Frequentemente vengono a studio clienti le quali dopo la scoperta della loro relazione extraconiugale, vengono minacciate dal marito che vuole chiedere al tribunale di affidargli i figli.

Si tratta di minacce prive di qualsiasi senso in diritto in quanto non vi e’ alcun collegamento nel nostro sistema giuridico tra l’addebito della separazione e il diritto dei figli a rimanere con il coniuge maggiormente adatto per la propria crescita.

Singolarmente le donne che instaurano una relazione extra coniugale tendono a sentirsi più colpevoli degli uomini, come se questi possano essere legittimati a qualche scappatella, mentre la donna deve rispettare criteri di rigida moralità.
Tale modo di pensare che ovviamente non corrisponde ad alcun principio di diritto, trova tuttavia anche una ragione nella vecchia legislazione precedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975 laddove, in un mondo in cui l’uomo, addetto a procacciare il reddito, era obbligato conseguentemente al mantenimento della famiglia, veniva contrapposta la moglie, custode della casa e con compiti riduttivamente di assistenza alla prole.

L’INFEDELTA’

Quanto alla fedeltà la normativa preesistente al 1975 non ammetteva neanche la separazione su semplice richiesta, ma solo se si dimostrasse una qualche “colpa” dell’altro coniuge. All’epoca la “colpa” era  configurata nei seguenti fatti: abbandono volontario, minacce, eccessi, sevizie, condanna a pene detentive di notevole gravità, rifiuto del marito di fissare una conveniente dimora, ingiurie gravi al coniuge, adulterio della moglie e infine adulterio del marito, quando però in quest’ultimo caso concorressero circostanze tali da costituire ingiurie per la moglie.
Non sfugga al lettore l’evidente disparità di trattamento, nel caso di adulterio “semplice” per la moglie ed “aggravato” per il marito, legittimato evidentemente quale dominus a qualche saltuaria distrazione extra coniugale stante anche la presenza, legittimazione e regolamentazione fino agli anni ’50 delle varie case chiuse sul territorio.
Da qui tutta la fortunata serie di film comici che vedevano il soggetto tradito ricorrere alla forza pubblica (l’adulterio era anche punito penalmente), per trovare il coniuge nel talamo con l’amante.
Nell’attuale formulazione ovviamente la separazione può essere richiesta semplicemente a domanda allorché sussistano fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da pregiudicare gli interessi della prole, legittimandosi così di fatto il diritto di separarsi anche in mancanza dell’assenso dell’altro coniuge, in qualsiasi momento su semplice richiesta.


IL PREGIUDIZIO PER IL MARITO INCOLPEVOLE

Non vi è dubbio che il maschio con  figli minori o maggiorenni non autonomi, in una separazione, esca comunque perdente e frustrato allorchè il fallimento dell’unione non sia a lui imputabile.
Si è visto in altre occasioni, che nessuna conseguenza circa il diritto a mantenere i figli con sé deriva dall’addebito della separazione.
Tuttavia talvolta, applicando la normativa, si  giunge a situazioni oggettivamente e sostanzialmente ingiuste.
Si pensi al caso peraltro estremamente frequente in cui la coppia vada a vivere nella casa acquistata dal marito con l’accollo di un mutuo di rilevante entità e poi dopo la nascita dei figli, la donna innamoratasi di un altro, decida di separarsi.
In questo caso il tribunale, data la giovane età dei bambini, provvederà sicuramente all’affidamento condiviso ad entrambi i coniugi, ma al collocamento presso la madre, cioè statuendo che i figli andranno a vivere nell’ex casa coniugale con la madre, estromettendone il marito e permettendo allo stesso soltanto di asportare i propri effetti personali a tutela del diritto dei figli a rimanere nello stesso ambiente a loro congeniale, e per risentire il meno possibile della crisi della famiglia.
Dunque il marito incolpevole si troverà estromesso dalla casa, costretto a versare un mantenimento per i figli e talvolta anche per la moglie se non riesce ad ottenere l’addebito della separazione.
Per di più sarà tenuto a versare la rilevante rata di mutuo per moltissimi anni a venire, ben sapendo che la casa non potrà essere recuperata se non dopo l’autonomia economica dei figli e cioè in periodi ultra ventennali. Dovrà  anche andare a procacciarsi un altro alloggio con il danaro che gli rimane dopo aver provveduto agli incombenti ed ai doveri economici nei confronti della prole.
Sicuramente si tratta di situazioni ingiuste sotto un profilo sostanziale, ma che secondo la Cassazione non possono essere evitate.
Infatti la Suprema Corte ha precisato in più occasioni che, dovendo scegliere fra i due mali (attribuire la casa al marito incolpevole danneggiando la prole o assegnarla alla moglie, mantenendo i bambini con la mamma, genitore sicuramente maggiormente adatto per il collocamento ed estromettendone il marito), si deve optare per il danno minore, danneggiando così sostanzialmente il soggetto incolpevole del fallimento dell’unione, ma evitando di danneggiare la prole incolpevole della crisi coniugale.

L’ADDEBITO PER INFEDELTA’

L’obbligo e il correlato diritto alla fedeltà trova il proprio fondamento nella comunione spirituale e materiale del rapporto coniugale.
Perché si possa parlare di violazione della fedeltà coniugale non necessita l’esistenza di un adulterio conclamato, né secondo la giurisprudenza, la prova di rapporti sessuali extra coniugali, mentre invece è sufficiente la sussistenza di una relazione, magari anche solo platonica, ma con caratteristiche di continuità tali da incidere in maniera rilevante nel rapporto di fiducia vicendevole e nella stima reciproca.
È pacifico in giurisprudenza che la violazione dell’obbligo di fedeltà non comporti il diritto al risarcimento del danno trattandosi di un pregiudizio di carattere etico potendo essere tale violazione solo motivo di addebito della separazione, ma non di risarcimento del danno.
Tale orientamento era basato anche sul fatto che diversamente, se si fosse accettata la tesi opposta, qualsiasi processo di separazione, si sarebbe dovuto prolungare a dismisura in una interminabile istruttoria necessaria per dimostrare (o tentare di dimostrare), il tradimento dell’uno o dell’altro coniuge.
Tale mancanza della “giusta punizione” appariva incomprensibile in chi rivoltasi all’avvocato per ottenere la separazione, non poteva fare a meno di rilevare il plurimo danno in termini concreti, danno derivante dal fallimento del matrimonio imputabile all’altro coniuge,  perché la crisi del matrimonio, si concretizza sempre in un fallimento personale e nella sensazione di aver gettato al vento una parte della propria vita.
A ciò va aggiunta la perdita delle frequentazione precedente con i figli, l’obbligo di pagare il mantenimento, la perdita della casa e la necessità di trovarne (e pagarne) un’altra.
Da qui la pretesa di punire il colpevole.

IL RISARCIMENTO

L’addebito della separazione di norma, come detto, non comporta alcun ristoro del pregiudizio subito. Lo stesso vale  per la violazione dell’obbligo di fedeltà in quanto si tratta del mancato rispetto di un dovere etico e morale vicendevole, che non può essere monetizzato, né dare luogo a risarcimenti in termini economici
Attualmente la Cassazione tuttavia ha mostrato dei ripensamenti e anche recentemente con l’ordinanza n. 6598 del 07/03/2019 si assiste ad una rivisitazione dei precedenti principi.
Secondo i  nuovi orientamenti, per ottenere il risarcimento dei danni, che può essere richiesto anche con separata causa, devono sussistere alcuni presupposti specifici.
Da un lato che il tradimento sia stato la sola causa del fallimento dell’unione, ipotesi estremamente difficile da dimostrare, laddove quasi sempre la violazione dell’obbligo di fedeltà fa seguito ad una serie di contrasti preesistenti, motivo per il quale i tribunali rigettano spessissimo le domande di prova avanzate dai legali.
In secondo luogo, se si riesce a superare il primo ostacolo, è necessario dimostrare che non si è trattato di semplice tradimento, bensì che questo abbia comportato la lesione di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione.
In sostanza si deve trattare di un comportamento che ha leso la reputazione, l’onore, la dignità della persona danneggiata  per esempio per il carattere plateale ostentato pubblicamente, in modo da configurare le caratteristiche di ingiuria nei confronti del soggetto leso.

LA SEMPLICE SOFFERENZA NON BASTA

La Cassazione dunque ritiene che si possa dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. anche se non sussista l’addebito in sede di separazione, ma dimostrando che la condizione di afflizione indotta dal coniuge supera la soglia di tollerabilità e si traduca per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale in ipotesi, alla salute, all’onore o alla dignità personale.
Dunque i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio, non sono di carattere esclusivamente morale, ma hanno natura giuridica, come si desume dal riferimento contenuto nell’art. 143 c.c. alle nozioni del dovere, di obbligo e di diritto ed all’espresso principio dell’ inderogabilità ex art. 160 c.c. di tali doveri.
Si pensi, per attenerci alle sentenze, alle situazioni in cui il coniuge platealmente di fronte a tutti, in riunioni in cui vi sono più soggetti, mostri affetto e un legame sentimentale con altra persona, mentre umili platealmente il coniuge, ignorandola di fronte a tutti e mostrando chiaramente la sua esclusione in favore del nuovo soggetto prescelto.
E’ comunque pacifico che non basta la semplice depressione, tipica di qualunque fallimento di un’unione coniugale, in quanto evidentemente il pregiudizio psichico sussiste in tutte le crisi dei rapporti  matrimoniali ed il dolore, la sofferenza, l’abbattimento non sono altro che la ovvia reazione alla crisi coniugale e al fatto di vedere la persona amata rivolgere le proprie attenzioni altrove.