Secondo i dati raccolti dal Bureau of Labor Statistics, negli Stati Uniti molte professioni sono inaccessibili per afro-americani e ispanici. Due le cause principali: da una parte, la politica discriminatoria di alcuni trade unions, specialmente quelli legati al settore delle costruzioni; dall’altra, il circolo vizioso che si instaura tra bassa scolarizzazione e povertà. Intanto, fuori dagli Stati Uniti la situazione non è migliore: dalla Colombia al Regno Unito, le ricerche dimostrano che con la crisi il mercato del lavoro è diventato più razzista.

Sono stati pubblicati sulla rivista The Atlantic i risultati di una ricerca governativa sul mercato del lavoro statunitense, che mettono fortemente in discussione il mito americano del self made man: le differenze che sussistono tra bianchi, neri e ispanici nel tasso di disoccupazione, nel tasso di partecipazione alla forza lavoro, e nella media dei salari, non sono praticamente mai diminuite negli ultimi quaranta anni. Sostanzialmente il mercato è “calcificato” in segmenti ben definiti per razza. Guardando alla lista dei trentatré mestieri “più bianchi” d’America (leggibile in allegato), si può notare che comprende tanto lavori altamente qualificati, come quello del veterinario (96,5%), del pilota d’aereo (93%), o dell’architetto (91%), tanto mansioni che non richiedono un particolare grado di istruzione, come l’agricoltore (95,8%), l’operaio del settore siderurgico e metallurgico, o anche il detective privato (90,3%). È difficile enunciare delle teorie universalmente valide su queste evidenze statistiche; per esempio, la professione del veterinario è poco apprezzata anche tra gli asiatici (1%), che pure rappresentano il 20% dei medici e dei chirurghi. In altri casi, ci sono differenze che saltano agli occhi. Per citare un lavoro non particolarmente qualificato, il 90% dei custodi dei parchi o degli stadi è di razza bianca; mentre gli addetti alla pulizia e manutenzione di quei campi sono prevalentemente ispanici (44%).

Pregiudicato bianco, incensurato nero
Uno studio del 2003 di un noto sociologo americano, Devah Pager, aveva scoperto che, a parità di qualifiche, un uomo con precedenti penali ma di razza bianca aveva più probabilità di essere chiamato per un colloquio di un uomo di colore incensurato. Forse i due mandati del Presidente Obama non sono riusciti a debellare il pregiudizio sull’inaffidabilità delle persone di colore; pregiudizio, per altro, universalmente sostenuto: in questi giorni, infatti, Ikea è stata citata in tribunale per aver consigliato ai dirigenti dei punti vendita francesi di sorvegliare i dipendenti provenienti o originari dall’Africa. Molti lavori qualificati legati all’edilizia, come i carpentieri o gli elettricisti, sono ad alta concentrazione di bianchi; non si tratta di una coincidenza: i trade unions hanno spesso fatto in modo di escludere dalle proprie liste neri e ispanici. Nel 2005 fece molto scalpore una ricerca sulla città di Chicago, la cui popolazione è quasi per un 40% afro-americana: solo il 10% degli apprendisti assunti nei cantieri tra il 2003 e il 2004 era risultato di colore. È stato dimostato invece gli afro-americani e gli ispanici sono molto più propensi ad aderire ai sindacati rispetto ai connazionali bianchi; per altro, il ritorno economico di questa scelta si è rivelato in tutti i casi maggiore per i primi che per i secondi (BLS 2007).

Laureati: bianchi 4 neri 1
Negli Stati Uniti, le persone di razza bianca rappresentano più del 80% della forza lavoro e hanno probabilità di laurearsi quattro volte maggiori dei connazionali di colore. Ridurre questo distacco aiuterebbe ad abbattere le discriminazioni sul mercato del lavoro. Il 60% degli asio-americani (il 5% della forza lavoro), per esempio, lavora come estetista o parrucchiere, mestieri che necessitano almeno di un diploma professionale; sono altamente presenti nell’istruzione sanitaria e anche in quella tecnologica: rappresentano il 29% degli sviluppatori di software. Mentre i ragazzi con gli occhi a mandorla popolano le più prestigiose università americane (24%, Stanford; 18%, Harvard; 25%, Columbia e Cornell), gli afro-americani e gli ispanici rappresentano il 44% degli studenti che non hanno completato il liceo. I lavori a cui possono di conseguenza aspirare, danno poche possibilità di alti guadagni o stabilità economica; e la povertà alimenta l’abbandono scolastico, come un cane che si mangia la coda. L’istruzione pubblica in America, si sa, non è una punta di eccellenza; forse dovrebbe diventarlo, prima che scoppi una nuova polveriera razziale. Il tasso di disoccupazione degli afro-americani è infatti superiore a quello degli ispanici da almeno quaranta anni. Anche se il salario percepito in media dagli afro-americani (comunque minore a quello dei bianchi) è maggiore di quello degli ispanici, la comunità nera si sente minacciata dalla massiccia emigrazione dei latinoamericani. A luglio scorso la neocostituita Black American Leadership Alliance è scesa in piazza contro il decreto che regolarizzerà i clandestini che vivono e lavorano in America. In una lettera inviata al Senato, il movimento ha dichiarato che questa riforma “costerà molto all’America, ma soprattutto ai lavoratori afro-americani”, poiché li costringerà “a competere con stranieri disposti a lavorare a qualsiasi condizione per una paga più bassa”. 

Francia xenofoba e Inghilterra razzista
Oltreoceano la situazione è altrettanto allarmante. La Francia è scossa da una nuova ondata di razzismo xenofobo, come denunciato pubblicamente dal noto giornalista televisivo Harry Roselmack, mentre il tasso di disoccupazione delle persone di colore residenti nel Regno Unito è persino peggiore di quello degli afro-americani. Sono stati comparati infatti i dati della crisi degli anni Ottanta e Novanta con quelli dell’ultima recessione del 2009, e il tasso di disoccupazione degli uomini e delle donne di colore inglesi ha sempre superato quello degli afro-americani. I risultati scolastici questa volta non c’entrano, visto che il 50% dei giovani laureati di colore è disoccupato. Il curatore di questa ricerca, il sociologo Yaojun Li, ha puntato il dito contro il governo inglese, “incapace di proteggere dalla crisi i gruppi etnici minoritari”. Manca, ha sottolineato Li, una disposizione governativa, come quella americana, che incoraggi le istituzioni locali ad assumere personale in una logica rappresentativa della popolazione. 
 
Bianchi, indigeni e poi afro-colombiani
È anche vero che anche una legge antidiscriminazione molto dura può non ottenere i risultati sperati: è il caso della Colombia, che nel 2011 ha approvato la penalizzazione della discriminazione razziale sul posto di lavoro, perseguibile con multe fino a 4500 dollari e da uno a tre anni di carcere. Nel corso del 2012, l’Osservatorio Colombiano per la Discriminazione Razziale ha inviato più di 800 falsi curriculum di bianchi, indigeni e afro-colombiani, omogenei da un punto di vista di qualifiche professionali, ad imprese alla ricerca di personale, e ha scoperto che, nonostante tutto, la probabilità per un afro-colombiano di essere contattato per un colloquio è di 8 punti percentuali inferiore a quella di un bianco o di un indigeno. Il problema, insomma, è il colore della pelle. 

The Atlantic Usa I lavori per bianchi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *