Sul sito Internet della Corte costituzionale, con quell’encomiabile trasparenza che caratterizza da tempo le attività a palazzo della Consulta, è stato scaricato ieri il filmato della trattazione della causa a ruolo n. 3 dell’udienza pubblica del 25 marzo 2014, cioè la rimessione dell’autodichia parlamentare sollevata dalla Corte di cassazione a sezioni unite civili (ordinanza n. 10400 del 2013, per il cui commento rinvio a G. Buonomo, L’autodichia parlamentare di nuovo in Corte costituzionale, in Giustizia civile,  Anno: 2013 – Volume: 63 – Fascicolo: 5/6 – pp. 933 – 953 – Parte: 1).

Si tralascia, per chi non voglia perdersi le interessanti allocuzioni della parte privata e delle difese delle due Camere, ogni possibile anticipazione del contenuto del filmato. La parte privata ha, coerentemente coi suoi interessi di giustizia, reiterato la richiesta di tornare in Cassazione con la “liberatoria” della Corte circa la sottoposizione dei giudizi di autodichia al ricorso per cassazione (e, quindi, dell’ordinamento parlamentare alla legge esterna, la cui violazione è censurabile dinanzi ai giudici di piazza Cavour). La difesa del Senato ha ribadito che l’autodichia è nata dopo la sentenza n. 154 del 1985 proprio per corrispondere ad un obiter dictum della medesima: il che appare un po’ contraddittorio con la rivendicazione (pure in atti di causa, secondo la dotta relazione del giudice relatore) di inapplicabilità dell’articolo 113 Cost., in quanto questo giudice speciale sarebbe preesistente al 1948 e, pertanto, esentato dalla VI disposizione transitoria e finale della Costituzione.

Ma qui ci si limita a puntare l’occhio di bue su un argomento prodotto – un po’ a sorpresa – dalla Camera dei deputati interveniente: i locali organi di autodichia hanno ovviato al “cono d’ombra” (in cui rischiano di cadere le esigenze di tutela giurisdizionale dei dipendenti) rivendicando, rispetto agli atti dell’Amministrazione camerale, gli stessi poteri della Corte costituzionale, sebbene in un regime di controllo decentrato della costituzionalità comparabile a quello che esisteva prima dell’istituzione della Corte: l’esito – trattandosi di uno scrutinio assimilabile a quello svolto in giurisdizione esclusiva – sarà quello di disapplicare la norma “primaria” che confligge coi principi costituzionali, assumendo una statuizione pretoria che renda giustizia nel caso concreto di lesione di diritti, ovvero di annullare l’atto “primario” lesivo di interessi, se viziato da violazione dei supremi principi.

Per sottrarsi all’argomento stringente delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione – in ordine alla necessità di un’accezione sostanzialistica della fonte di rango primario sottoponibile a sindacato di costituzionalità, pena la creazione di “zone franche dell’ordinamento”, che sfuggirebbero alla grande regola dello Stato di diritto – le autodichie camerali dunque rivendicano un ruolo che non sarebbe solo di interpretazione adeguatrice, ma addirittura di sindacato di costituzionalità tout court. Anzi, quando l’interpretazione adeguatrice non è possibile, il giudice domestico darebbe applicazione diretta ai princìpi costituzionali: un vero e proprio ricorso al giudizio equitativo, frutto di un apprezzamento del caso concreto e svincolato da qualsiasi elemento riconducibile allo Stato di diritto.

Poiché la pronuncia non è stata ancora depositata, non è dato di conoscere la reazione della Corte costituzionale rispetto a questa sorprendente rivendicazione, che non è stata smentita neppure dalla difesa del Senato in parte qua. Certo è che, fin dalle sue più antiche decisioni (C. cost. 3/1957 e 6/1970), proprio la Corte costituzionale ha affermato inconfutabilmente il suo ruolo di controllo accentrato ed esclusivo della costituzionalità, secondo la felice espressione di MEZZANOTTE (La Corte costituzionale: esperienze e prospettive, in Attualità e attuazione della Costituzione, Bari, 1979, 160) “ai giudici la legge, alla Corte costituzionale la Costituzione”. Ciò non solo risaliva all’univoca volontà dei Costituenti (v. N. OCCHIOCUPO, Costituzione e Corte costituzionale. Percorsi di un rapporto genetico. Giuffrè, 2010, p. 8) ma era anche il proprium dell’esperienza costituzionalistica cui essi si rifacevano (v. A. D’Atena, Giustizia costituzionale e autonomie regionali. In tema di applicazione del nuovo titolo V, in Atti del convegno Giurisprudenza costituzionale ed evoluzione dell’ordinamento italiano, Palazzo della Consulta – maggio 2006).

Le zone franche non si giustificano con un simulacro di sindacato di costituzionalità: al contrario, esse si eliminano ribadendo l’unicità e l’esclusività del sindacato dell’unico organo a ciò investito dalla Carta costituzionale: la Corte. La tesi del “controllo diffuso” degli organi di autodichia – infatti – non garantisce un’uniformità di trattazione, di casi identici o analoghi da parte delle diverse composizioni degli organi e dei diversi organi.
Non v’è chi non veda come si tratti di un capovolgimento del sistema costituzionale. A tacer d’altro, almeno un merito va comunque riconosciuto alla prospettazione contenuta nell’ordinanza n. 10400 della Corte di cassazione: aver individuato la strada per rimettere sulle gambe questo mondo poggiato sulla testa, definito autodichia.

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