C’è già una contraddizione intrinseca in questo titolo.
Come si può fare solo qualche accenno agli “obbrobri di oggi”, quando ci sarebbe da scrivere un’altra enciclopedia, oltre quelle alle quali ho già fatto riferimento, in senso traslato ovviamente, in altri miei interventi e scritti circa gli obbrobri di “ieri” e dell’ “altro ieri”?

La prima considerazione da fare sorge spontanea, come si suol dire, è un postulato, una affermazione dalla dimostrazione implicita o intrinseca se preferite: gli obbrobri di oggi sono la diretta conseguenza della mancata elaborazione critica degli obbrobri precedenti, che sono stati solo vagamente sorvolati o, più consistentemente, messi a tacere per quieto vivere, per noia, per inconfessabili interessi o, nella stragrande maggioranza dei casi, per ignoranza, per confronto falsato con la realtà.
E’ vero, imparare è difficile. Proprio per questo non si finisce mai di imparare.

Per forza di cose dobbiamo qui tralasciare, ma non metterne sotto un macigno la memoria, il nostro passato prossimo e meno prossimo: mi vengono in mente gli unici due bombardamenti atomici, che la storia ricordi, quelli degli Americani contro i Giapponesi, su Hiroshima il 6 agosto ’45 e Nagasaki, tre giorni dopo (gli Americani, in genere, arrivano in testa, in questi casi; parimenti lo sono stati nel genocidio di intere tribù autoctone in quelle che erano, a quei tempi, le Indie Occidentali, ma non lo negano); mi si accendono scintille nella mente (non è possibile di più qui), se penso alla stragismo, a piazza Fontana, a piazza della Loggia, all’aereo di Ustica, agli omissis e ai “non ricordo” di andreottiana matrice; ma ecco che già altre nefaste scintille, sinistri bagliori, si accendono nella mente di chi scrive, e certo anche di chi legge: il Cile, l’Argentina, il Viet-Nam, la Grecia, l’apartheid in Sud Africa,  il Medio Oriente e, in particolare, la Palestina, il Libano, la Giordania, così come Sarajevo, i Balcani in generale, le invasioni dell’Ungheria e della Cecoslovacchia e i soprusi, le violenze, i gulag del Regime Sovietico prima della sua caduta, preceduta dalla caduta del muro di Berlino il 9.11.1989, non dimenticando i soprusi di dopo, in primis del Regime Zarista di Putin, amnistia compresa; la Cecenia, la Palestina, la Libia, la repressione e ciò che ancora accade in Cina, l’Afghanistan, le guerre dimenticate dell’Africa subsahariana, e c’è dell’altro; qualcosa mi sfugge, ma non posso ignorare la disperazione di migliaia di uomini, donne, bambini che, dopo essere stati svenati da avventurieri che nulla hanno da invidiare ai mercanti di schiavi, affrontano l’attraversamento del deserto, in condizioni impossibili, in alcun modo monitorate, il passaggio di frontiere proibite, con modalità sconosciute, la traversata, forse senza neanche la bussola, di un mare, che si prende una quantità indefinita delle loro vite, per giungere infine (solo una minoranza, come appare evidente), ad una terraferma ostile e cinica, dove non ti sta a sentire nessuno, e quindi provi a cucirti le labbra con un gancio ricavato da un accendino, sperando che qualcuno ti stia, almeno, a guardare. Altrimenti che cosa farai? Ti cucirai, magari anche gli occhi.

E’ necessario che ci atteniamo, qui, strettamente all’ATTUALITA’, non si può fare altro, ma anche in tal caso, solo brevi cenni posso offrire al lettore perché la realtà dell’oggi degli obbrobri è vasta e invasiva e, nel momento stesso in  cui ne parlo, è già scavalcata da altre realtà.

“Nola, cronaca dall’eccidio” è il mio ultimo libro, di cui parlo spesso da qualche mese, in vari contesti, dato che occupa in modo diffuso e penetrante la mia mente, perché… chi sa perché! Forse perché racconta principalmente, appunto, dell’eccidio o strage di Nola, dell’11 settembre del ’43, uno degli orrori da non dimenticare, e sono già troppi, a tutt’oggi, 70 anni di sostanziale oblio; forse perché, pur essendo trascorso moltissimo tempo, per quello che accadde, il modo in cui accadde, le conseguenze dirette e devastanti che ne derivarono, è particolarmente toccante e inquietante; forse proprio perché riguarda, in modo particolare, anche (anzi, in un certo senso, soprattutto) la storia della mia famiglia d’origine, nonché mia, e trovo solo oggi, dopo circa 70 anni dai fatti, in essa un senso di riscatto; forse perché dà addirittura un senso, una ragion  d’essere alla mia vita, ma questa è, con tutta probabilità, una esagerazione emotiva.
Comunque ne parlavo, giorni fa, casualmente in un bar, proprio a San Marco dei Cavoti, il mio paese d’origine, con qualcuno, mentre prendevamo un caffè.
“Bada bene – mi ha detto il mio interlocutore, ad un certo momento – che in questo stesso momento in cui siamo qui a prenderci il caffè, altre stragi, altre brutali aggressioni, sono in atto in varie parti del Mondo. Non lo dimenticare mai.”
Questo mi ha fatto pensare che io stavo parlando ai fantasmi, ne ho ricavato lì per lì un senso di frustrazione e di angoscia; ma poi ci ho riflettuto sopra e ho realizzato che proprio perché non se ne era parlato quando, invece, se ne doveva parlare, erano diventati fantasmi quelli che avrebbero potuto ascoltare e interloquire.
Perché erano morti per cause naturali o per le vicende della vita? NO! La Morte avrebbe preso comunque, chi doveva prendere. In realtà era perché si era diffuso l’oblio, il disinteresse.

Questo stato di cose, allora, poteva riferirsi anche ad altri fatti più vecchi, contemporanei o successivi, e a quelli che io colloco in quello che chiamo, nel mio libro (pg.154), il grande piazzale dell’attualità, (dove) “una notte immensa e profonda di luna piena illumina i miei passi come una lanterna, mentre un pacifico e fidato geco s’avventura guardingo e scattante tra il Mare delle Tempeste e il Mare della Tranquillità, sul nitido riflesso d’un enorme frammento di cristallo incastonato tra antiche macerie, come una porta del tempo, qualcosa che sa di già visto altre volte”.
Non c’erano, quindi, fantasmi, o erano scomparsi, o potevano scomparire e io stesso avrei potuto fare in modo che essi scomparissero, e il loro posto fosse preso da persone reali, che avevano a cuore il proprio futuro e quello delle successive generazioni e l’affermazione dei valori, come la libertà, la giustizia, la solidarietà.

Recuperare la memoria, fermare il tempo dei ricordi, questa era la strada, gli strati della strada.
Ho allora ripreso negli articoli che poi ho scritto, negli appunti per i prossimi articoli, nelle commemorazioni delle singole ricorrenze, nei dibattiti o incontri ai quali ho partecipato o nelle previsioni di quelli ai quali parteciperò in futuro, tutto ciò che veniva classificato come “da dimenticare” ed era destinato ai fantasmi, e l’ho destinato a lettori, ascoltatori e contraddittori in carne ed ossa: risaliamo, allora a 70 anni fa, ed anche 71 o 72 anni fa (così è anche nel libro sopra menzionato), 69, 68 anni fa (“In giro per l’Italia” su GOLEM); c’è poi tutta la “terra di mezzo” fino a qui, al “grande piazzale dell’attualità”, dove, come ho preannunziato, potrà essere fatto solo qualche accenno (per i motivi detti, per non naufragarci dentro), ma almeno quello sì; e prima ancora, c’è il passato remoto delle guerre di occupazione e coloniali, che il nostro amato e disgraziato Paese, ha maldestramente praticato, collezionando obbrobri, fin dai primi tempi, fin dalla sua unificazione, rincarando, poi, in modo vistoso ed assurdo, la dose nell’epoca aurea del trionfo di tutti gli obbrobri, il Fascismo, al quale ancora oggi tributa omaggi la feccia del nostro Paese: quella sua parte più ottusa e retrograda, nella quale troviamo, ahimé, molti giovani (ma è colpa loro fino ad un certo punto. Non hanno conosciuto il Fascismo e chi avrebbe dovuto insegnare loro qualcosa, badava ad altro), che è, per fortuna, ancora (abbastanza) contenuta, ma suscettibile, da un momento all’altro, di esplodere grazie all’indifferenza e incoscienza che c’è in giro e, in particolare dilaga tra coloro che hanno in mano le sorti di questo Paese.

ITALIANI, BRAVA GENTE (il mio articolo reperibile su Internet in vari blog cercando “ITALIANI, BRAVA GENTE Alberto Liguoro”), è un titolo tormentato; assume un tono decisamente grottesco e sarcastico se rapportato al film omonimo di Giuseppe De Santis del 1965, che invece si riferisce ad un altro obbrobrio del Governo Fascista e dei suoi Vertici Militari, dove vittime sono oltre 229mila soldati italiani mandati allo sbaraglio sul fronte orientale, senza moderni armamenti, con divise obsolete e inidonee ad affrontare il rigido clima della steppa russa, male armati e foraggiati, che tuttavia si sono battuti da eroi, ricoprendosi di gloria, dal giugno 1941, alla  disfatta e alla rovinosa ritirata, dal fronte del Don, dall’11 dicembre 1942, al 31 gennaio 1943, lasciando sul campo 84mila perdite, tra morti, i cui resti (ma molti furono sepolti dalla pietà dei contadini russi) furono trovati con stracci sbriciolanti addosso e scarpe squassate o sostituite da bende, dispersi e prigionieri (10mila dei quali, furono successivamente restituiti all’Italia).

“Italiani, brava gente?” è anche il titolo del libro di Angelo Del Boca del 2005 – Neri Pozza editore, dove quel punto interrogativo esprime più di qualsiasi articolato commento: un resoconto capillare, di tutte o quasi, le nefandezze commesse dagli Italiani dall’Unità del nostro Paese, alla fine della IIa Guerra Mondiale, dove è precisato anche che “molti altri popoli si sono macchiati di imprese delittuose, quasi in ogni parte del Mondo; tuttavia, soltanto gli italiani hanno gettato un velo sulle pagine nere della loro storia ricorrendo ossessivamente e puerilmente a uno strumento autoconsolatorio: il mito degli «italiani brava gente», un mito duro a morire che ci vuole «diversi», più tolleranti, più generosi, più gioviali degli altri, e perciò incapaci di atti crudeli”.

Il mio articolo è in sintonia col libro di Del Boca. Il punto interrogativo è sostituito da una sorta di ironia o di autoironia, la cui dissimulazione è affidata al contenuto dell’articolo stesso.

Ed ora che è stata fatta tutta questa indispensabile premessa, dobbiamo fermarci per il momento, per tirare un po’ il fiato e per non appesantire in modo eccessivo il discorso.

A dire il vero, non è stato fatto neanche quel cenno che si era promesso, agli “obbrobri di oggi”, ma dopo tante riflessioni, collegamenti, esperimenti, ho imparato qualcosa; mi sono, definitivamente, reso conto che è semplicemente insensato muovere passi illudendosi di poter fare tabula rasa di tutto ciò che è passato. Non era quindi, nel modo più assoluto, possibile eludere tutto quanto è stato premesso.

Un po’ di pazienza. Vuol dire che bisognerà attendere la settimana prossima per avere un excursus degli “obbrobri di oggi”, allorché ci sarà, di certo, anche maggior completezza perché all’elenco di obbrobri o orrori, del quale già dispongo, con ogni probabilità altri se ne aggiungeranno.

*   *   *

Prima di chiudere questa parte, sento però l’imperativo categorico di dare contezza del mio operato, di dover rispondere ad una domanda virtuale che ha dell’ovvio.
Perché tutto questo? Perché mi sto “specializzando” in obbrobri, qualcosa di triste, di aspro? Mentre potrei puntare su qualcosa di più ameno, più distensivo.
Bene, credo che c’entri qualcosa che ha a che fare con la coscienza.
Un po’ la stessa situazione ritroviamo a proposito della catastrofi naturali, o le catastrofi procurate dall’uomo o le (più frequenti) catastrofi procurate dalla natura con la cooperazione dell’uomo (a parte quelle deliberatamente cagionate, con dolo e premeditazione, dal più feroce, sistematico e assiduo nemico della natura; il più feroce nemico di se stesso: l’Uomo).

Anche qui non potrò che essere estremamente sintetico, con molte omissioni: ricordo il ciclone Cleopatra che il 19 novembre 2013 ha messo in ginocchio la Sardegna, già predestinata, eppure non era il tifone Hayan che dal 2 all’11 novembre 2013 ha devastato le Filippine, né il tornado di giugno in Oklahoma, né l’uragano Katrina che il 29 agosto del 2005 rase al suolo New Orleans; come respingere, qui, dalla mia mente, le immagini dell’alluvione di Firenze del 4 novembre ’66, che appariva essere, ai miei occhi, allora giovanili, una catastrofe di proporzioni tali che mai più ce ne sarebbero state di simili al Mondo o, quanto meno, in Italia. Fu in quella occasione che i Governanti dell’Italia, introdussero sovrattasse e accise che poi non avrebbero più tolto; mentre il degrado ambientale è rimasto immutato.
Ricordo ancora il terremoto in Iran, in Emilia Romagna, l’esplosione della centrale atomica di Fukushima nel marzo del 2011, il terremoto ad Haiti del 2010, il terremoto di L’Aquila del 2009, fonte di grandi sghignazzate telefoniche per l’enorme acquisizione di appalti e relativi intrallazzi che comportava, con la benedizione del nostro Governo di allora; ma portabandiera in questo ambito è il terremoto dell’Irpinia dell’80 che fruttò al Paese anche una nuova classe politica corrotta e incapace; e poi ci sono i 160 morti e interi paesi distrutti, nel maggio del ’98, sotto il fiume di fango e detriti a Sarno e Quindici, tra le provincie di Avellino e Salerno, dove boschi secolari erano stati abbattuti per fare posto agli abusi edilizi approvati da pubbliche Amministrazioni criminali; lo tsunami del 26 dicembre del 2004 nell’Oceano Indiano (ma ritornerò su questo), Seveso (10.7.76), Chernobyl (26.4.86) provocò un disastro di proporzioni immani, ma anche la caduta di un Regime già morto in piedi; Exxon Valdez è il nome della petroliera che, il 23 marzo dell’1989, si incagliò nel Golfo dell’Alaska e dalla quale fuoriuscirono 42mila metri cubi di petrolio greggio, inquinando 1900 km. di costa; e ce ne sono di disastri meno conosciuti, ma altrettanto devastanti, anzi, forse per questo, per essere nel cono d’ombra, ancora più devastanti: c’è un’isola, questo tutti dovrebbero saperlo, ma soprattutto gli “allegri” frequentatori delle Grandi Crociere e gli altrettanto “allegri” organizzatori, nell’Oceano Pacifico, formata di oltre 3 milioni di tonnellate di rifiuti, in  particolare plastica, che si sono accumulati in decine di anni di vandalico scarico in mare e di disinteresse, col “favore” delle correnti, ed ha anche un nome: PACIFIC TRASH VORTEX. E’ la maggiore, ma non l’unica del suo genere, ed ha una grandezza, secondo alcune stime, maggiore della Penisola Iberica, secondo altre, degli Stati Uniti. Un supernuovissimo Continente?

Ci sarebbe dell’altro, ma qui mi fermo, e dico che dobbiamo interrogare la nostra coscienza, che deve darci risposte, come negli eccidi, le stragi, le distruzioni delle guerre di ogni genere, delle guerriglie, delle religioni, del controllo dei traffici, dell’imperialismo egemonico. Dobbiamo dimenticare, far finta di niente, disinteressarci, forse approvare aprioristicamente per interessi egoistici, mutare addirittura le carte in tavola, o interessarci, occuparcene, essere pronti alla dialettica e alle critiche?

In nessun caso abbiamo SOLUZIONI CERTE; non negli orrori o obbrobri “bellici”, così come non negli orrori o obbrobri “naturali”.
Potrebbe essere una delle soluzioni il movimento che nasce dalle tanto derise e vituperate correnti di pensiero di Nicholas Georgescu-Roegen, Serge Latouche, Maurizio Pallante ed altri? Non lo sappiamo.

Ma, di certo, dobbiamo saper rispondere in modo positivo e propositivo alle domande che qui si propongono.
Dobbiamo forse non dare peso al surriscaldamento della Terra? Ai problemi del depauperamento indiscriminato e selvaggio delle foreste, dell’inquinamento idrico ed atmosferico, eccetera?

Sono accaduti recentemente molti incidenti sciistici, tra cui quello capitato a Michael Schumacher non è neanche il più grave.
I fuoripista sono sempre stati (avventatamente) praticati. Come mai, negli ultimi tempi, provocano una serie indefinita di incidenti, e come mai tanti escursionisti e sciatori vengono travolti dalle valanghe?
E’ forse del tutto infondato chiedersi se, a seguito delle precipitazioni acide e della conseguente diversa consistenza della neve e della pioggia, oltre che della vegetazione al suolo, non siano mutate le condizioni di percorribilità dei luoghi interessati? Oppure verrebbero troppo disturbati gli interessi che ruotano attorno agli sport invernali?

Sapremo costruire dighe che non provochino altre sciagure come quella del Vajont del 9 ottobre del ’63?
O ce ne staremo a guardare la diga, confidando nella benevolenza di chi ci guarda dall’alto? Anche nel film “Inferno di cristallo” si invitavano ingegneri, costruttori e architetti ad operare con più oculatezza. Quello era un film, per quanto verosimile la storia raccontata. Nelle storie dei nostri “Vajont” invece c’è realtà degradata, ma soprattutto nella mente di chi dovrebbe occuparsene e porvi rimedio.

Nei prossimi terremoti, sapremo tener conto di quanto sopra si è detto circa i “terremoti all’italiana”? O dovremo prima morire nell’anima, se non nel fisico, di terrore, come è accaduto nel recente terremoto del 29 dicembre, per fortuna di non grave entità, tra il Molise e la Campania, dove la gente per strada era FORTEMENTE PREOCCUPATA, ma molto di più dagli avvoltoi che già si vedevano volteggiare indenni, anzi favoriti, nel loro farsi avanti, avvicinarsi per la “ricostruzione”, che non per la propria incolumità?

Riusciremo, prendendo spunto, semmai, proprio dall’ANNO che INIZIA, questo 2014 che si prospetta carico di incognite, ma forse anche di speranze, ad avere una parola d’ordine, un impegno da rispettare: “BASTA!”; basta con la memoria del pesciolino rosso, nella quale, più o meno incoscientemente e furbescamente, ci crogioliamo.
O dovremmo, forse, comportarci come quella turista italiana, piuttosto seccata e sicura del fatto suo, che, intervistata all’aeroporto di Roma, di ritorno anzitempo, suo malgrado, per ovvi motivi, da una sua vacanza alle Maldive, a fine dicembre del 2004, di fronte ad uno tsunami che aveva provocato 280mila vittime, oltre a distruzioni incredibili (ecco che ci ritorno), disse: “Non mi sono divertita per niente. Una vacanza da dimenticare”?

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