In una mattina romana come tante, che si staglia nell’aria con quella misteriosa supremazia che la città dimostra sul tempo, come fosse una pietra sospesa sulla testa degli uomini che tuttavia non fa più paura a nessuno, passeggio per le strade che portano a piazza Bologna.

La città diventa sempre più sporca e arida in sintonia con lo spettacolo del potere che la abita, quel potere che giorno dopo giorno ruota su se stesso come un cane che vuole mordersi la coda ma ha la coda troppo piccola, anche per mettersela tra le gambe. Nonostante questa monotonia che non è più meravigliosa, come l’avrebbe definita Pasolini, un venticello ironico accarezza i corpi e lascia addosso un odore di futuro, in questa domenica primaverile. Eppure, sarà la vicinanza all’Università dove ho studiato, sarà che anche il tempo gira su se stesso, magari riuscendo, lui si, ad acchiapparsi la coda, non posso non ricordare il venticello di Ubu Roi con cui, ormai tanti anni fa, cominciava la mia tesi di laurea. Una tesi sull’assenza e sulla presenza del teatro, su quel ”andirivieni tra la vita e la morte” di cui parlava Artaud. E mi viene in mente la battuta finale di Ubu sussurata alla ciurma di una piccola nave che veleggia a largo delle coste europee: “ah la Polonia! Ma se non esistesse la Polonia … non esisterebbero i polacchi!” 

Chissà forse l’unica maniera di amare l’Italia è guardarla da lontano, prendere il largo e sospirare più leggeri.
Poi il quartiere si stringe intorno a me e il numero civico che cercavo mi si presenta agli occhi improvviso. E’ qui la casa, la casa dove mi aspetta un uomo antico già dal nome: Ferrino Sedran.
Un uomo che non conosco ma di cui, già entrando nella sua casa così romana, così simile a quella di  “Una giornata particolare” di Scola, (girato del resto in un palazzo poco distante), percepisco il cuore, come se una strana intimità ci precedesse a noi pure sconosciuti… da sempre.

Lei ha vissuto più di venti anni in Argentina dove ha esercitato il suo ministero di padre gesuita: a 17 anni infatti  parte dal Friuli con la famiglia per Buenos Aires raggiungendo suo padre e prende i voti. Poi nel 1971 torna in Italia a Roma e dopo poco tempo lascia il sacerdozio. Diventa psicologo ed esercita la professione per più di vent’anni lavorando fondamentalmente nel pubblico. E oggi scrive libri. La sua, dunque, è una storia molto intensa e, al di là dei percorsi più intimi e misteriosi, parlarne, credo, possa permettere una riflessione collettiva. Quando si vivono esperienze e scelte così significative, sia nell’adesione che nella rinuncia, ascoltarle o raccontarle può favorire non solo l’espressione di una curiosità morbosa o di quel protagonismo tipico del nostro tempo che vede tanti scrittori continuamente votati all’autobiografia, ma una pratica di specchiamento collettivo, oggi più che mai importante.
Dunque, per cominciare le chiedo: ora che ha 82 anni, ha più voglia di raccontarsi o di raccontare il mondo?

Sinceramente non vedo tutta questa differenza tra raccontare il mondo e raccontarsi, perché lo scrittore finisce sempre per parlare di se stesso. In me comunque prevale la voglia di raccontare il mondo, nonostante aver fatto l’ingresso da un bel po’ di tempo nella terza età. Con il passare degli anni i rapporti umani si vanno diradando, mentre cala l’impegno nel sociale. Avendo esercitato la professione di psicoterapeuta si profilava nel futuro una condizione di solitudine. Gli stessi pazienti che durante il trattamento ti hanno cercato assiduamente e ti hanno anche un po’ idealizzato in virtù del transfert, tendono normalmente a prendere le distanze. È per questo che, arrivato alla pensione, ho dato la stura ad una passione che mi portavo dentro fin dall’adolescenza, quando le mie composizioni scolastiche passavano di mano in mano tra gli insegnanti. Per me “raccontare il mondo” significa circondarmi dai figli dell’ingegno, metterli sulle loro gambe e lasciarli andare, per poi farmi condurre da loro per l’ampio mondo secondo il loro genio peculiare. Oltre a vivacizzare la solitudine impedendo che attecchisca la malapianta della depressione, è un modo per giocare un ruolo da protagonista sullo scenario della società e dialogare alla pari con i figli del sangue.
Quanto a “raccontarmi” penso di avere una certa facilità caratteriale, specialmente con chi intende ascoltarmi per davvero, senza pregiudizi, né schemi ideologici. Certo, mica sono un Marco Polo tornato dalle Indie, ho vissuto con serenità la mia “aurea mediocritas” senza mai montarmi la testa. Gli aspetti più interessanti della mia vita non fanno notizia, appartengono all’ordine del vissuto: un amore corrisposto, gioie e dolori della paternità, l’esercizio di una professione umanistica, la scelta consapevole di stare sempre dalla parte dei poveri, degli oppressi, di coloro che hanno fame e sete di giustizia. La mia militanza politica è oscillata tra la sinistra perdente (Cristiani per il Socialismo) e l’ecologismo inconcludente. Torno con nostalgia a quel periodo d’impegno politico nella sezione “Lido Duranti” del PCI di Acilia.
I miei trascorsi religiosi possono suscitare un certo interesse, seppur segnato da una morbosità sospetta, capace di risvegliare il demone sopito della Santa Inquisizione. Per questo ho preferito eclissarmi nell’anonimato di una grande città, bene inserito nella società civile e senza patemi d’animo. Il problema del sacerdozio sospeso è rimasto nell’ombra come congelato, senza mai disperare in una ipotetica soluzione.
Del resto è ovvio che stiamo davanti ad un tabù, un fattore minaccioso che balena nella mente con la sua carica di energia negativa. Nessuno vuole avere a che fare con il voltagabbana, con l’angelo caduto, con il tempio sconsacrato. E non è una reazione esclusiva dei credenti, appartiene anche ai laici, ai miscredenti. Vuol dire che appartiene all’inconscio collettivo. Vacci tu a ragionare, a spiegare, a far valere le tue ragioni! Meglio rinchiudersi nel tempio della propria coscienza e imparare a resistere, come hanno fatto nella storia altre minoranze discriminate: ebrei, zingari, omosessuali, negri…Non c’è al mondo minoranza più invisa di quella che ha osato sfidare la comunità dei credenti. Sarà per questo che il mio santo patrono si chiama Baruch Spinoza. Proporrò a Papa Francesco di inserire il suo nome nelle litanie della liturgia cattolica.

Pensa che la memoria serve a vivere più serenamente il presente oppure essa rappresenta un legame che, in qualche modo, è di ostacolo per la nostra vita presente e futura? E perché oggi, specialmente nel nostro paese, stiamo perdendo la capacità di riflettere e sentire in profondità il nostro passato?

Di primo acchitto direi che la continuità tra passato e presente è garanzia di buona salute per individuo e società. La consapevolezza delle proprie radici rafforza l’autostima, contribuisce all’integrità del Sé e ci proietta con fiducia nel nostro futuro. Nel mondo omerico gli anziani, cultori della memoria, occupavano un posto di privilegio, ogni stirpe frugava nel proprio passato alla ricerca delle proprie origini, che risalivano sempre a qualche divinità. Invece, quando il passato, la propria nascita, affonda nell’anonimato, subentra un senso di smarrimento e di inadeguatezza che compromette il futuro.
Quando si tratta dell’uomo il fattore tempo va comunque ridimensionato perché i vissuti entrano a far parte dell’inconscio ove non vigono le leggi del tempo. Questo oceano sconfinato sul quale galleggia il povero Io che cerca di mediare tra la violenza delle pulsioni irrazionali, il fattore repressivo del Super-Io e le istanze dell’ambiente. Su questo palcoscenico giorno dopo giorno si vanno giocando le sorti della persona, della sua crescita e realizzazione, come dei suoi fallimenti. Certo che la storia personale ha un ruolo determinante nelle scelte attuali, ma non al punto da frenare l’emergere di nuove sfaccettature del Sé, aprendo la strada ad altre fasi della creatività, anche a 82 anni. Mentre, anche nel fiore dell’età, può innescarsi un processo involutivo che paralizza la crescita della persona e la fa precipitare nel totale disfacimento.
Per quanto riguarda i complessi rapporti con la nostra storia nazionale vorrei sorvolare per non soffrire. Sono schifato da questo leghismo cialtrone e sboccato. Abbiamo lasciato solo quel galantuomo di presidente a difendere la nostra bandiera.
Eppure, anche le piccole patrie hanno le loro ragioni. L’Italia dei comuni e delle signorie è stata di gran lunga la più creativa, anche se spesso e volentieri ricorrevano al Papa o all’Imperatore per comporre i loro litigi. Ma il punto di forza della loro caparbia autonomia ha segnato la loro decadenza e sono finiti in bocca allo straniero. Già era successo con le antiche città greche e rischia di ripetersi con i moderni stati europei che faticano a trovare la strada dell’unione. Allora si tratta di determinismo storico?

“Vorrei sorvolare per non soffrire”. Mi colpisce questa frase anche se me l’aspettavo. E’ difficile oggi, se non impossibile, sentire una frase come questa da una persona più giovane. La rimozione del dolore o meglio la sua negazione, come se bisognasse talmente difendersi dalla realtà da doversi dimenticare di sé, della propria sensibilità e dei propri sogni, è stato l’atteggiamento dominante di tanti italiani, specie quelli appartenenti alla cultura di sinistra.
E non dobbiamo scambiare il dolore per il vittimismo. Il vittimismo, a mio parere, spesso è un modo per allontanarsi da sé. O quantomeno per risolvere velocemente il dolore che ci causa la cosiddetta realtà.
Ma, mentre penso astrattamente, il suo sguardo lento mi riprende e metto a fuoco che quest’uomo, che guardo con ammirazione e stupore per il candore che emana, mi ricorda un altro italiano che ho incontrato a Cordoba, in Argentina, tanti anni fa. Un uomo che mi raccontò del suo ritorno pirandelliano nel paese dove era nato, in Puglia. Un paese dove, così finì il suo racconto, non c’era più posto per lui.

In che modo l’esperienza dell’emigrazione rimane nel tempo, modificando l’identità di una persona? E, soprattutto, una volta che si è tornati, come cambia il modo di vivere in un paese che si è precedentemente lasciato?

L’esperienza dell’emigrazione è stata altamente positiva. Mi ha offerto l’opportunità di tagliare alla radice ogni tipo di attaccamento tribale, di infatuazione nazionalistica ereditata dal fascismo, per spaziare nell’universo mondo acquisendo quella visione ecumenica delle diverse nazioni, culture, religioni, che mi ha lasciato una insaziabile curiosità ed una tendenza a solidarizzare con le patrie più svariate, a partire da quelle che lottano ancora per la loro indipendenza e libertà, come la Palestina, il Curdistan, la Birmania. Sono lettore assiduo della rivista Limes.
Non si è trattato di un’esperienza a costo zero. Il distacco dall’Italia, specialmente dalla patria del Friuli e dal paesello, è stato molto doloroso. L’Argentina, tanto generosa nell’accogliere gli immigrati italiani, non si faceva scrupolo di mortificarli con un razzismo strisciante, specialmente da parte dei discendenti da italiani che facevano di tutti per nascondere le loro radici (“Meglio erede di un bovaro basco-francese che di un filosofo napoletano”). Ciò non ha impedito la mia totale integrazione nella società locale, con tanto di cittadinanza Argentina ed il perfetto dominio del casigliano, parlato meglio dell’italiano, che ho molto faticato a recuperare.
Il ritorno in Italia è stato caratterizzato da un doppio passaggio migratorio, quello da Buenos Aires a Roma e, soprattutto, quello dallo Stato del Vaticano alla Repubblica Italiana. Avevo raggiunto la maturità anagrafica, ma dentro ero rimasto bambino, avvolto nell’abbraccio di Santa Madre Chiesa. Avrei potuto continuare a crogiolarmi in quel mondo ovattato, assicurato per questa vita e per quell’altra, accarezzato dalla approvazione dei superiori e di quanti mi volevano bene cui tanto ci tenevo. Invece ho preferito rischiare per recuperare in fretta le fasi della vita che non avevo vissuto, confortato dalla voce della coscienza che ormai non mi dava tregua. Così mi son trovato a vivere da emigrante nella patria mia, in cerca di lavoro, con l’incertezza del domani, ma soprattutto con un senso di spaesamento in un mondo che mi era nuovo perché visto sempre attraverso i filtri della casta clericale. La vita in borgata e la partecipazione ai problemi della gente comune in una militanza politica totalmente disinteressata mi hanno offerto l’occasione di scoprire ed apprezzare i lati più positivi e confortanti della nostra gente.

“… mi son trovato a vivere da emigrante nella patria mia”. Che meraviglia! Che meravigliosa condizione, questo spaesamento, mi verrebbe da dirgli! È quello che auspico a me stesso, oggi. Ogni giorno. Forse l’emigrazione non è una condizione solo geografica o politica. Come l’esilio, di cui parlava Brodsky, è una condizione fondamentalmente metafisica. Levi parlava di tempo mitico. Eh si, questa strana coincidenza di radice e frontiera, di vecchio e nuovo, questa contraddizione così fertile  per gli uomini, io l’ho vista nei miei viaggi in America Latina, nei miei incontri con tanti italiani emigrati, nelle pieghe dei loro volti, spesso sorridenti. E ora la rivedo negli occhi di questo uomo così italiano e così aperto… Perché non fare un Presidente della Repubblica che, un giorno, ha avuto l’ardire, il coraggio e la disperazione di emigrare?

Nel nostro paese, soprattutto negli ultimi trent’anni, è venuto meno il senso della responsabilità.
Secondo lei questo è avvenuto perché gli individui non sono stati indirizzati all’autonomia e all’esplorazione delle proprie capacità e possibilità, oppure perché l’uomo si è innamorato troppo di se stesso (o troppo poco) e ha dimenticato la profonda emozione che gli deriva dal riconoscere l’altro da sé?

Riaffiora l’annoso problema del nostro attaccamento al “particolare”. Non si tratta di qualcosa di datato, ma di struttura antropologica che ci predispone all’anarchia e all’individualismo più sfacciato. Nel bene e nel male. Se da una parte ci rende ingovernabili e rissosi, dall’altra favorisce l’emergere di personalità fuori dal normale e rafforza l’italianissima arte di arrangiarsi.
Io non me ne farei un cruccio, tanto non cambia niente, è una costante del nostro carattere nazionale che si va declinando attraverso i secoli e le diverse regioni. Non diceva Mussolini che governare gli italiani, più che difficile è inutile? Ed era uno che se ne intendeva!
Certo, non è un bello spettacolo quello che diamo con il nostro menefreghismo, la totale assenza di senso civico, il disperante cinismo con cui guardiamo al bene comune, con le piaghe endemiche che affliggono la società: malandrini di ogni ordine e grado, vandali, evasori fiscali, falsi invalidi, assenteisti, portoghesi, strozzini e mafiosi che si spartiscono il Belpaese a fette. Ma la genìa più odiosa è quella dei raccomandati, i figli di papà sempre i primi in graduatoria ai pubblici concorsi, con 30 e lode agli esami senza mettere piede all’università.
Ma siamo anche di buon cuore, capaci di grandi slanci, purché in libertà.

Già la libertà, ma forse è proprio questo il problema. Troppa libertà produce poca libertà. Si, siamo di buon cuore, anche questo ho visto quando ero lontano. Ma la libertà non è solo il problema della democrazia, la sua spina. È, forse, la sua croce. Attraverso la sua rinuncia, l’uomo può, paradossalmente trovare la libertà. Sempre se questa rinuncia è scelta, se è un abbandono della volontà e della sua rappresentazione. Verso il mistero di sé e dell’infinita possibilità.
Finisce qui la prima puntata di questo incontro con Ferrino Sedran. Nella prossima parleremo di Papa Francesco che lui ha conosciuto bene. Magari anche la Chiesa emigrerà presto, dall’aldilà all’aldiqua, dal dogma celeste alla bellezza sempre più dolorosa di questo mondo. Dove Frate Sole alla fine continua a splendere… sempre. O forse no. (fine prima parte – continua)

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