Secondo l’Associazione nazionale avvocati italiani, l’attuale condizione dell’avvocatura è molto distante dall’essere lobby e tantomeno potere forte.
Maurizio De Tilla, presidente dell’Anai, interviene sulla questione avvocati e lobby .
“Stimiamo Stefano Feltri come giornalista – ha dichiarato il presidente De Tilla – Nel suo articolo su “Il Fatto Quotidiano”, dal titolo “Avvocati, la lobby è più forte di ogni legge”, Feltri se la prende con il Consiglio Nazionale Forense sul tema delle tariffe e del profilo deontologico dei comportamenti degli avvocati sanzionati con alcune rigorose prescrizioni del codice deontologico.
Feltri critica “il Consiglio Nazionale Forense che ha deciso che la legge, anzi le molte leggi sono incompatibili con la deontologia: compensi “irrisori” non rispettano la “dignità dell’avvocato” e quindi viene violato l’art. 36 della Costituzione, non garantendo una “esistenza libera e dignitosa. … Gli avvocati (quelli affermati, che prosperano sul lavoro gratuito dei praticanti e quello sottopagato dei “giovani di studio”) preserveranno la propria dignità ma noi veniamo degradati da cittadini a clienti”.
Feltri non conosce i principi deontologici e l’attuale condizione dell’avvocatura.
Non sa – ha continuato De Tilla – che la Corte di Giustizia europea (con la decisione 5 dicembre 2006 – cause riunite C. 94/04 e C. 202/04) ha affermato che la tariffa che fissa onorari minimi “consente di evitare che gli avvocati siano indotti, in un mercato contrassegnato dalla presenza di un numero estremamente elevato di avvocati iscritti a un’attività, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell’offerta di prestazioni al ribasso, con il rischio di un peggioramento della qualità dei servizi fruiti”.
Non sa che con la successiva sentenza 29 marzo 2011, C. 565/08, la Corte di Giustizia europea ha affermato che “la fissazione con carattere pubblicistico di regimi tariffari non può essere considerata incompatibile con la regola della concorrenza, in quanto si presume che, nella determinazione degli stessi, si prendano in considerazione anche altri interessi che abbiano carattere generale”.
Non sa che la Corte di Cassazione, con la decisione 22 giugno-27 settembre 2010 n. 20269, ha affermato che sono sempre più frequenti le convenzioni stipulate con le medie e le grandi imprese, specialmente bancarie o assicurati­ve, convenzioni che, anche in relazione alla serialità delle presta­zioni professionali richieste, presuppongono una negoziazione in cui la parte debole della trattativa è certamente l’avvocato: ciò sia per l’ormai elevato numero di legali disponibili sul mercato, sia so­prattutto per lo squilibrio oggettivo tra la forza contrattuale della banca o dell’impresa di assicurazioni, e quella del professionista, tanto che nella prassi quest’ultimo è quasi sempre tenuto (per non dire, virtualmente, “costretto”) ad accettare compensi esigui (in assoluto, ed anche in relazione all’attività da svolgere).
Non sa che la recente legge di riforma della professione forense ha riconosciuto la funzione costituzionale dell’avvocato ed ha derogato al regime generale sulle tariffe (chiamate volgarmente “parametri”) stabilendo un diverso iter per la relativa approvazione che implica un parere preventivo del C.N.F.
Non sa che – diversamente da quanto egli afferma – negli studi organizzati i praticanti e i collaboratori di studio sono pagati, oltre a ricevere insegnamenti e formazione di buona qualità che non possono trovare altrove.
Il “processo democratico” – ha concluso De Tilla – non c’entra nulla con una prestazione professionale: che è intellettuale, che non può essere paragonata ad un prodotto commerciale, che è personale e fiduciaria, che è il risultato di una libera scelta di un cittadino-cliente che può andare da chi vuole senza alcun condizionamento (la platea raccoglie 240mila avvocati)”.

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