Ritardi, truffe, traffici illeciti, speculazioni. La questione della bonifica dei siti inquinati in Italia, a distanza di più di dieci anni dal varo dell’altisonante programma nazionale (decreto ministeriale 468 del 2001) è un’intricata matassa di loschi affari e malgoverno in cui, a farci le spese, sono sempre e comunque i residenti delle zone vicine che continuano ad essere esposti ai veleni prodotti da un certo modo di fare industria.
Oltre 10.400 siti inquinati individuati dalle Arpa locali e censiti da Ispra Ambiente nel corso di quest’anno e appena 3mila le bonifiche effettuate sul territorio mentre è ancora tutto fermo per gli interventi sui grandi siti di interesse nazionale, i cosiddetti Sin che sono in tutto 57 e comprendono Marghera nella Laguna di Venezia, per intendersi, l’Ilva di Taranto, per la quale è intervenuta la magistratura, Bagnoli in Campania o Gela in Sicilia per un totale di sei milioni di residenti interessati. Circa il 10% della popolazione italiana ai quali vanno aggiunti anche quelli che vivono in altri siti inquinati non Sin che potrebbero fare lievitare il numero anche a 10 milioni di cittadini.
Nonostante tutto, non esiste, ad oggi, un inventario di quanti siano gli inquinanti da smaltire e di quali siano le aree da risanare sul territorio. Legambiente, nel suo rapporto La chimera delle bonifiche, stima per esempio che nella Laguna di Venezia ci siano circa 7 milioni di metri cubi di sedimenti da dragare, oppure che a Frosinone siano più di 100 le discariche incontrollate o ancora, che a Pieve Vergonte in Piemonte ci siano circa 600mila metri cubi di terreni contaminati da Ddt, arsenico e mercurio. Il quadro è frammentato e incompleto.
Le Regioni ritardatarie
Il complesso e farraginoso processo che porta a individuare gli interventi necessari per la bonifica di un sito inquinato, previsto dal dlgs 152 del 2006, sarebbe dovuto iniziare con il censimento delle zone da risanare affidato alle Regioni e alle Province autonome a cui spettava il compito di realizzare una vera e propria anagrafe dei siti inquinati. A distanza di sei anni, il processo non è stato completato e a oggi mancano ancora all’appello l’anagrafe di Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia e Lazio (che però registrano rispettivamente 548, 229 e 692 siti inquinati). Per l’Abruzzo, invece, non esistono proprio dati perché non è mai stata fatta nessun tipo di indagine a tal proposito.
«Uno dei problemi per questo tipo di indagine – spiega Laura D’Aprile, responsabile siti contaminati di Ispra – è la carenza di personale delle arpa regionali. I 15mila siti potenzialmente inquinati da passare al setaccio, vengono infatti gestiti da poco più di 2mila persone che sono i funzionari arpa preposti, in tutt’Italia alla vigilanza e al controllo».
Secondo i dati Ispra la Regione che ha un maggior numero di siti inquinati è la Lombardia (con 2.732 su un totale di 3.970 da vagliare); segue la Toscana (1.527 su 2.826); il Piemonte (868 su 1.315); la Calabria (698) e il Lazio (692). Tra tutti è sempre la Lombardia quella ha realizzato il maggior numero di bonifiche (1.238); segue la Provincia autonomia di Trento (351); l’Emilia-Romagna (331); le Marche (295) e la Toscana (257). In coda alla classifica ci sono il Molise e la Sicilia dove non si registra nessuna bonifica a memoria d’uomo. E questo nonostante la Sicilia abbia anche dei siti di rilevanza nazionale come Gela e Priolo. In Puglia, sede di ben due siti di interesse nazionale e di 298 aree accertate come contaminate, fino ad oggi è stata effettuata una sola bonifica. In Basilicata, dove ci sono 322 siti inquinati, gli interventi sono stati 3 interventi.
A maggior ragione non esiste un piano programmatico di interventi di bonifica sul territorio. Non si sa neanche quanto possa costare, in concreto, “ripulire” l’Italia da tutti questi veleni. «Si potrebbe stimare – spiega Giovanni Pietro Beretta, ordinario di idrogeologia alla Statale di Milano nonché responsabile della sezione tecnica della commissione parlamentare di valutazione degli investimenti in campo ambientale (Covis) – un costo complessivo di 30 miliardi di euro anche se non è facile dare delle cifre di massima. Gli interventi richiesti dalle varie situazioni sono tra i più disparati e il relativo costo può variare da 30mila euro per una semplice bonifica da carburante agli oltre 50 milioni di euro necessari, ad esempio, per risanare le due discariche di Pioltello-Rodano; fino ai circa 1,5 miliardi di euro ipotizzati per la bonifica dei 15 km quadrati dell’Ilva di Taranto».
Il quartiere del futuro
Si tratta di un giro d’affari incredibile che potrebbe avere ricadute positive sull’economia italiana ma che fino a oggi si è arenato sulle logiche dello scaricabarile tra le responsabilità del pubblico e del privato.
Il rischio però, è, che ad arricchirsi, siano gli stessi che hanno inquinato trasformando i piani di bonifica in un giro di loschi affari per imprenditori senza scrupoli. E gli esempi non mancano. Basti pensare al caso Santa Giulia a Milano, denominato quasi beffardamente, il quartiere del futuro, o al più recente scandalo della bonifica della Laguna di Grado e Marano per il quale, sono scattate, quest’estate le indagini della magistratura.
A Santa Giulia c’era una vecchia fabbrica della Montedison e uno stabilimento delle acciaierie Redaelli di Rogoredo. L’attività di bonifica è stata realizzata dagli imprenditori Zonin, prima, e Grossi poi (successivamente deceduto) che hanno rivenduto i terreni bonificati per la costruzione un quartiere residenziale. Tutta la faccenda è finita in una grande questione giudiziaria dai risvolti sia civili che penali perché la magistratura ha bloccato le opere di riedificazione dell’area perché non risultava ancora bonificata. «Tutto questo è potuto succedere – – spiega Edoardo Bai, responsabile del comitato scientifico di Legambiente Lombardia – perché per la legge i privati che si impegnano nelle bonifiche possono ottenere, su quelle stesse aeree il diritto a costruire dagli enti pubblici. Se da un lato si tratta di una specie di compenso per gli interventi di risanamento di fatto si traduce in un punto di debolezza per gli enti locali che sono mossi dalla necessità di bonificare il territorio».
Un giro d’affari nella Laguna di Grado e Marano
Il caso, più recente della Laguna di Grado e Marano, attualmente al centro delle indagini del pubblico ministero di Udine, descrive una macchina politico-amministrativa mangiasoldi che coinvolge più strutture e a vari livelli. In tutto 14 le persone indagate che, secondo l’atto di accusa del pm Viviana Tedesco, per 10 anni avrebbero documentato un grave inquinamento da mercurio del tutto inesistente. L’obiettivo, che avrebbe indotto a fare inserire la laguna nell’elenco dei Sin, era quello di accedere ai finanziamenti pubblici. Il reato principale contestato p quello di peculato (per 28,3 milioni di euro) nei confronti di Paolo Ciani, assessore all’ambiente della regione Friuli Venezia Giulia; Dario Danese, vice direttore centrale della stessa regione presso il ministero delle infrastrutture, Francesco Sorrentino , ingegnere capo del Genio civile di Gorizia oltre che Raffaele Greco e Lorenzo Passaniti, vertici della società di Vibo Valenzia Nautilus che nel 2003 aveva vinto l’appalto per la caratterizzazione del sito che avrebbe permesso di accertare il livello di inquinamento e gli interventi necessari.
Secondo le prove del pm, solo l’area industriale e una parte del Sin vicino all’Aussa-Corno era da bonificare mentre la perimetrazione dell’area fu gonfiata fino a 20 volte per un inquinamento dichiarato da mercurio quando in realtà si trattava di semplice cinabro, un minerale cristallino. Coinvolti gli ex commissari straordinari nominati per la gestione del sito i quali non solo non avrebbero segnalato le anomalie ai presidenti di regione ma avrebbero chiesto per 9 anni di seguito, dal 2002 al 2011, sistematiche proroghe dell’emergenza.
Nella spirale degli sprechi, i mancati interventi di bonifica, infine, producono a loro volta dei costi sociali che un ricercatore dell’università di Pisa, il professor Bianchi, ha quantificato sulla base di uno studio approfondito dei Sin di Gela e Priolo in Sicilia.
«Abbiamo applicato il metodo di valutazione costo-beneficio – ci spiega il professor Bianchi che stato da poco convocato in audizione dinnanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti proprio per esporre le sue teorie – alle due aree inquinate siciliane. Abbiamo stimato che il costo economico e sociale in termini di spese sanitarie a carico sia dei privati che del Ssn, derivate, per esempio, dall’incremento dei problemi di salute dei cittadini esposti e in termini di ridotta capacità produttiva delle persone, è stato di circa 10 miliardi di euro per le due aree complessivamente. Questa cifra ci da anche la misura del risparmio che si potrebbe ottenere nel caso in cui si facessero davvero le bonifiche. Un risparmio che sarebbe nettamente superiore ai costi sostenuti. In pratica bonificare conviene”.
In allegato:
Elenco Ispra siti inquinati in Italia
Studio Guerriero, Bianchi, Cairns e Cori su Gela e Priolo
Elenco Ispra siti inquinati
Studio Guerriero, Bianchi, Cairns e Cori su Gela e Priolo