Si è passati da un’epoca in cui le cause di separazione venivano basate sul “difetto di verginità” (negli anni ’50 sul tema venivano scritti tomi di diritto) a situazioni viceversa in cui sono le donne che citano in giudizio gli uomini chiedendo risarcimenti a cinque cifre per il mancato adempimento dei doveri coniugali (al Tribunale di Roma pende una causa promossa da una signora che pretende dal marito, dopo un fidanzamento “normale” sotto il profilo fisico, un mega risarcimento da “inadeguatezza sessuale” durante i successivi cinque anni di matrimonio).

Se si esamina la giurisprudenza, si evince come, a parte alcuni principi di diritto chiaramente espressi, poi quando ci si addentra nei casi concreti, ci si trova spesso di fronte a decisioni contrastanti tra loro.
Non infrequentemente infatti la Corte di Cassazione modifica sentenze di primo o secondo grado in senso diametralmente opposto.

SESSO IN AMBITO CONIUGALE – LE OBBLIGAZIONI MATRIMONIALI
Per comprendere gli attuali orientamenti giurisprudenziali è necessario partire dai presupposti del codice civile. Invero tra gli obblighi che derivano dal matrimonio e dai quali dipendono diritti e doveri vicendevoli, non emerge nulla di specifico in tema di rapporti sessuali (art.li 143 e seg.ti c.c.).
L’unico punto dal quale si può far discendere indirettamente una previsione legislativa è quello del secondo comma dell’art. 143 c.c. che prevede come “…Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia, ed alla coabitazione”.
Ovviamente va ricordato che il codice è stato promulgano nel 1942, e cioè in un’epoca in cui di sessualità non se ne parlava nemmeno o al massimo si parlava genericamente di debito coniugale.

L’INTERVENTO DEL GIUDICE – CONTROVERSIE SUI RAPPORTI FISICI – LEGITTIMITA’ DELLA DOMANDA DI SEPARAZIONE
Se dunque in ambito legislativo civilistico ben poco è dato rinvenire sul punto, del tutto diversa è la situazione sotto il profilo giurisprudenziale, laddove la questione dei rapporti sessuali tra coniugi è stata oggetto, ed è tuttora oggetto, di innumerevoli incisivi interventi
Sostanzialmente i giudici hanno statuito come il diritto-dovere di intrattenere rapporti sessuali tra i coniugi, spetti ad entrambi in modo paritario ed è equiparabile a tutti gli altri diritti e doveri stabiliti nella normativa codicistica.
L’attuale orientamento indica dunque che sussiste in capo ad entrambi i coniugi un vero e proprio diritto-dovere vicendevole per ciò che concerne i rapporti sessuali, diritto-dovere che discende proprio dal contratto matrimoniale.
Da ciò ne deriva, come conseguenza giuridica, che il sottrarsi ripetutamente a tale obbligo, indipendentemente dal fatto che l’omissione si riferirebbe all’uomo o alla donna, possa dar luogo all’addebito della separazione, in quanto sussisterebbe una espressa violazione delle obbligazioni sul tema, previste dalla normativa vigente.
Tuttavia tale rifiuto deve apparire ingiustificato e comunque ripetuto nel tempo; ciò in quanto, diversamente, non potrà discenderne alcun addebito della separazione.
In sostanza dunque il mancato accordo tra coniugi circa i rapporti sessuali, il tipo di rapporti, la frequenza degli stessi e simili, legittima, inficiando la comunione materiale e spirituale tra gli interessati, la domanda di separazione.
Tutt’altro è il discorso che riguarda l’addebito.
Infatti la Cassazione ha ritenuto che l’addebito possa essere pronunciato per tale motivo, solo se sussista una “colpa” da parte del coniuge che si sottrae a tali rapporti, colpa che deve consistere appunto in un rifiuto ingiustificato e ripetuto nel tempo.
Tutto questo, secondo la giurisprudenza, in quanto il sottrarsi ad un “normale” rapporto fisico (e sul normale vedremo l’evoluzione della giurisprudenza in seguito), comporta e legittima la richiesta dell’addebito all’altro coniuge.
Il rifiuto della sessualità infatti, senza alcuna giustificazione, dà luogo all’offesa della dignità della persona, comportante con la reiterazione di tale rifiuto anche un pregiudizio sul piano personale e psicologico ed una lesione del diritto costituzionalmente garantito alla salute psichica.

L’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE PER OMISSIONE DEI RAPPORTI FISICI – LE CONSEGUENZE
La questione dell’addebito della separazione non è rilevante nella maggioranza dei casi, ma può divenire particolarmente importante ove il coniuge “colpevole” dovesse avere diritto all’assegno di mantenimento.
Infatti va ricordato che gli unici effetti attuali dell’addebito della separazione, a parte quelli morali, sono di precludere i diritti ereditari (che comunque cesserebbero con il divorzio) e di comportare la perdita per il coniuge, (ove questi ne avesse teoricamente diritto), al mantenimento a carico dell’altro.
Tale conseguenza, deriva appunto dalla responsabilità nel fallimento dell’unione coniugale e cioè per aver violato gli obblighi matrimoniali.
Questo su un piano teorico.
Sul piano pratico va detto però, se l’omissione dei rapporti sessuali è uno dei motivi di addebito che frequentemente vengono richiesti nell’ambito della separazione, (è evidente che se sussiste contrasto fra coniugi vi sarà anche un rifiuto dei rapporti fisici), quasi sempre è ravvisabile il rigetto di tali pretese da parte dei giudici di merito.
Tale orientamento negativo dei giudici è ravvisabile sia in quanto è difficile dimostrare ciò che si assume essere accaduto o non accaduto tra le lenzuola, sia perché il rifiuto dei rapporti sessuali è quasi sempre giustificato e conseguenza degli altri motivi che già in precedenza avevano comportato il fallimento dell’unione, facendo cessare la pregressa comunione materiale e spirituale tra i coniugi.
Nei rari casi in cui il rifiuto di avere rapporti sessuali con l’altro coniuge è stato ritenuto rilevante, si trattava di situazioni limite, in cui il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali appariva ammesso in sede di interrogatorio, ed ingiustificato, essendo utilizzato quale mezzo di punizione o ritorsione.
Una famosa sentenza della Cassazione, sotto tale profilo, condannava un uomo che per lunghi anni aveva rifiutato di intrattenere rapporti sessuali con la moglie, giustificando egli tale rifiuto quale punizione di un mancato adempimento economico e contrattuale da parte del fratello del coniuge nei suoi confronti.

LEGITTIMITA’ DEL RIFIUTO – DIRITTO DI RIPENSAMENTO
E’ dunque pacifico che, ove il rifiuto appaia giustificato, (si pensi a disturbi fisici o psichici che rendano inidoneo il coniuge ad intrattenere rapporti fisici e sessuali oppure ad una crisi di stima nella relazione, o alle innumerevoli fattispecie che minano dalle fondamenta il rapporto di coniugio), nulla quaestio per i giudici.
L’interessato potrà ricorrere, ove lo ritenga, al procedimento di separazione personale dei coniugi, ma senza invocare l’addebito.
Infatti, secondo la giurisprudenza, vi è certamente l’obbligo di tenere conto delle esigenze del proprio compagno di vita, di rispettarne i desideri.
Ciò, non solo sotto il profilo del tipo di rapporti sessuali richiesti o concessi, ma anche sotto il profilo della frequenza degli stessi.
In numerose occasioni, i giudici hanno considerato legittimo il legittimo rifiuto allorché la pretesa (in genere dell’uomo) sia eccessivamente continuativa o ripetitiva, senza alcun rispetto della sensibilità e delle esigenze dell’altro coniuge.
Dunque, se non esiste un diritto di uno dei due ad imporre le proprie pretese sul piano fisico, non esiste neanche il diritto di stabilire unilateralmente la frequenza, né la tipologia dei rapporti sessuali.
Ovviamente se emergono contrasti su tale punto, ciascun coniuge è libero di rivolgersi al tribunale e di richiedere la separazione, ma non è certo ravvisabile un diverso diritto, dell’uno sull’altro, di imporre forzatamente le proprie pretese.
E’ interessante notare sotto questo profilo come, in più occasioni, la Corte di Cassazione abbia precisato che, seppure determinati tipi di rapporti o costumi sessuali particolarmente aperti, fino a giungere ad incontri con altri partner o a scambi di coppia e simili, non costituiscano alcun illecito, se vengono accettati o richiesti anche dall’altro coniuge, poi un successivo ripensamento di questi appaia assolutamente legittimo, nè sussista un diritto del coniuge a proseguire in determinate pratiche sessuali se, ad un certo punto, l’altro decida di interrompere.
Ciò indipendentemente da un mutamento psicofisico, ma anche semplicemente per una diversa manifestazione di volontà.

L’ATICIPITA’ DEI RAPPORTI FISICI – NULLA E’ VIETATO PURCHE’ VI SIA IL CONSENSO
Se si esaminano le sentenze di merito e di legittimità è pacifico come ormai manchi qualsiasi forma di censura relativamente alle modalità, al tipo ed alle caratteristiche dei rapporti sessuali di coppia.
La moralità fa sicuramente passi da gigante, complici i suggerimenti di internet che suppliscono alla mancanza di fantasia delle coppie.
Dalle sentenze emergono le situazioni più disparate, per non parlare di ciò che era oggetto delle sentenze dei magistrati ecclesiastici di qualche tempo fa: si va dal peccato “sicuramente mortale” di una ragazza che si siede sulle ginocchia del fidanzato (Mons. Bouvier – Manuale dei confessori 1837), ad acute dissertazioni sui rapporti sessuali in ascensore (Cassazione 10060/2001) alle galanterie di un elettricista che intratteneva sessualmente entrambe le sorelle (Cassazione 2012), al sesso di gruppo (quale motivo di addebito per entrambi Cass. Maggio 2004), fino all’utilizzo di animali nei rapporti sessuali (Trib. Bolzano 05/02/2010) per finire con pratiche sadomaso di gruppo (Corte Europea 17/02/2005).
Questa ultima decisione è di estrema importanza sia perché emessa a Strasburgo in ambito europeo consolidando un indirizzo ormai recepito dalla comunità internazionale, sia per la particolarità della fattispecie trattandosi di due cittadini belgi di cui uno magistrato sessantenne e l’altro un medico di cinquantasei anni che ricorrevano alla Corte Europea contestando la loro condanna nelle pratiche sadomasochistiche estreme con la moglie del magistrato, eccependo che fosse stato violato il diritto al rispetto della loro vita privata e che non sussistesse alcuna violazione del principio di legalità.
La Corte respingeva le censure, precisando che ciascun individuo può rivendicare il diritto di esercitare le pratiche sessuali che ritiene nel modo più libero possibile, purché però vi sia il rispetto dell’altra persona (nel caso in esame la vittima di tali pratiche ad un certo punto dei “giochi” si tirava indietro), costituendo tale obbligo di rispetto il limite alla libertà.
La Corte in sostanza non censurava la particolarità dei “giochi sessuali” (ove venivano usate secondo la dizione della sentenza, fruste, aghi, pinze, cera bollente, scosse elettriche, et similia), ma in quanto ad un certo punto era mancato il consenso della moglie del magistrato, pur se inizialmente consenziente.
Ogni pratica estrema e violenta, statuisce la sentenza, non è scriminata in quanto si esercita un diritto, ma viene censurata nei limiti della mancanza di disponibilità e di consenso della vittima.
Per la cronaca la Corte confermava la condanna del magistrato ad un anno di prigione ed € 2.500,00 di multa con sospensione per cinque anni dai Pubblici Uffici, mentre il medico riceveva una condanna ad un mese di carcere con la sospensione nonché ad € 185,00 di multa, entrambi i soggetti con la sospensione condizionale della pena.

NEL MATRIMONIO C’E’ IL DIRITTO ALL’ESCLUSIVITA’, MA NON IL DIRITTO ALLO STUPRO
Se dunque esigere rapporti sessuali in modo non gradito dall’altro partner o eccessivamente ripetitivo, oppure sottrarsi ai rapporti sessuali, può portare all’addebito della separazione, tutt’altro è il discorso se i rapporti fisici vengono imposti, oltrepassandosi facilmente i limiti del Codice Civile e finendo nelle previsioni del Codice Penale per maltrattamento o peggio configurandosi il reato di stupro.
La Cassazione in più occasioni ha confermato che, quando si forma una coppia, sia all’interno di un rapporto coniugale sia in un rapporto di convivenza, non è possibile obbligare l’altro ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.
In sostanza, se una delle due parti rifiuta di intrattenere rapporti sessuali e l’altro li pretenda, la soluzione non può essere la costrizione, bensì ovviamente la separazione.
La Corte Suprema infatti, relativamente ai reati contro la libertà sessuale, ritiene che integri la violazione dell’art. 609 bis Codice Penale qualsiasi forma di costringimento psichico o fisico, idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, a nulla rilevando l’esistenza di una rapporto di coppia coniugale o paraconiugale fra le parti, (qualcuno ha detto che finalmente la Cassazione ha ritenuto che la moglie avesse gli stessi diritti di una donna qualunque).
Ciò in quanto non esiste all’interno di tale rapporto un diritto all’amplesso, nè conseguentemente il potere di esigere una prestazione sessuale, né ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, ma li subisca, quando si provi che l’autore delle violenze e minacce poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la piena consapevolezza del rifiuto della stessa agli atti sessuali.
Anche di recente la Corte di Cassazione (22/07/ 11 n° 29514) è intervenuta in una questione che proveniva dalla Corte d’Appello di Milano la quale, a propria volta, aveva riformato la sentenza del Tribunale di Pavia con cui era stato condannato il marito per il reato di violenza sessuale, lesioni ed altro, alla pena di anni 4 di reclusione.
Il Pubblico Ministero aveva impugnato la sentenza, così come l’imputato. Quest’ultimo rilevava che, sussistendo un vincolo matrimoniale, era legittima la pretesa del marito di ottenere a suo piacimento, anche mediante l’uso della forza il soddisfacimento da parte della moglie delle proprie pulsioni sessuali, ciò quantomeno per superare la naturale ritrosia femminile.
Tuttavia la Corte Suprema con la sentenza suddetta rigettava le doglianze e confermava la sentenza di condanna ex art. 609 c.p.
Lo stesso orientamento nel configurare il grave reato di stupro è ravvisabile allorché, come si accennava, vi sia stato un mutamento dell’atteggiamento del partner, respingendo dopo una diversa disponibilità, determinati tipi di rapporti ai quali in precedenza aderiva (Cass. n° 27587/09).
Da ultimo fra le innumerevoli decisioni del magistrati, annoveriamo un caso particolarissimo di un pastore siciliano il quale era solito imporre, tra le altre violenze, i rapporti sessuali alla moglie, appena rientrato dal pascolo delle pecore, senza provvedere alla propria pulizia e bloccandole le mani per impedirle di difendersi.
Questi veniva imputato avanti al Tribunale di Caltagirone che, per le numerose prevaricazioni poste in essere, lo condannava nel 2007 a nove anni di reclusione, considerando sia i moltissimi episodi di violenza ed anche di violenza sessuale perpetrati, sia il lungo periodo, dal 1992 al 2006.
Successivamente la Corte d’Appello riduceva la condanna del pastore a due anni di reclusione, ritenendolo colpevole soltanto di maltrattamenti ed escludendo il reato della violenza sessuale, manifestandosi il dissenso della moglie solo con riferimento alla scarsa pulizia ed igiene del coniuge e non in opposizione al rapporto fisico in sé per sé.
Su ricorso della Procura della Corte d’Appello di Catania il caso approdava alla Corte Suprema di Cassazione la quale viceversa confermava la sussistenza dello stupro ripetuto, trattandosi sempre di rapporti imposti coattivamente e censurando la benevola decisione della Corte d’Appello, che non aveva tenuto conto delle sofferenze della donna.
Infatti la particolarità dei motivi del dissenso (inesistente pulizia e puteolenza), non eliminava assolutamente il valore del rifiuto della moglie la quale aveva dovuto subire per un periodo lunghissimo, con un pregiudizio rilevante, tutti i rapporti violenti   imposti con la forza dall’uomo.

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