E’ il (mensis) Junius, il mese di Juno, di Giunone. Figlia di Saturno, sorella e sposa di Giove, sovrana degli dèi, dispensatrice di ricchezza, protettrice dei matrimoni e dei parti, invocata dalle donne nei giuramenti. Regina sul Campidoglio fin dagli inizi della Repubblica, governa le Calende di ogni mese e, moltiplicata in infinite Junones, costituisce l’equivalente femminile del Genius degli uomini. “Giugno la terra infiora come un amante ardito” (Ricci Signorini); suoi fiori sono il giglio, simbolo del candore, e il garofano: rosso, l’amore ardente; bianco, la fedeltà. L’iris gli attribuivano, nell’antico Giappone. Luna che ingrossa, Luna delle fragole, delle uova, della foglia color cupo: tutto questo è il mese in cui gioiscono gli uccelli canterini, un mese tutto fecondo che porta in dono l’estivo solstizio, le lunghe giornate di luce, l’attesa della mietitura, le vagabonde lucciole amorose, le improvvide cicale che s’estenuano in cori meridiani.

S’è detto, sopra, di infinite Junones. Qualcosa in più. Juno, di cui, invero, non si parla molto, è un’antica dea italica, simile nelle funzioni all’Era greca (sposa di Zeus) con la quale veniva identificata. Si tratta di una divinità strettamente connessa con la vita – soprattutto sessuale – delle donne. Da ciò il suo collegamento con la Luna. Conferma ne è, tra l’altro, il fatto che essa assimila una serie di divinità minori: Lucina (che fa vedere al neonato la luce del giorno; Opigena (che presta aiuto alle partorienti; Cinxia (numen del cinto della sposa; Iterduca (che porta la sposa nella nuova casa) e parecchie altre figure dello stesso genere (dee che, in qualche modo, assistono le donne).

Il nume che protegge le donne e le loro funzioni ben poteva essere considerato, ab origine, sia come manifesto in ciascuna singola donna, sia come grande “serbatoio” di potere divino cui tutte le donne attingevano. E queste due concezioni hanno dato luogo, rispettivamente, alle Junones individuali, ma anche alla grande dea. Perché, in effetti, Giunone assume, col tempo, funzioni sempre più ampie, divenendo una grande dea dello Stato. Ciò specialmente a Lanuvio, dove era venerata come Sospita o Sispes (salvatrice, liberatrice) e veniva rappresentata armata di asta e scudo, vestita con una pelle di capra ed una tunica doppia e scarpe a becco.

Il suo culto fu trasportato a Roma e, sotto i re etruschi, in qualità di Juno Regina, componeva la triade capitolina insieme a Giove e a Minerva. Altro titolo di Giunone era quello di Caprotina, derivato dalla festa rituale delle Nonae Caprotinae (che, peraltro, si celebravano il 7 luglio), cioè le Nonae del fico selvatico (caprificus), sotto il quale le schiave (cui veniva permesso, per l’occasione, di vestirsi da donne libere) simulavano un combattimento con pietre ed altro, insultandosi. Nella cerimonia gli studiosi vedono la traccia di un più antico rito di fecondità (succo del fico = latte?). A Juno Caprotina veniva sacrificata una capra (o un altro animale).

La dea, ancora, veniva detta: Moneta (che ammonisce); Veridica (che dice il vero); Pronuba (protettrice delle nozze); Matrona (protettrice delle donne sposate); Dolichena (in piedi su un cervo) ; Covella (Luna Nuova, dea del calendario); Fidelis (fedele al marito); Coniugalis (protettrice dei matrimoni); Coelestis (facile l’interpretazione); Virgo. Animale alla dea collegato, il pavone.

Narra Fedro: Un pavone sopportava a malincuore la sua voce e lodava spesso quella dell’usignolo. Mentre l’uccellino cantava nel bosco, il pavone, di nascosto, lo ascoltava e voleva imitare la sua soave voce. Infatti, quando il superbo pavone cantava davanti agli altri uccelli, la sua voce era sempre stonata e sgraziata e pertanto tutti lo deridevano. Allora quello, avendo spesso sopportato ingiurie, andò da Giunone deplorando la sua ingiusta sorte: l’usignolo, per la dolcezza della sua voce, era ammirato, mentre quando il pavone, re degli uccelli, cantava, muoveva tutti al riso. La regina degli dei, ascoltate le sue lamentele, volle consolarlo e lodò grandemente la sua bellezza. Ma il pavone le rispose: non mi rallegro della mia muta bellezza, quando vengo irriso da tutti per la mia voce stonata. E Giunone, irritata dalla caparbietà del pavone, disse: la Natura ha dato agli animali delle doti; al pavone il bell’aspetto, all’aquila la forza, alla volpe l’astuzia, al cane la fedeltà, all’usignolo una voce soave. Tutti gli animali sono contenti delle loro doti e le tue lamentele sono inutili. Vattene se non vuoi perdere la tua bellezza.

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