Il lungo processo per l’approvazione del nuovo bilancio pluriennale Europeo 2014-2020, iniziato ufficialmente a giugno 2011, è entrato nel vivo con la proposta del Consiglio Europeo, presentata dal presidente Van Rompuy.

Che il bilancio sia uno dei nodi più complessi da sciogliere è cosa nota da tempo: il negoziato è stato finora oscurato da problemi ben più imminenti, tra cui la sopravvivenza stessa della moneta unica. Il margine per decidere è tuttavia piuttosto stretto, visto che la decisione finale andrà presa entro il prossimo anno, ma il dibattito è più che mai acceso. Considerando il clima di scetticismo e diffidenza che aleggia tra i governi europei, gli ostacoli verso un’efficace collaborazione aumentano in maniera esponenziale.

La base delle trattative, costituita dalla proposta della Commissione Europea presentata lo scorso anno, prevedeva un bilancio complessivo di circa 1.091 miliardi di euro, tendenzialmente in linea con le previsioni di spesa del 2013. Alcuni Stati Membri, in particolare i paesi nord-europei e la Gran Bretagna, avevano già espresso all’epoca la ferma volontà di ridimensionare tale somma, considerata eccessiva alla luce delle barcollanti finanze pubbliche nazionali. Il presidente del Consiglio Europeo sembra aver fatto proprie tali posizioni, illustrando nei giorni scorsi la propria proposta di riduzione, per un risparmio complessivo di circa 80 miliardi. La cifra supera anche quella ipotizzata dalla presidenza di turno cipriota, in carica fino al prossimo dicembre, che si attestava intorno ai 50 miliardi. Le misure non costituiscono certamente un taglio drastico al bilancio, ma sono state comunque sufficienti a scatenare diverse reazioni tra ministri e capi di governo, lasciando presagire durissimi scontri durante i prossimi incontri.

La critica principale, mossa dai paesi mediterranei, riguarda la direzione specifica dei tagli alla spesa. Le riduzioni non sono certo lineari: circa 55 miliardi saranno complessivamente decurtati dai due capitoli più corposi del bilancio UE, la politica agricola e quella di coesione, rispettivamente per 25 e 30 miliardi. Si tratta di materie piuttosto controverse, che creano forti tensioni tra paesi beneficiari e semplici contributori. La Politica Agricola Comune (PAC), che pesa per circa il 34% del bilancio complessivo, serve sostanzialmente a proteggere i mercati europei dai prodotti extracomunitari, contribuendo attraverso le sovvenzioni a mantenere un livello accettabile dei prezzi. Per i paesi maggiormente orientati verso il liberismo come quelli nordici, che oltretutto non hanno un grande tradizione agricola, si tratta di finanziamenti al limite della legalità, che influenzano il mercato europeo costituendo un’indebita ingerenza governativa al regolare svolgimento delle contrattazioni. Per altri, tra cui Italia e Francia, questi fondi rappresentano un’ancora di salvataggio per produzioni che altrimenti sarebbero antieconomiche, non potendo competere con i prezzi dei prodotti provenienti dai mercati africani o sudamericani. La questione dei cosiddetti Fondi Strutturali, attraverso cui si materializza la politica di Coesione, riguarda una problematica tutta interna che contrappone i vecchi Stati Membri ai nuovi entrati dell’est Europa, con l’Italia in posizione piuttosto scomoda. La maggior parte di questi finanziamenti, infatti, ha lo scopo di far convergere le economie deboli verso la media comunitaria, aiutando in particolare le regioni più depresse. È chiaro dunque che i paesi orientali, con redditi medi notevolmente inferiori ai nostri, siano i principali beneficiari di questa politica, anche se in realtà si gioca con i numeri per evitare un flusso enorme di soldi. L’Italia rappresenta dunque l’eccezione, visto che è il secondo beneficiario di questi fondi (circa 22 miliardi) grazie a quattro regioni particolarmente arretrate e popolose, ovvero Campania, Sicilia, Puglia e Calabria.

La giustificazione fornita per questi tagli riguarda la scarsa efficacia dei finanziamenti nel rafforzare la convergenza e la crescita, specie in alcune regioni. Il caso italiano emerge con una certa continuità nei dibattiti sul tema: in 30 anni di politica di Coesione, con annessa pioggia di finanziamenti, le quattro regioni citate non sono riuscite a superare la soglia del 75% rispetto alla media europea per quanto riguarda il reddito procapite. Inoltre, le amministrazioni locali si sono rivelate spesso incapaci di presentare progetti adeguati, per cui i fondi strutturali non sono stati restituiti all’Europa alla fine del settennato. Questo accade tutt’ora, visto che ad un anno dalla scadenza dell’attuale bilancio, in Italia è stato impiegato in media solamente il 25% dei fondi disponibili. I contributori netti, come Gran Bretagna e Svezia, hanno dunque gioco facile nel cavalcare l’onda dell’improduttività per ridurre la propria partecipazione al bilancio, cercando di risparmiare più soldi possibili. Si tratta di paesi che hanno redditi già superiori alla media e che non ricevono fondi per la politica agricola, quindi non hanno alcun interesse a finanziare tali politiche.

Sul bilancio europeo convergono in sostanza posizioni puramente ideologiche e interessi nazionali, sulla scia delle politiche di austerità imposte in questo momento storico a tutti i governi. L’assunto principale riguarda la necessità di ridurre le uscite per stabilizzare l’indebitamento complessivo, ma esistono punti specifici su cui nessuno vuole mollare. Se Italia e Francia spingono per il mantenimento dello status quo, in particolare sulla politica agricola, la Gran Bretagna non vuole rinunciare ai propri privilegi sul piano del cosiddetto “rebate”, ovvero lo sconto di cui gode sul finanziamento a tali fondi e per cui tutti gli altri Stati devono pagare una certa somma, sancito dall’accordo di Fountainbleu degli anni ’80. D’altro canto, Cameron punta sulla modifica dei criteri di assegnazione, in particolare sul passaggio dalla cosiddetta “spesa storica”, per cui i calcoli vengono fatti sui fondi ottenuti in passato, ad un criterio di efficienza produttiva. Anche sul fronte dei fondi strutturali, i paesi del nord invocano una modifica dei fattori da prendere in considerazione per l’assegnazione, puntando sull’aumento del criterio sul reddito nazionale piuttosto che sullo quello regionale. Tornando all’esempio dell’Italia, vuol dire che un paese relativamente ricco come il nostro dovrebbe essere in grado di incentivare autonomamente lo sviluppo delle regioni disagiate, senza l’aiuto di fondi esterni. In altre parole, la partita sarà combattuta su formule e coefficienti tecnici che difficilmente otterranno una generica visibilità.

Occorre ricordare che, nonostante il notevole flusso in entrata di finanziamenti europei, l’Italia rimane uno dei contributori netti al bilancio UE, ossia paga più di quanto riceve. Viene da chiedersi perché il governo si professi contrario ad una riduzione del budget, ma la soluzione è piuttosto semplice: i fondi percepiti rappresentano un’ottima giustificazione delle uscite, che di conseguenza non sono soggette a qualunque forma di spending review. Si tratta sostanzialmente di soldi “fuori bilancio” a disposizione di regioni ed enti locali, sempre che questi siano di presentare i relativi progetti, piuttosto che sprecarli o rimandarli al mittente.

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