In un ipotetico commentario civilistico del prossimo decennio, quello che stiamo vivendo potrebbe essere definito il “diritto privato della crisi economica”: ma un po’ dappertutto, nell’ordinamento giuridico, si registra da qualche anno l’affievolimento di affidamenti, aspettative e veri e propri diritti, soprattutto quando toccano la parte debole del rapporto giuridico.
Il contribuente, il lavoratore, in servizio o in quiescenza, il lavoratore autonomo ed il parasubordinato aspettano con apprensione di leggere – nelle Gazzette Ufficiali che recano periodicamente le leggi di conversione dei decreti-legge degli ultimi tre Governi – come si atteggerà la propria situazione giuridica: sempre più spesso i calcoli fatti prima di intraprendere un’iniziativa, un lavoro, un’opera vengono bruscamente mutati sotto l’imperio della necessità economica del Paese, che tutto e tutti astringe. Quel che più amareggia è che anche il Giudice delle leggi, spesso, queste esigenze pone in cima alla sua valutazione, giudicando recessive le situazioni di migliaia di cittadini che invocano dinanzi ad esso parametri di tutela scolpiti in Costituzione.
Eppure, curiosamente, un solo ambito risultava sottratto da questo tsunami normativo: le locazioni di immobili in cui il soggetto passivo fosse un ente pubblico o una pubblica amministrazione. Per queste, l’articolo 41 Cost., i piani d’impresa del contraente, la tutela della proprietà e l’affidamento dei terzi erano curiosamente giudicati intoccabili. O meglio: non fino al governo Monti che – con quella falce che pareggiava tutti i fili d’erba definita decreto spending review (decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, articolo 3) – aveva previsto misure di ribassamento dei canoni, di mancato rinnovo a scadenza di contratto “in considerazione dell’eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica”. Si trattava di misure graduate: più invasive per le regioni e gli enti locali, dotate di facoltà di recedere dal contratto entro il 31 dicembre 2013, anche in deroga ai termini di preavviso stabiliti dal contratto; meno dirompenti per chi avesse avuto la fortuna di locare immobili alle Amministrazioni centrali dello Stato, “come individuate dall’Istituto nazionale di statistica ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196”, nonché con le Autorità indipendenti. In tali casi, al di là della riduzione del canone, “il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni: a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione; b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione”, ovvero di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti.
Ma se è così, se la falce della crisi ha imposto anche a questi contraenti l’incertezza del futuro cui – bene o male – siamo tutti sottoposti, perché il Legislatore ha ritenuto di approvare l’articolo 2-bis del decreto legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137?
Che motivo aveva, il Legislatore, di ridire la stessa cosa in una nuova norma, le cui vicende stanno suscitando il vespaio evidenziato, in queste ore, da un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera del 21 dicembre 2012? L’allusione del pubblicista che ha inventato – in coppia con Stella – la terminologia della Casta, porta ad una pista assai vicina al Legislatore: la stessa Camera dei deputati, che – in quanto locataria di immobili – da anni sta invano cercando (ma veramente con convinzione?) di disdire un contratto pluridecennale con un importante immobiliarista romano. Ma perché Camera e Senato non dovrebbero essere rientrate già nell’ambito di vigenza dell’articolo 3 del decreto 95/2012?
Per fare quel che tutte le altre amministrazioni già possono fare, cioè disdettare un contratto di locazione, la Camera dovrebbe ricevere una “copertura legislativa” nuova ed ulteriore rispetto a quella già esistente per ogni altra pubblica amministrazione. Riemerge – e si riacutizza – la tesi datata secondo cui i dipendenti delle assemblee parlamentari non potrebbero essere considerati “dipendenti statali” (Consiglio di Stato, VI, 29 ottobre 1996, n. 1427): qui, addirittura, ad essere esclusi dal “settore pubblico allargato” sarebbero i massimi organi dello Stato-persona, nei loro rapporti coi terzi. Possibile?
La risposta, per un giurista positivo, non può che riposare nel testo di legge. In effetti, le somiglianze sono, sicuramente, meno eloquenti delle differenze: queste ultime, tra il decreto spending review e l’articolo 2-bis, ci dicono che l’unica vera novità era l’aggiunta degli “organi costituzionali, nell’ambito della loro autonomia”. Occorre andare allora nel non detto: quel contesto che, circonfuso spesso di mitologia giuridica, alimenta i comportamenti degli attori sociali: evidentemente, ciò avviene anche in una microsocietà – come quella parlamentare – nella quale lo Stato di diritto dovrebbe regolare tutti i comportamenti a valenza amministrativa.
Per aprire una finestra sul contesto, si leggano le pagine 74-75 del libro Testa-Gerardi, Parlamento zona franca, Rubbettino ed., 2013. Vi si scopre che “nei palazzi” non si considera affatto scontato che, in virtù della mera inclusione degli Organi costituzionali nell’elenco ISTAT, essi siano assoggettati a tutti i rinvii di legge in cui compaiono le amministrazioni centrali dello Stato: una clausola di salvaguardia contenuta all’articolo 52, comma 2 della legge n. 196 del 2009 “sterilizzerebbe” il rinvio, in nome dell’autonomia anche amministrativa di questi organi; anzi, un ordine del giorno radicale al bilancio interno – proposto il 1° agosto 2011 e volto anche ad individuare il Senato come incluso negli effetti di legge dell’elenco ISTAT – non fu approvato, forse non a caso (pagine 109-110).
Quando il contesto rappresenta una gabbia che – con il suo effetto costrittivo – induce a fare un clamoroso errore, così l’individuo come l’istituzione dovrebbero porsi il problema di emanciparsi da quel contesto, indagando a fondo sulla sua fondatezza e sulla sua reale vincolatività. Fino a quando la mitologia dell’autorganizzazione camerale serviva a rendere più agevoli le decisioni da prendere, essa aveva nella sua maggiore efficacia un contrappeso abbastanza forte al dogma della legge. Ma il corto circuito in cui siamo precipitati non solo non giova più a nessuno: esso ha francamente dell’assurdo.
Ripercorriamo punto per punto la vicenda parlamentare, che per fortuna è resa trasparente dagli atti pubblici, che fanno giustizia anche di alcune imprecisioni della “vulgata mediatica”.
In sede di esame del decreto-legge n. 120, il 20 novembre in Assemblea alla Camera il deputato pentastellato Fraccaro, alla testa di 5 colleghi, presenta il seguente emendamento 2.145: “Dopo l’articolo 2, aggiungere il seguente: Art. 2-bis – 1. Le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della presente legge. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dal contratto”.
Nella medesima seduta la Presidenza della Camera dichiara inammissibile l’emendamento. Poco dopo, però, prende la parola il Presidente della commissione bilancio “per comunicare all’Assemblea, come già è stato preannunciato in sede di espressione del parere sugli emendamenti, che il Comitato dei nove ha approvato all’unanimità l’articolo aggiuntivo 2.0500 della Commissione, in relazione al quale tutti i gruppi hanno rinunciato alla fissazione dei termini per la presentazione dei subemendamenti. Tale proposta emendativa, pur riprendendo in parte i contenuti dell’emendamento Fraccaro 2.145, già dichiarato inammissibile dalla Presidenza, connette la facoltà delle amministrazione pubbliche di recedere dai contratti di locazione di immobili alla finalità di contenimento della spesa del provvedimento. Pertanto, anche in considerazione di tale finalità, chiedo alla Presidenza, a nome di tutti i gruppi, di ammetterlo all’esame e al voto dell’Assemblea”. La Presidenza prende atto della presentazione dell’articolo aggiuntivo 2.0500 della Commissione, come prende atto che su tale proposta emendativa vi è il consenso unanime in seno al Comitato dei nove: pare che questi elementi (non propriamente giuridici…) si siano rivelati determinanti nella valutazione dell’ammissibilità del nuovo emendamento e, verificato che al suddetto consenso corrispondesse quello della presidenza di tutti i gruppi in Assemblea, nella seduta del giorno dopo la Presidenza lo pone ai voti.
Si noti che questa stravolgente riformulazione, tale da rendere ammissibile un emendamento poco prima cestinato, si limita all’aggiunta di un incipit. Essa infatti recita “Dopo l’articolo 2, aggiungere il seguente: Art. 2-bis – 1. Anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di contenimento della spesa di cui agli articoli 2, comma 5, e 3, comma 1, le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dal contratto”. Firmato: La Commissione.
Nella seduta del 21 novembre 2013 il sottosegretario per l’economia e le finanze Giorgetti a nome del Governo esprime parere favorevole, seguito dal Relatore di minoranza Guidesi: la Presidenza, come s’è detto, pone ai voti l’emendamento 2.0500, che è approvato con 466 sì e 5 no.
In Senato cominciano i maldipancia. In sede referente, la 5ª Commissione permanente il 10 dicembre 2013 vede ben tre emendamenti incidere sull’articolo 2-bis introdotto dalla Camera. Curiosamente, sono tutti e tre a firma coacervata di relatore (la sen. Chiavaroli) e di altri senatori: il soppressivo secco è anche dei senatori D’Alì e Colucci, i due modificativi (volti ad introdurre: uno le parole “ove ne fosse riscontrato l’eccessivo onere rispetto alle condizioni di mercato“; l’altro il periodo “Il presente articolo non trova applicazione ai fondi comuni di investimento immobiliare già costituiti ai sensi dell’articolo 4 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, nonché agli aventi causa da detti fondi per il limite di durata del finanziamento degli stessi fondi“) recano anche la firma del senatore D’Alì.
La relatrice cofirmataria, però, in seduta di Commissione “altresì, i presentatori a ritirare gli emendamenti relativi all’articolo 2-bis, onde evitarne il rigetto, stante il fatto che tale articolo, nel consentire alle amministrazioni pubbliche la facoltà di recesso dai contratti di locazione, reca una norma controproducente, tale da compromettere l’efficacia del processo di dismissione degli immobili pubblici. Auspica, pertanto, che, già in sede di esame del disegno di legge n. 1149, tale previsione possa essere corretta”. Dopo che il sottosegretario (lo stesso Giorgetti della seduta alla Camera) si esprime in senso conforme alla relatrice, il senatore D’Alì (NCD) ritira tutti e tre gli emendamenti.
Nella seduta dell’Assemblea del Senato, il 10 dicembre, si ripete la stessa scena: la relatrice, senatrice Chiavaroli, ribadisce che “i tempi nei quali il decreto giunge all’esame dell’Aula a seguito della sessione di bilancio, non ci consentono di affrontare i seppur meritevoli temi che sono stati sollevati in Commissione. Tengo a sottolineare soprattutto uno di questi temi, che riguarda l’articolo 2-bis introdotto dalla Camera. Tale articolo prevede la facoltà di recesso delle pubbliche amministrazioni dai contratti di locazione. Ebbene, rinviamo la discussione di questo articolo al successivo decreto in conversione, quello sugli enti locali, perché prevedere che la pubblica amministrazione possa recedere in ogni momento dai contratti di locazione in corso pregiudica non solo i contratti già stipulati, ma anche un’altra delle misure che sono previste per il riequilibrio dei nostri conti, le dismissioni immobiliari. Infatti, qualora la pubblica amministrazione non venga ritenuta dai possibili acquirenti di questi immobili in dismissione un interlocutore affidabile per le locazioni, noi rischieremmo di compromettere anche il piano delle dismissioni. Pertanto, poiché il tema è stato giudicato di assoluto interesse e di assoluta rilevanza, in sede di parere sugli emendamenti inviterò al ritiro degli emendamenti relativi all’articolo 2-bis affinché la discussione possa essere riproposta in sede di conversione del prossimo decreto”.
In effetti, il malvezzo di considerare i decreti-legge come la Frecciarossa non è di oggi: da tempo, oramai, la seconda lettura è un bollo e, se la seconda Camera vuol far sentire la sua voce, prende il successivo treno e ci attacca il vagone che non ha potuto aggiungere al primo.
Al di là della singolarità della stretta contiguità temporale (tra la legge 13 dicembre 2013, n. 137, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 15 ottobre 2013, n. 120, recante misure urgenti di riequilibrio della finanza pubblica nonché in materia di immigrazione, pubblicata in GU il 14 dicembre, e l’approvazione dell’emendamento soppressivo dell’articolo 2-bis, operata in 5ª Commissione del Senato il 17 dicembre 2013), quindi, non c’è niente di strano che – in sede di esame in sede referente del ddl di conversione in legge del decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126, recante misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali ed interventi localizzati nel territorio – la relatrice Zanoni (PD) abbia mantenuto l’impegno assunto dalla collega Chiavaroli una settimana prima. Anzi, è eloquente il fatto che la richiesta di chiarimenti avanzata quella sera dalla Lega Nord, su quell’emendamento, abbia ricevuto una risposta direttamente dal Presidente della Commissione. L’emendamento soppressivo 1.5000, posto in votazione, viene approvato dalla quinta Commissione e, il 18 dicembre successivo, dall’Assemblea del Senato con 247 voti favorevoli e 18 contrari. Curiosamente, a difendere l’articolo 2-bis non scendono i colleghi pentastellati di Fraccaro, ma dei 18 contrari ci sono 2 senatori del Pd, uno del gruppo GAL (grandi autonomie e libertà) ed il resto sono tutti senatori di Forza Italia.
In conclusione, la cronaca parlamentare getta squarci eloquenti sul comportamento – abbastanza trasversale – delle forze politiche. Non solo in un ramo del Parlamento non si ritenne di condividere le preoccupazioni dell’altro ramo; addirittura, il voto dei medesimi appartenenti al movimento cinque stelle fu, a distanza di quindici giorni, diverso tra Camera e Senato. E’ evidente che – cedendo alla leggenda secondo cui occorreva una legge apposita per gli organi costituzionali – il Legislatore ha messo in moto una valanga inarrestabile: le priorità della Camera sono state influenzate non dal suo andare incontro agli interessi generali, ma dal desiderio di regolare una partita amministrativa interna ai rapporti contrattuali con un fornitore sgradito; priorità non condivisa dal ramo che non ha (più) questo problema, avendo cambiato fornitore. Ma può la politica nazionale, in questo delicato momento di equilibri precari, impiccarsi alle questioni immobiliari delle due Camere?
Anche su questo, l’impacciata condotta della classe politica rischia di provocare una surrogazione di altro potere dello Stato: a seguito della questione di costituzionalità sollevata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, con ordinanza n. 10400 del 2013, il rasoio di Occam ha modo di calare con decisione su tutti ciò che rappresenta deroga alla normale regolamentazione delle pubbliche amministrazioni. Del resto, l’autocrinia delle Camere è un portato di secondo grado, fatto discendere dall’autodichia che a sua volta è fatta discendere dall’autonomia regolamentare sancita (invero per il procedimento legislativo) dall’articolo 64 della Costituzione.
Tutta una pseudo-scienza giuridica si è innestata su questi presupposti e porta ora i deputati ed i senatori ad incrociare le lame su un emendamento perfettamente inutile. Non c’è alcun bisogno che la legge dica specificamente per gli organi costituzionali ciò che dice generalmente per tutti gli enti pubblici e le pubbliche amministrazioni loro riconducibili: come sostenuto nel disegno di legge radicale illustrato nel libro citato, ripreso in questa legislatura dal senatore Buemi, per tutto ciò in cui Camera e Senato si comportano come ogni altro ente pubblico, la legge dovrebbe regolare direttamente, senza altro atto di recepimento interno.
Mentre l’antipolitica furoreggia, di questo garbuglio del tutto autoinflitto si danno – complice la presenza a palazzo di deputati neofiti, talvolta strumentalizzati, e di senatori dediti a difendere le loro passate decisioni – le letture più malevole: creata una leggenda, l’aedo dell’autodichia ora si aggira come il cieco Omero senza una guida.
Speriamo che il Giudice delle leggi gli offra un braccio sicuro e lo accompagni all’approdo della “grande regola” dello Stato di diritto.