Lo scorso anno la diciassettesima conferenza ONU sul riscaldamento globale (COP 17) e il settimo appuntamento dei paesi che hanno ratificato il protocollo di Kyoto (CMP 7), si sono svolti in due sessioni di incontri tra il 28/11 e il 9/12 a Durban, in Sud Africa: come da quasi venti anni a questa parte le delegazioni di centonovantaquattro paesi (comprendendo il Vaticano come osservatore permanente delle Nazioni Unite) si incontrano per due settimane e discutono delle misure da attuare per ridurre le emissioni inquinanti nell’atmosfera e il riscaldamento globale.

Tema centrale degli ultimi anni è stato l’accordo ratificato nel ‘97 a Kyoto durante la “COP 3” con obbiettivo la riduzione del 5% delle emissioni di gas serra rispetto a quelle registrate nel 1990 (preso come periodo di riferimento) che doveva essere raggiunto negli anni 2008-2012 (ma solo nel 2010 sono aumentate con una media del 5%), ed entrato in vigore dopo l’incontro del 2005 a Montreal,  attualmente sottoscritto da centonovanta paesi: la Cina e l’India sono tra quelle nazioni considerate in via di sviluppo e non essendo ritenute responsabili del boom di emissioni registrato nell’era dell’industrializzazione non sono tenuti a rispettare l’accordo. Invece a sorpresa Giappone, Russia e Canada si sono tirati fuori dal protocollo: dei tre paesi il Canada è stato quello che oltre a non aderire al nuovo “Kyoto 2” ha anche rivendicato la facoltà legale di ritirarsi da quello ratificato undici anni fa, uscendo fuori un anno prima del termine e creando scalpore mediatico per la nonchalance con cui ha tradito il patto (che non prevede sanzioni nemmeno nella nuova versione).

Assenti “ingiustificati”, tra i firmatari dell’accordo prossimo a scadere, gli USA che insieme alla Cina sono responsabili di circa la metà delle emissioni di anidride carbonica globali: gli Stati Uniti si erano detti disponibili a nuove mediazioni solo nel caso in cui fossero stati inclusi paesi come India e appunto la Cina, e alla fine degli incontri si sono dimostrati favorevoli a un’intesa globale che contrasti l’inquinamento atmosferico in linea a quella proposta dall’UE e denominata “Kyoto 2”.
E proprio il supporto degli Stati Uniti, insieme a un folto gruppo di altre nazioni, potrebbe convincere quei paesi in via di sviluppo come Brasile, Cina e India ad aderire a un patto mondiale che sarebbe operativo dal 2020 e che ha come fine il contenimento dell’aumento del riscaldamento globale entro due gradi Celsius, la soglia di sicurezza indicata dagli esperti.

Intanto almeno fino al 2017, termine minimo entro il quale le trattative per il nuovo accordo globale che inizieranno nel 2015 dovranno essere concluse, e già dal prossimo anno partirà il cosiddetto “Kyoto 2”, una continuazione del precedente accordo: come ha spiegato il nuovo Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, è “un’alleanza che dovrà basarsi sulla diffusione e sulla promozione di tecnologie pulite tra i Paesi più sviluppati e quelli di nuova industrializzazione, su progetti comuni, su investimenti che mettano a disposizione dei cittadini del mondo stili nuovi di produzione e di consumo”, ma perché questa alleanza si traduca in atti concreti c’è bisogno di “costruire una partnership strategica tra UE, Cina e altri paesi di nuova industrializzazione” perché solo così “possiamo ridisegnare una nuova geografia nella politica climatica globale”.
In attesa dell’imminente scadenza di “Kyoto 1” e della concretizzazione di “Kyoto 2” per la prossima conferenza che inizierà il 26 novembre 2012 nel Quatar, le principali associazioni ambientaliste si scagliano contro i governi.

Secondo Mariagrazia Midolla, responsabile del programma “clima” del WWF Italia, il “minimo indispensabile” che è stato fatto a Durban rappresenta “un fallimento”: secondo l’ambientalista anche se dopo Durban paesi prima esclusi da “Kyoto 1” si sono impegnati a diminuire le emissioni in atmosfera, “rimandare le decisioni al 2020 non rispetta né le indicazioni della comunità europea né il nostro pianeta”, questo perché resta il rischio di un aumento di quattro gradi C che si rivelerebbe catastrofico per quei paesi potenzialmente “inghiottibili” dal mare e non solo, e quindi “c’è bisogno che le emissioni declinino velocemente per rimanere sotto un aumento della temperatura globale di 2 gradi, come tra l’atro si è stabilito a Durban. Per ottenere questo risultato la comunità scientifica ha affermato che il declino rapido delle emissioni deve avvenire dal 2015”, ma come si è spiegato tra queste righe le decisioni dovrebbero arrivare entro il 2017 e diventare operative solo dal 2020. Kumi Naidoo, direttore esecutivo internazionale di Greenpeace, non riesce a capacitarsi di “come i governanti  potranno guardare i loro figli negli occhi” .
Di parere opposto Legambiente che si dichiara soddisfatta per il futuro accordo “transitorio” e per il ruolo del nostro paese: “l’Italia -con l’intervento del ministro dell’Ambiente Clini- ha finalmente abbandonato il gioco ostruzionista del passato e si è dichiarata disponibile a un secondo periodo di impegni del Protocollo di Kyoto come transizione verso un giusto accordo globale che coinvolga anche le maggiori economie del pianeta superando la polarizzazione tra paesi industrializzati e in via di sviluppo”.

Per avere maggiori informazioni e scaricare la documentazione ufficiale relativa all’incontro di Durban si possono consultare i seguenti link

http://unfccc.int/2860.php

http://unfccc.int/meetings/durban_nov_2011/meeting/6245/php/view/documents.php

http://www.cop17-cmp7durban.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *