Continua il solco della giurisprudenza disciplinare del Consiglio Nazionale Forense, che ritiene rilevanti i comportamenti privati dell’avvocato, statuendo che, anche nella sfera privata, il professionista debba improntare i propri atteggiamenti ai principi di dignità, probità e decoro che permeano la professione forense e quindi, in caso negativo, il Consiglio dell’Ordine è tenuto ad applicare le sanzioni di legge in modo proporzionale alle mancanze commesse.


La decisione emessa dal Consiglio Nazionale Forense a definizione del processo R.G. 26268/21 con decisione n° 80/22 pubblicata il 01/06/2022 è di particolare interesse sotto vari profili.
Innanzitutto perché, come detto, conferma che i comportamenti privati dell’avvocato, se scorretti o posti in violazione di norme, finiscano con il pregiudicare la classe forense e giustifichino i provvedimenti previsti dalla legge in danno del professionista da parte del Consiglio dell’Ordine competente.
In secondo luogo la decisione è interessante in quanto chiarisce che l’accertamento in ambito giudiziario costituisce un dato incontrovertibile anche nel processo disciplinare e non è ammessa una rivisitazione da parte dell’incolpato delle circostanze e dei fatti che hanno dato luogo alla condanna.

SVOLGERSI DEGLI EVENTI

L’avvocato condannato dal Consiglio Nazionale Forense era iscritto all’Albo di Reggio Calabria, ma esercitava l’attività nell’ambito del Consiglio dell’Ordine di Bologna.
Il legale veniva tratto a giudizio ed imputato per una serie di minacce poste in essere nei confronti della moglie con reiterate serie di molestie, con atteggiamenti persecutori, pedinamenti e tutta una serie di comportamenti che avevano pregiudicato in modo incontrovertibile la serenità della moglie.
Gli atteggiamenti persecutori erano vasti e rilevanti, come allorchè chiedeva insistentemente ai conoscenti quali fossero gli spostamenti della donna, allorchè ne controllava i contatti telefonici, fino a lasciare fuori dall’abitazione oggetti e regali appostandosi davanti all’alloggio, citofonando insistentemente ed intimando alla moglie di uscire di casa, proferendo minacce e simili.
Stante la continuità di tali comportamenti che si aggravavano con il lancio di oggetti verso le finestre dell’abitazione con minacce ed altro, l’avvocato veniva tratto in arresto, tra l’altro perché i fatti erano stati commessi anche alla presenza della figlia minore ed infine condannato a due anni e mesi 4 di reclusione dal Tribunale di Reggio Emilia.
Il Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia trasmetteva al Consiglio dell’Ordine prima di Reggio Calabria e poi di Bologna i dati delle informative sulla misura cautelare e sulle violazioni commesse per l’attivazione del procedimento disciplinare.
La sentenza veniva confermata in Appello e poi in Cassazione.

I PROVVEDIMENTI DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE

Il Consiglio dell’Ordine ritenendo gravi i fatti accertati dall’autorità giudiziaria e ritenendo che questi fossero lesivi dei principi di probità, dignità e decoro che devono ispirare il comportamento dell’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, ma tenuto conto del lungo tempo decorso (i fatti risalivano al 2015), e dell’assenza di precedenti, disponeva la sospensione dall’Albo per sei mesi.
L’avvocato presentava appello al Consiglio Nazionale Forense sollevando sostanzialmente tre eccezioni, oltre l’intervenuta prescrizione.
Innanzitutto sosteneva che quanto accertato nei processi penali non corrispondeva alla realtà dei fatti, essendovi una notevole difformità tra la verità processuale e quella storica.
Lamentava che la propria difesa non era stata adeguatamente curata per aver il proprio difensore rinunciato all’incarico e, dopo la rinuncia al mandato di questi, non era stato concesso un rinvio per permettere al nuovo difensore di acquisire conoscenza dei fatti.
Secondariamente riteneva che l’illecito dovesse considerarsi prescritto, essendo i fatti risalenti al 2015 ed infine rilevava in via subordinata l’eccessività della sanzione, tenuto conto della condotta professionale irreprensibile fino ai fatti che avevano comportato la sua reclusione.
Il Consiglio Nazionale Forense tuttavia rigettava tutte e tre le eccezioni, tra l’altro rilevando che quanto accertato penalmente faceva piena prova sui fatti.
Quanto alla prescrizione rilevava che l’art. 56 della legge n° 247 del 2012 prevedeva come l’azione disciplinare si prescrivesse nel termine di sei anni dal fatto. Tuttavia il termine era stato più volte interrotto con decorrenza di un nuovo termine di cinque anni dalla comunicazione all’iscritto dalla notizia dell’illecito e dalla notifica della decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina.
Relativamente viceversa all’entità della sanzione, riteneva di valutare la circostanza effettiva che i comportamenti negativi dell’avvocato facevano riferimento ad un periodo temporalmente circoscritto, connesso con la grave crisi coniugale, con ripercussioni sulla salute psicologica del professionista, anche a causa dell’impossibilità dei contati con la figlia.
Il fatto che peraltro le circostanze si riferissero a molto tempo addietro e considerando l’ulteriore circostanza che l’avvocato aveva subito una lunga custodia cautelare in carcere, con conseguente impossibilità di svolgere la professione e valutando che simili comportamenti presumibilmente non si sarebbero più riproposti, riduceva la sanzione a 4 mesi di sospensione

I COMPORTAMENTI PRIVATI

Il caso in esame si muove nel solco ormai costante della giurisprudenza disciplinare secondo il quale il comportamento privato dell’avvocato deve essere improntato a correttezza e serietà in quanto, tutte le azioni che ledono i doveri di probità, dignità e decoro, pregiudicano l’immagine della classe forense nella sua totalità e nella sua credibilità.
In senso analogo numerose sono anche decisioni precedenti del Consiglio Nazionale Forense (ex multis 13 Maggio 2022 n° 56) per le quali la vota privata del professionista deve essere valutata anche ai fini disciplinari e ciò non solo per le condotte inerenti alla propria professione, ma per tutte le azioni che ledono i doveri suddetti e cioè per tutti i comportamenti che pregiudicano la figura della classe forense.
Quindi sono esaminati ai fini dei provvedimenti disciplinari sia circostanze gravi come quella in esame, ma anche denunce per truffa al di fuori della professione forense, fino a comportamenti meno importanti, ma che tuttavia comportino comunque un pregiudizio per la categoria, come per esempio il fatto di non aver fatto fronte ai propri debiti, di non aver pagato il canone di locazione e simili.