Palazzo Madama ha approvato mercoledì sera le misure anticorruzione che stabiliscono, tra le altre cose, una commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit) quale Autorità nazionale anticorruzione. Il testo ora passa alla camera.

Secondo il testo approvato, che andrà adesso all’esame della Camera, la Civit In qualità di Autorità nazionale collaborerà con i paritetici organismi stranieri e con le organizzazioni regionali ed internazionali competenti; approverà il Piano nazionale anticorruzione predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica; eserciterà la vigilanza e il controllo sull’effettiva applicazione e sull’efficacia delle misure adottate dalle pubbliche amministrazioni; riferirà annualmente al Parlamento sull’attività di contrasto al fenomeno e sull’efficacia delle disposizioni vigenti in materia.
Sarà il Dipartimento della funzione pubblica a coordinare l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale; allo stesso tempo promuoverà e definirà norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione; predisporrà inoltre il Piano nazionale anticorruzione; definirà modelli standard delle informazioni e dei dati che ne consentano la gestione e l’analisi informatizzata.
Molte le dichiarazioni di voto contrarie, a partire da Baldassarri (Fli), secondo il quale l’Authority non sarà affatto indipendente. Dello stesso avviso, D’Alia (Udc), Bruno (Api) e Li Gotti (Idv).
Il punto dell’Authority era stato molto dibattuto già durante la scorsa settimana (vedi articolo su Golem del 10 giugno) e dopo lunghe trattative e discussioni si è arrivati all’ultima stesura che prevede un organismo di controllo sganciato sì da Palazzo Chigi ma non ancora totalmente indipendente secondo molti.
Un altro punto molto controverso del Ddl è stato quello sulla incandidabilità e ineleggibilità dei parlamentari: sull’argomento è stato approvato l’emendamento 10.251 (testo 2) che delega il Governo ad adottare un testo unico in materia. Non saranno candidabili tutti coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, nonché coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti contro la p.a. Per quanto riguarda gli enti locali, l’incandidabilità è già stabilita dal DLgs 267/2000 e dalla legge 165/2004 ma la vera novità è l’estensione dell’istituto al Parlamento. Della questione si era già parlato alla Camera nel 2007 con le audizioni convocate dall’allora presidente della Commissione Affari costituzionali, Luciano Violante e tutti gli esperti di diritto costituzionale intervenuti, avevano escluso la compatibilità dell’istituto dell’incandidabilità con il regime costituzionale vigente per il Parlamento.
Un concetto che è stato ricordato anche mercoledì pomeriggio nell’Aula di Palazzo Madama. Le opposizioni, oltre ad esprimere una generale sfiducia per lo strumento della delega, hanno sottolineato infatti la possibile inefficacia dell’emendamento e l’errore di confondere i due tipi di incandidabilità, dal momento che quella locale ha minori vincoli rispetto a quella nazionale che è condizionata dall’articolo 66 della Costituzione e della competenza procedurale delle Camere. Da qui la proposta delle opposizioni di introdurre l’istituto percorrendo la strada della perdita dell’elettorato attivo, consentendo agli uffici elettorali di avere già un elenco degli ineleggibili.
L’Assemblea, però, ha preferito rimandare tutto alla legge delega.
Si è dichiarato comunque particolarmente soddisfatto per l’approvazione del provvedimento il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Andrea Augello: «L’approvazione da parte del Senato – ha detto – di questo Ddl e, speriamo, in tempi ravvicinati di quello di ratifica della Convenzione europea penale sulla corruzione, già approvato dalle commissioni riunite II e III del Senato, ci consentirà di affermare che dal 2009 ad oggi avremo onorato due terzi delle 22 prescrizioni che l’Italia aveva ricevuto dal Greco nel 2009».
Il problema, però, è che il Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco), proprio in questi giorni, il 27 maggio 2011, ha nuovamente censurato il Governo italiano per non aver indicato nei suoi provvedimenti di contrasto alla corruzione alcun codice di condotta specifico nei confronti dei membri del Governo.
Il rapporto (leggibile in inglese tra i documenti correlati) dice che le misure in via di approvazione sono insufficienti, che il nostro Paese non ha dedicato la giusta attenzione al conflitto di interessi e all’adozione di un codice etico da parte dei membri del Governo, alla protezione degli informatori e al rafforzamento delle misure anticorruzione nel settore privato.
Ricorda bene, quindi, il sottosegretario che già nel 2009 il Greco aveva rivolto all’Italia ben 22 raccomandazioni, tra le quali quelle per introdurre restrizioni appropriate per prevenire conflitti di interesse, ma il nostro esecutivo ne ha introdotte meno della metà. E soprattutto, nonostante le speranze dell’esponente di Governo, il Greco sottolinea che le misure contenute nel Ddl anticorruzione in discussione al Parlamento, non sono sufficienti per raggiungere gli obiettivi indicati dal Greco. Si potrà comunque sempre dire che il testo licenziato dall’Aula di Palazzo Madama non è il testo licenziato da Palazzo Chigi un anno fa e letto dal Consiglio d’Europa e che le disposizioni hanno ancora davanti la seconda lettura della Camera.

rapporto_Greco___Italia.pdf

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