La strada intrapresa appare come quelle più impervie ma, per ora, Renzi e il suo Governo non sembrano intenzionati a fare marcia indietro:  «Piaccia o non piaccia il governo intende andare fino in fondo. E’ il modo di fare la pace con gli italiani» ha dichiarato il Presidente del Consiglio mercoledì durante una visita in Calabria annunciando la sua “rivoluzione” della pubblica amministrazione.

Facile a dirsi ma difficile a farsi come dimostra la storia degli ultimi anni: da Mario Monti a Enrico Letta, tutti coloro che hanno cercato di arginare lo strapotere della burocrazia di Stato sono stati trascinati in una palude fatta di ricorsi, cavilli amministrativi e difficoltà tecniche di ogni genere. Il caso è scoppiato in settimana dopo l’annuncio di Renzi riguardo la volontà, da parte del Governo, di tagliare gli stipendi dei manager pubblici per ritrovare un minimo di giustizia sociale perché «non è possibile che l’amministratore delegato di una società guadagni 1.000 volte in più dell’ultimo operaio». Le grida di protesta del mondo dei super manager di Stato si sono subito sentite forti e chiare attraverso le parole di Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie che, rispondendo ad una domanda dei cronisti, ha dichiarato: «Lo Stato può fare quello che desidera: una buona parte di manager andrà via, lo deve mettere in conto». Una profezia che vale innanzitutto per se stesso, come ha subito specificato il sessantunenne manager di Trenitalia spiegando la situazione dal suo punto di vista: «Io prendo 850mila euro l’anno, il mio omologo tedesco ne prende tre volte e mezzo: siamo delle imprese che stanno sul mercato ed è evidente che sul mercato bisogna anche avere la possibilità di retribuire per poter fare sì che i manager bravi vengano dove ci sono imprese complicate e dove c’è del rischio ogni giorno da dover prendere». Un Presidente della Repubblica oggi guadagna circa 250mila ero l’anno e Renzi vorrebbe equiparare al suo stipendio tutti i guadagni annui dei manager e dei massimi funzionari di Stato ma, secondo Moretti «il fatto che uno che gestisce un’impresa che fattura oltre 10 miliardi di dollari l’anno, come la nostra, debba stare al di sotto del presidente della Repubblica è una cosa sbagliata». Peccato però che Ferrovie dello Stato non sia esattamente un’azienda privata e lo stesso Moretti non sia esattamente uno che si è fatto strada sgomitando fra la concorrenza, anzi.

Moretti e il capitalismo all’italiana
Moretti nasce sessantuno anni fa a Rimini e nel 1978 entra in FS iniziando la scalata che lo porterà a diventare amministratore del gruppo nel 2006 grazie anche al suo ruolo di sindacalista Cgil che lo vede arrivare all’incarico di segretario generale della sezione trasporti.
Una carriera all’ombra del sindacato e della politica più che nell’”arena” del mercato, tanto è vero che la sua minaccia di abbandonare l’unica azienda che abbia mai conosciuto non ha destato particolari timori. Dal ministro Lupi fino all’imprenditore Diego Della Valle molti sono intervenuti per rassicurare Moretti che nel caso in cui decidesse di rassegnare le dimissioni dal gruppo FS: nessuno si strapperebbe i capelli. Se è vero che i manager delle ferrovie tedesche guadagnano il doppio del loro omologo italiano , Moretti dimentica di ricordare che questa circostanza riguarda tutti gli impiegati delle ferrovie teutoniche, dai quadri fino all’ultimo degli operai. Se poi i conti durante la sua gestione sono migliorati, il servizio agli utenti è decisamente peggiorato: prezzi dei biglietti alle stelle e tagli indiscriminati alle corse regionali con somma disperazione dei pendolari. Pochi insomma sono disposti a prendere le difese di Moretti e degli altri supermanager che, mentre il Paese sprofondava nella crisi economica più nera della sua storia unitaria, hanno addirittura aumentato i propri profitti personali. Eppure il tentativo di arginare lo strapotere economico e amministrativo dei boiardi di Stato è incorso da almeno tre anni, da quando Monti, nel 2011, provò ad inserire un tetto agli stipendi d’oro con una norma del decreto Salva Italia: «il trattamento retributivo percepito annualmente (…) non può superare il trattamento economico annuale complessivo spettante per la carica al Primo Presidente della Corte di Cassazione», si legge nel decreto attuativo della norma. Il presidente della Corte di Cassazione guadagna più o meno 300mila euro l’anno, tuttavia la norma voluta da Monti si è impantanata in una selva di difficoltà tecniche, burocratiche e amministrative, tant’è che, a tre anni dall’approvazione della norma, essa è stata applicata sono in un paio di casi a fronte delle 7.411 società pubbliche. Eppure secondo l’Ocse, i manager della pubblica amministrazione centrale italiana sono i più pagati in assoluto, con uno stipendio medio di 650 mila dollari annui mentre la media Ocse è di 232 mila dollari.

La casta nascosta
Se è vero che con le privatizzazioni e le quotazioni in borsa gli stipendi dei manager pubblici si sono dovuti adeguare a quelli del settore privato, è pur vero che le partecipate statali non hanno mai seguito realmente le leggi di mercato, tant’è vero che negli ultimi anni tanti manager (non è il caso di Moretti) hanno potuto ottenere bonus milionari ,nonostante avessero letteralmente dissanguato le società pubbliche di cui erano alla guida. Da questo punto di vista quindi in Italia non c’è mai stato un vero capitalismo perciò ben venga la circolare attuativa del ministro Madia che in queste ore specifica «Nella circolare rendo esplicito che in questo tetto, ora tarato sul primo presidente di Corte di Cassazione, facendo riferimento ad una norma del governo Letta, debbano essere cumulati anche tutti i trattamenti pensionistici, compresi i vitalizi». Di certo è un passo importante per riuscire finalmente a mettere in pratica la legislazione varata dai precedenti governi, tuttavia non è ancora sufficiente. Un vero e proprio potere parallelo è cresciuto infatti negli ultimi vent’anni all’ombra della prima fila dei politici. Manager di società pubbliche, capi di gabinetto, alti funzionari dei ministeri che, mentre i governi cambiavano repentinamente, hanno attraversato indisturbati gli ultimi vent’anni della storia italiana mantenendo ben salde le leve del potere con stipendi altissimi e un potere amministrativo enorme di cui l’opinione pubblica è quasi del tutto ignara. Così pochi si rendono conto che i capi di gabinetto dei ministeri non cambiavano da anni con la conseguenza che il loro potere, consolidato nel tempo, è pari a quello di un ministro. Eppure quasi nessuno conosce i nomi e i volti di questi boiardi di Stato né è informato sui loro compensi. Ma come è potuto accadere? Come si è arrivati alla nascita di un “governo ombra” permanente nei palazzi del potere? La causa è da ricercare nei cambiamenti avvenuti nel mondo dopo il disgregarsi dell’Unione sovietica nel 1991 e la conseguente fine della “Guerra Fredda”: rimasta l’unica vincitrice sul campo di battaglia della storia, l’economia di mercato ha imposto le sue regole e ha preso la strada del liberismo più sfrenato spingendo, con forza, lo Stato fuori dalla gestione dell’economia del Paese. A questo punto l’amministrazione dello Stato avrebbe dovuto ridursi di pari passo con la riduzione delle sue competenze, invece essa è rimasta intatta, ferma ad occuparsi della sfera amministrativa, invadendola e cavillando su ogni legge e su ogni riforma varata dal parlamento: se è vero che il passaggio legislativo nelle due camere rallenta il processo decisionale, i successivi passaggi attuativi e burocratici paralizzano ogni azione legislativa. Un mondo quasi sconosciuto fino ad ieri e che oggi sta emergendo perché la crisi costringe l’Italia a grattare sotto la superfice e a riformarsi profondamente. Una riforma seria della P.A. potrebbe garantire risparmi consistenti, senza contare il valore aggiunto generato da una maggiore efficienza dei servizi erogati. Forse l’errore degli ultimi anni è stato quello di puntare l’attenzione solo ed esclusivamente sugli sprechi della politica e sulle malefatte dei suoi protagonisti. Certo la moralità dei singoli in politica è importante e va pretesa ma non sposta di una virgola la situazione di difficoltà economica in cui vivono gli italiani. Molti scandali scoppiano, ormai, per peculati da poche centinaia di euro, con inchieste che costano più della somma da recuperare: l’antipolitica così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi ha fatto il suo corso ed è il momento di cercare più in profondità le leve di un cambiamento in grado di invertire la rotta del naufragio collettivo.

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