazione del Regno Unito sia quella dei Paesi mediterranei, visto il taglio oggettivamente modesto.

A chiedere un abbassamento del tetto di spesa sono stati alcuni Paesi cosiddetti “contribuenti netti”, ovvero quelli che versano all’Europa più di quanto ricevono attraverso l’allocazione dei fondi, in quanto più ricchi degli altri in termini di reddito procapite. Tra questi figura anche l’Italia, il cui saldo netto è pari a circa 3,5 miliardi di euro. La parte più consistente dei fondi torna agli Stati Membri attraverso i fondi strutturali ed i finanziamenti relativi alla Politica Agricola Comune, che insieme pesano per oltre il 70% del bilancio attuale. I tagli predisposti per il periodo 2014-2020 hanno toccato proprio questi due settori, per cui la Politica di Coesione perde 34 miliardi e la PAC 62 miliardi, anche se le conseguenze saranno differenti. Per quanto riguarda la prima, il compromesso individuato penalizza i Paesi dove il reddito è cresciuto, nonostante la crisi economica: molte regioni, spesso per un effetto statistico nei confronti della media comunitaria, sono infatti uscite dall’obiettivo Convergenza, per cui riceveranno una quota di fondi strutturali notevolmente inferiore. D’altro canto, alcune modifiche tecniche nei criteri di allocazione hanno permesso di mantenere sostanzialmente invariata la quota spettante alle regioni dell’Europa orientale, certamente più bisognosa di fondi vista la disparità di reddito in Paesi come la Polonia e la Romania. Sul fronte della PAC, invece, i tagli possono considerarsi “lineari”, poiché colpiranno indistintamente le produzioni attraverso la riduzione dei pagamenti diretti di sostegno ai prezzi.

A fronte della riduzione nei due capitoli chiave del bilancio, si riscontra un aumento superiore ai 30 miliardi per quanto riguarda le politiche di sviluppo, connesse al raggiungimento degli obiettivi fissati nella strategia Europa 2020. Anche in questo caso è stata seguita la linea dettata dalla fazione anglosassone, in un’ottica di utilizzo dei fondi come investimenti in alcuni settori strategici, tra cui le infrastrutture, le fonti rinnovabili, i trasporti trans-nazionali. La convinzione alla base di tale scelta riguarda le ricadute che la spesa dovrebbe avere in termini di reddito ed occupazione: il finanziamento a progetti innovativi, infatti, dovrebbe contribuire alla creazione di nuovi posti di lavoro ed alla riduzione dei costi di produzione. Altri Paesi guardano con diffidenza a tale orientamento, poiché il grosso dei fondi rischia di finire nelle economie più sviluppate, essendo queste le uniche a possedere le competenze necessarie a sviluppare progetti complessi.

Il governo Monti è riuscito certamente ad ottenere buoni risultati per quanto riguarda la posizione dell’Italia in relazione alla spesa di bilancio. Per i prossimi sette anni, infatti, il nostro Paese ha ottenuto in primis una riduzione del contributo netto, con un risparmio di circa 500 milioni di euro per le casse pubbliche. In merito alla Coesione, inoltre, la normativa approvata consente il mantenimento di quattro regioni in obiettivo Convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), mentre altre tre (Sardegna, Basilicata e Molise) beneficeranno dei finanziamenti previsti per la nuova categoria intermedia di transizione, fortemente caldeggiata dal nostro governo. In aggiunta, una compensazione speciale di circa un 1,5 miliardi in sette anni è prevista per le aree caratterizzate da elevati tassi di disoccupazione. Tali andranno a compensare le perdite derivanti dalla riduzione dei contributi all’agricoltura. Occorre ricordare che il nostro Paese soffre di un’endemica incapacità di gestione dei fondi strutturali: alla fine del bilancio attuale le nostre regioni avranno utilizzato meno della metà dei fondi stanziati da Bruxelles e la quota inattiva verrà di fatto restituita.

In conclusione, il faticoso accordo raggiunto sul bilancio europeo sembra dimostrare ancora una volta la validità del principio secondo cui “tutto cambia affinché nulla cambi”, per citare il Gattopardo. Il testo approvato, infatti, si pone in perfetta continuità con il passato, mantenendo intatti tutti i capitoli di spesa e soprattutto le metodologie di allocazione, oltre che le modalità di finanziamento da parte degli Stati Membri. L’immagine è quella di un’Europa sempre più divisa ma al tempo stesso imprigionata nei rigidi schemi da essa stessa creati, incapace di correggere disfunzioni ormai evidenti. Un dato preoccupante sulla tendenza alla disgregazione emerge dalla necessità di ridurre, seppur in modo piuttosto blando, gli stanziamenti della Politica di Coesione, attraverso cui si esplica il principio di solidarietà che ha rappresentato fino ad ora un vanto per tutti i cittadini europei. Sarebbe stato invece utile riformulare i criteri per la distribuzione dei finanziamenti, che invece rimangono sostanzialmente invariati, come se una minore disponibilità di soldi portasse automaticamente ad una riduzione degli sprechi e delle inefficienze: non è così, e l’esperienza italiana degli ultimi anni ce lo ha tristemente dimostrato.

European Council, Conclusions Multiannual Financial Framework, Brussels 8 february

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