Il Tribunale di Roma, in una recentissima sentenza, ha affrontato il problema della casa occupata dal figlio e inutilmente reclamata dalla madre, al punto che questa è stata costretta a rivolgersi al giudice per ottenerne il rilascio.

La questione nasceva in una situazione estremamente sgradevole, nella quale l’anziana madre proprietaria dell’alloggio, concesso a suo tempo in uso esclusivo al figlio, ne richiedeva inutilmente la restituzione.
Poiché questi, pur se più volte sollecitato, non provvedeva al rilascio, la madre era costretta a rivolgersi al giudice per ottenere una sentenza di condanna all’immediato rilascio, eccependo che l’occupazione dell’immobile era da considerarsi senza titolo.
Richiedeva contestualmente la restituzione di tutti i beni contenuti all’interno dell’immobile ed il versamento di una somma a titolo di indennità di occupazione a fronte del mancato rilascio per tutta la durata del processo.

LA DIFESA DEL FIGLIO
Costituitosi in giudizio, il figlio contestava il fondamento della domanda e ne chiedeva il rigetto.
Egli sostanzialmente sosteneva di aver occupato l’immobile in quanto tra le parti era in corso un cosiddetto “contratto di mantenimento” in forza del quale il convenuto (cioè il ragazzo) si era impegnato a mantenere la madre, curarla ed assisterla, aiutarla anche economicamente vita natural durante, e la madre si era impegnata in cambio a concedergli il godimento dell’appartamento senza fine.
Il figlio sosteneva di aver sempre adempiuto all’obbligazione assunta, corrispondendo alla madre delle piccole somme e di aver comunque acquistato generi alimentari, di averla assistita durante i ricoveri ospedalieri ed accompagnata ad effettuare visite mediche, in sostanza aveva provveduto ad ogni necessità della madre, incluse le spese mediche, i controlli sanitari, le cure fisioterapiche non coperte dal servizio sanitario nazionale, e ciò fino a due anni prima della proposizione del processo, allorché alla madre era stata riconosciuta l’indennità di accompagnamento prevista dalla normativa sull’invalidità civile.
In via subordinata ove non fosse stato riconosciuto questo rapporto contrattuale che peraltro non risultava da alcun atto scritto e ampiamente contestato in causa dalla madre, il figlio sosteneva che doveva considerarsi esistente fra le parti un “contratto di comodato a tempo indeterminato” commisurato alla durata di vita di esso comodatario, con esclusione della possibilità di recesso ad nutum da parte della comodante.
In via ulteriormente subordinata ed in caso di rilascio, richiedeva la restituzione di tutte le somme sostenute a titolo di cure mediche, farmaci e simili.

LA DIFESA DELLA MADRE
Quest’ultima contestava tutte le asserite deduzioni del figlio e rilevava di aver necessità dell’immobile, in quanto in età avanzata aveva ritenuto di realizzare un utile economico dalla vendita dell’appartamento, e comunque sottolineava che, trattandosi di contratto di comodato senza limite, era legittimo il suo recesso dal contratto stesso potendo richiedere la restituzione dell’immobile in qualunque momento.
In corso di causa richiedeva disporsi una consulenza tecnica di ufficio allo scopo di accertare il valore locativo del bene, indicandolo comunque in modo equitativo in circa 800 euro mensili, tenuto conto che in tutta la durata del processo essa era stata costretta a sostenere gli oneri derivanti proprio dal mancato rilascio.

LE OSSERVAZIONI DEL TRIBUNALE
Il Tribunale riteneva di accogliere la domanda della madre precisando che il rapporto intercorso tra le parti doveva essere qualificato con un contratto di “comodato precario” essendo pacifico e non contestato che l’attrice aveva concesso in uso gratuito al figlio l’appartamento senza alcuna determinazione di durata.
Trattandosi di comodato precario il concedente ha la facoltà di richiedere in qualsiasi momento la restituzione del bene come stabilisce il codice civile.
Tale richiesta determina per consolidata giurisprudenza l’immediata cessazione del diritto del comodatario alla disponibilità ed al godimento della cosa, con la conseguenza che una volta sciolto, per unilaterale iniziativa del comodante il vincolo contrattuale, il comodatario che rifiuti la restituzione della cosa viene ad assumere la posizione di detentore sine titulo e quindi abusivo del bene altrui, salvo che dimostri di poterne disporre in base ad altro rapporto (per esempio Cass. n. 5987/2000).
Di fatto il figlio non era stato in grado di fornire alcuna prova in tal senso e la tesi del contratto di mantenimento non poteva essere accolta.

CONTRATTO DI MANTENIMENTO E VITALIZIO ALIMENTARE
Al riguardo deduceva il Tribunale come l’esistenza fra le parti di un contratto di mantenimento in forza del quale la madre avrebbe ceduto il godimento dell’immobile al figlio, impegnandosi quest’ultimo quale corrispettivo alla prestazione assistenziale e di mantenimento per tutta la vita, non poteva essere invocato.
Infatti il contratto atipico cosiddetto di “vitalizio alimentare” o “contratto di mantenimento” si configura allorché una parte si obbliga a prestare ad un’altra, per tutta la durata della sua vita, servizi, assistenza e cure personali in corrispettivo della cessione di un bene immobile.
Si tratta di un contratto affine a quello di rendita vitalizia previsto dall’art. 1872 c.c., ma che si differenzia da questa per l’elemento di intuitus personae, che determina la scelta dell’obbligato, nonché per il carattere non meramente patrimoniale e per l’infungibilità delle prestazioni consistenti in un facere invece che in un dare, come nel vitalizio tipico.
In sostanza si tratta di prestazioni di carattere essenzialmente morali e spirituali quali la compagnia, l’accompagnamento, il sostegno in favore dell’anziano e simili (vedasi anche Cass. Sez. Unite n. 8432/909).
A tale contratto atipico sono applicabili le disposizioni in materia di vitalizio oneroso in quanto compatibili e quindi anche quelle inerenti la forma.
Tale obbligazione deve essere stipulata a pena di nullità e cioè ad substantiam in forma scritta.
Non avendo il convenuto potuto produrre alcunché, non poteva ritenersi sussistente nel caso in esame alcun contratto di vitalizio alimentare o di mantenimento.

RISARCIMENTO DEI DANNI
Nel caso in esame dunque riteneva il Tribunale che, considerati gli stretti legami tra le parti, poteva configurarsi dunque un contratto di comodato precario, con obbligo di restituzione al momento del ricevimento della raccomandata inviata dalla madre nei confronti del figlio.
La mancata restituzione comporta quindi che il figlio ha occupato l’immobile senza alcun titolo e dunque egli era tenuto a rilasciare l’immobile in favore della madre con tutti i beni mobili che si trovavano all’interno specificatamente indicati dalla madre nell’elenco contenuto nella citazione, elenco non contestato dalla controparte.
Quanto al pregiudizio dovuto per l’utilità ricavabile dall’affitto dell’immobile nel frattempo, e stante l’impossibilità per tutta la durata della causa di conseguire alcun utile, alla madre doveva essere riconosciuto il danno derivante dall’occupazione abusiva.
Tale pregiudizio anche in assenza di consulenza tecnica poteva essere determinato nella misura di € 800,00 mensili non avendo il convenuto eccepito alcunché sull’entità della somma indicata.
Conseguentemente il Giudice Unico del Tribunale di Roma (sent. n. 4062 del 12/03/2012) accoglieva la domanda della madre, condannando il figlio al rilascio dell’immobile, alla restituzione dei beni ivi contenuti; lo condannava al risarcimento dei danni nella somma di € 27.000,00 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, condannandolo altresì alle spese di lite liquidate in € 4.500,00 oltre oneri fiscali.

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