18 APRILE 2008 – I rifiuti della Campania sono stati lasciati in eredità dal governo Prodi al prossimo governo Berlusconi. A consegnare il pacco regalo (più “pacco” che regalo) ci penserà il supercommissario per l’emergenza rifiuti in Campania, il prefetto Gianni De Gennaro, che nominato a gennaio dal premier di centro sinistra, sarà in carica ancora per un paio di settimane.

Poi, restituirà Napoli e la Campania a Sua Maestà la spazzatura: del programma strutturale per uscire dall’emergenza (un’emergenza strategicamente tenuta in vita da quasi quindici anni) che aveva delineato Romano Prodi a gennaio scorso, infatti, non c’è più traccia e non si è neppure cominciato. D’altronde, non poteva essere diversamente: la crisi di governo prima e le elezioni poi, hanno consigliato, come sempre, di rimandare tutto a chi verrà dopo.
Silvio Berlusconi, dal canto suo, ha già annunciato che “il primo Consiglio dei ministri si terrà a Napoli” per sottolineare l’impegno che il governo vuole garantire per affrontare in modo sistematico il problema dei rifiuti.
Un problema che non è soltanto di Napoli e della Campania: la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la settimana scorsa, ha condannato l’Italia per aver violato la direttiva comunitaria sulle discariche e la gestione dei rifiuti.  Accogliendo il ricorso avanzato dalla Commissione europea nel luglio del 2006, i giudici del Lussemburgo hanno contestato a Roma la «mancata conformità» delle norme sulle discariche approvate nel 2003 rispetto alla direttiva Ue del 1999, che impone agli Stati membri di elaborare una strategia nazionale per la riduzione dei rifiuti, introduce regole sui costi dello smaltimento, prevede la procedura di autorizzazione di nuove discariche e sottopone quelle preesistenti a misure particolari con l’obiettivo di tutelare la salute umana e l’ambiente. 
Ma chi aveva approvato nel 2003 quelle norme che sono state giudicate fuorilegge dall’Europa? Il governo Berlusconi di allora. Per la serie: speriamo che l’impegno di oggi porti a risultati migliori. Ma stiano tranquilli i sostenitori del governo Prodi: ce n’è anche per loro, nella condanna dell’Europa. Se è vero che le regole del 2003 erano sbagliate, è anche vero che nessuno, dopo ha avuto voglia di cambiarle, nonostante gli avvertimenti che erano stati notificati dall’Unione al governo di Roma.
L’esecutivo comunitario aveva portato il caso sul tavolo dei giudici del Lussemburgo criticando il tardivo recepimento e la non completa applicazione della normativa comunitaria. Tra il 2001 e il 2003 infatti l’Italia, come se nulla fosse successo, ha continuato ad autorizzare  la creazione di nuove discariche applicando criteri meno stringenti –  previsti dalle norme preesistenti – rispetto a quelli dettati dall’Ue. Ecco perché ora il Tribunale del Lussemburgo ha condannato il Paese a pagare le spese.
Oltre alla beffa (dei rifiuti che continuano a soffocare la Campania), il danno della sentenza comunitaria non è l’unico: da quasi un anno, ormai, le immagini della spazzatura di Napoli fanno il giro del mondo, diventando poco alla volta più famose del panorama sul golfo con il pino marittimo, degli scavi di Pompei e della Cappella Sansevero. I turisti si sono dimezzati, il commercio è in crisi (ma, per carità, non nominiamo un commissario straordinario per l’emergenza turistica e commerciale), la città si è rassegnata ad una dimensione di costante precarietà.
Il miracolo di De Gennaro non ha funzionato come quello del quasi omonimo San Gennaro: in 120 giorni avrebbe dovuto ripulire le strade di Napoli e, soprattutto, quelle della provincia e del casertano che, con Napoli, è il territorio più colpito dal disastro. Sono stati sottoscritti accordi con la Germania, dove prima emigravano solo camorristi e boss della ‘Ndrangheta, che si prende – a caro prezzo: oltre 350 lire al chilo più le spese di trasporto – i rifiuti napoletani e sostituisce così quelle discariche che, in Campania, scoppiano per la quantità di spazzatura – anche fuorilegge – che nel corso degli anni è stata sversata. Alcune tonnellate sono state spedite in qualche altra regione d’Italia (nonostante le proteste degli abitanti) e molte altre sono state raccolte, compattate nelle cosiddette ecoballe, e stoccate (si scrive così in gergo tecnico ma si legge “abbandonate”) in sterminate distese di cubi di rifiuti accatastati a piramide che hanno ricoperto centinaia di ettari di campagne (campagne anche queste abbandonate, è chiaro, ma non basta a consolarsi). Terreni spesso privati: con i proprietari sono stati sottoscritti contratti di deposito. Un tanto al chilo, per ogni giorno, che moltiplicato per mesi e anni fa una rendita vitalizia. E poi si dice che in Italia non riusciamo a trasformare i rifiuti in reddito.
Mobilitando l’esercito e la protezione civile il superprefetto addetto ai rifiuti ha ripulito, almeno in parte, le principali strade di Napoli e della Campania e sta riuscendo a fare fronte alla produzione giornaliera in modo che non si ammassi di nuovo nelle piazze e sui marciapiedi. Ma è una danza sul vuoto, è come la massaia che per fare in fretta mette la polvere sotto il tappeto. Appena il commissario De Gennaro andrà via, tra una quindicina di giorni, tutto ritornerà come prima. Basterà aspettare un paio di mesi. Per giunta ci troveremo in estate, dove qualunque emergenza rifiuti è aggravata dal caldo e dall’aumento del rischio infezioni.
Per porre rimedio al disastro non basta ripulire le strade: i cumuli di rifiuti non raccolti sono la conseguenza, non la causa dell’emergenza. A sua volta l’emergenza è una conseguenza delle scelte sbagliate o, peggio, affaristiche, degli ultimi trent’anni. E gli interventi strutturali, promessi da Prodi e comunque non realizzati, non vanno certo in direzione diversa: l’ex presidente del Consiglio aveva annunciato che sarebbero stati costruiti entro due anni tre termovalorizzatori. Questo era il punto qualificante del suo piano. Obiettivo peggiore non potrebbe esserci: i termovalorizzatori tra quattro anni saranno esclusi dalle agevolazioni previste dalle norme dell’Unione Europea. La Comunità infatti ha incentivato per vent’anni i termovalorizzatori (all’inizio si chiamavano inceneritori e in Campania il primo appalto per realizzarne due risale agli anni Settanta, quando furono arrestati assessori e imprenditori per un giro di mazzette e non se ne fece più nulla spingendo sulle discariche che garantivano maggiori affari) avvertendo che si trattava di una soluzioni transitoria, in attesa di mettere a punto la tecnologia necessaria per uno smaltimento “intelligente” dei rifiuti, costituendo consorzi di recupero e riciclo per plastica, vetro, metalli, legno, carta, gomma e impianti di compostaggio per tutta la parte organica da trasformare in concime. In questo modo invece di pagare per smaltire i rifiuti, i consorzi di recupero pagano per ritirarli e gli impianti di compostaggio vengono pagati per vendere concime. In alternativa si possono prevedere impianti di biogas per lo smaltimento dei rifiuti organici e la produzione di energia pulita. In un modo o nell’altro la condizione necessaria è separare la parte “secca” (plastica, metalli, vetro eccetera) dalla parte umida.
Questo è l’obiettivo dell’Unione europea e perciò chi continua a puntare sui termovalorizzatori si vedrà in un primo tempo ridotti i finanziamenti necessari a costruirli, e in un secondo tempo addirittura condannato perché prosegue a utilizzare una tecnologia inadeguata. Il conto alla rovescia è già cominciato e nel 2012 per i termovalorizzatori verranno chiusi i rubinetti dei finanziamenti. E la ragione c’è: un termovalorizzatore per funzionare ha bisogno anzitutto che i rifiuti vengano divisi in parte secca (cioè plastica, imballaggi, vetro e così via) e parte umida (cioè alimenti e materiali organici). La parte secca viene compattata, pressata e quindi bruciata. Bruciando si trasforma: 50 per cento circa in energia termica (che serve per muovere macchinari, riscaldare, far girare centrali elettriche) e l’altro 50 in cenere che deve comunque essere portata in discarica. Durante l’incenerimento l’impianto deve essere dotato di filtri sempre efficienti per evitare che vadano a fine nell’aria – e ricadano su animali, campagne e persone – sostanze chimiche come la diossina sprigionate dal calore. Oltre al 50 per cento dei rifiuti, sebbene ridotti in cenere, provenienti dai termovalorizzatori, questo sistema porta nelle discariche anche tutta la parte organica (che contiene molti liquidi e dunque non serve per produrre calore perché i liquidi evaporano senza alcun vantaggio per l’energia termica). Si tratta di una parte umida che non serve nemmeno per fare concime: è stata separata dal resto con una macchina (l’impianto di cdr: combustibile da rifiuto) che non riesce ad evitare che nei rifiuti organici finisca anche quella parte secca composta da tappi di bottiglia, pezzi di vetro, cartoni spezzettati, piccole parti metalliche e così via.
Dal momento che ogni cento chili di rifiuti sono composti, in media, da 70 chili di organico e 30 di secco, vuol dire che con i termovalorizzatori, oltre a produrre gas velenosi, si produce energia termica equivalente a 15 chili di spazzatura e tutto il resto si porta in discarica. Impossibile? Proprio così invece, parola di Francesco Moccia, un imprenditore che fino ad una decina di anni fa ha gestito la raccolta e il trasporto dei rifiuti per oltre un milione e mezzo di abitanti in Campania (la sua azienda, la Ecoltech, con mille dipendenti ha chiuso perché uno dei soci, minacciato dalla camorra, dopo aver inutilmente denunciato le minacce, aveva pagato il pizzo ed era stato per questo accusato di favoreggiamento: nonostante l’assoluzione, scontata, la società si è vista bloccare tutti gli appalti dalla prefettura).
Ecco perché l’Unione europea ha annunciato fin d’ora una sorta di moratoria sui termovalorizzatori. Questo significherà, spiega Angelo Bruscino, della società campana Ecologia Bruscino che si occupa di trattamento dei rifiuti e recupero dell’ambiente, che gli imprenditori privati non avranno più alcun interesse a partecipare alle gare d’appalto per la costruzione dei termovalorizzatori e, soprattutto, non avranno più alcun motivo per accettare la gestione di questi impianti. Ai vantaggi non eccezionali della termovalorizzazione, infatti, va aggiunto l’altissimo costo di gestione degli impianti che sono come un altoforno di un’acciaieria: i consumi necessari a raggiungere le temperature giuste si sommano alle spese di manutenzione e alla necessità di tenere i bruciatori sempre accesi perché costerebbe di più spegnerli e riaccenderli.
Sarà per questo che all’unico termovalorizzatore della Campania, quello di Acerra, in costruzione da più di dieci anni, ora i lavori sono fermi perché le imprese appaltatrici si sono ritirate dall’incarico. Altro che tre termovalorizzatori… non ce ne sarà neppure uno. Nonostante l’accordo “blindato” sottoscritto con la regione Campania grazie al governatore Antonio Bassolino, secondo il quale le società di gestione dell’inceneritore venivano pagate per ricevere i rifiuti da bruciare (dopo che le aziende municipalizzate di raccolta e smaltimento li avevano separati a loro spese) e venivano pagate di nuovo per vendere l’energia termica prodotta da quei rifiuti.
Se questo è il ciclo dei rifiuti in Campania, sottolinea Moccia, si comprende subito che il punto debole sono le discariche. Ormai piene, riempite in anni di mancanza di strategie alternative e in seguito alle autorizzazioni rilasciate dagli amministratori pubblici a sversare in Campania rifiuti urbani provenienti da diverse regioni d’Italia (autorizzazioni spesso concesse negli anni scorsi ai proprietari delle discariche in cambio di tangenti), le discariche non possono più ricevere né le ceneri dei termovalorizzatori, ammesso che esistano, né la parte organica inquinata dalla parte secca che non può essere trasformata in concime. Il risultato è che gli impianti di cdr, che separano le due parti e trasformano la spazzatura in eco balle in parte da bruciare e in parte da portare direttamente in discarica, non possono lavorare. Dunque la raccolta si ferma ed ecco le strade piene di rifiuti. La soluzione di portare tutto in Germania, o dovunque altro, è solo provvisoria sia perché costa troppo sia perché anche gli altri Stati ad un certo punto dicono basta.
E’ evidente che una situazione così complessa non può essere risolta semplicemente ripulendo le strade. Il prefetto De Gennaro lo sa bene, ma è anche vero che nessuno gli ha chiesto di fare altro.
Per avviare a soluzione il problema (della Campania, ma anche di altre regioni d’Italia che sono in condizioni simili anche se meno drammatiche) bisognerebbe anzitutto realizzare un termovalorizzatore per disfarsi del milione di tonnellate circa di rifiuti depositati in giro per la regione, poi – per quelli che vengono raccolti di giorno in giorno – cominciare dividere la parte secca in modo da poterla vendere ai consorzi di recupero.
Non basta la raccolta differenziata: la carta, ad esempio, va divisa tra carta patinata e carta semplice, cartone e cartoncino, carta fotografica e carta ordinaria. Il vetro tra verde, bianco, marrone e azzurro. La plastica tra Pet (la plastica per alimenti) e Pvc (quella industriale). I metalli tra ferrosi, non ferrosi e leghe. I medicinali e le batterie vanno raccolti a parte, per non parlare degli elettrodomestici e dei mobili in truciolato pieni di resine e colle chimiche. Questo, sempre per restare ai rifiuti urbani (quelli industriali, tossici, pericolosi, chimici o addirittura radioattivi sono un’altra cosa e non c’entrano nulla con l’emergenza rifiuti, ma con i traffici illeciti delle ecomafie, che certo non si servono né delle discariche né dei servizi di raccolta).
Per raggiungere questo obiettivo, spiega sempre Francesco Moccia, bisogna moltiplicare gli impianti di selezione: nastri trasportatori dove, a mano, personale specializzato separa i vari materiali. Prima di arrivare alla selezione bisogna spiegare ai cittadini che non serve differenziare carta, vetro e metalli, genericamente. In questa fase sarebbe più conveniente raccogliere tutto il secco insieme, per poi procedere alla separazione, e tutto l’organico insieme. In questo modo si avrebbe materia prima da vendere ai consorzi e rifiuti umidi da trasformare in concime con gli impianti di compostaggio, o in biogas, da vendere a loro volta. I consorzi per ogni chilo di plastica Pet, ad esempio, pagano 350 lire, per ogni chilo di carta 230 lire circa (i calcoli sui rifiuti sono ancora in lire per comodità perché l’unita di misura è il chilo e la valutazione in euro obbligherebbe all’uso di troppi decimali).
In pratica, invece di pagare 360-390 lire al chilo per bruciare rifiuti e portarli in discarica, se ne ricevono in media 350 per consegnarli ai consorzi.
Nei quindici anni di strategia dell’emergenza sono invece state create centinaia di aziende pubbliche (con migliaia di dipendenti, in tutto 12mila contro i 4mila della Lombardia: chissà chi ha gestito le assunzioni…) alle quali sono affidate la raccolta, il trasporto e le discariche un tempo di proprietà privata. Basti dire, ad esempio, che dieci anni fa l’isola d’Ischia impiegava 90 persone per la pulizia delle strade, la raccolta dei rifiuti e il trasporto nelle discariche. Oggi lo stesso lavoro è affidato a 340 persone. Dieci anni fa costava 5 milioni di euro l’anno, oggi circa 24 milioni.
Quindici anni di emergenza che hanno prodotto, oltre a montagne di rifiuti, inchieste e processi. L’ultimo dei quali vede imputato anche il presidente-governatore Antonio Bassolino.
Nessuno però ha proposto (o imposto) in questi anni altre soluzioni che non fossero un impianto di termovalorizzazione mai finito, impianti di cdr che non sanno più dove depositare le eco balle e contratti miliardari per lo stoccaggio su suoli privati o per il trasporto in giro per il mondo.
Questo è lo scenario che farà da sfondo al primo consiglio dei ministri a Napoli. Chissà se al secondo atto si riuscirà a cambiare la scenografia.

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