Modificare l’articolo 66 della Costituzione in modo da attribuire ”ad un giudice indipendente e imparziale” la decisione su legittimità dell’elezione, ineleggibilità e incompatibilità, togliendolo al Parlamento: è quanto propongono i saggi nella loro relazione al Capo dello Stato, consegnata oggi, sottolineando che il sistema attuale comporta il rischio ”del prevalere di logiche politiche”.
Potrebbe apparire una modifica marginale, rispetto al complessivo riassetto dei poteri costituzionali prefigurato dai “saggi”: eppure la proposta va al cuore di un problema che attiene alla struttura stessa del nostro sistema istituzionale.
Non si vuole qui addurre l’ampia congerie di dubbi sull’imparzialità1 della decisione dell’organo politico – più volte sollevati anche in tema di conformità all’articolo 6 § 1 CEDU2 – né citare i ricorrenti rilievi sulla tempestività del suo esame3. Ci si limita a ricordare che a tali dubbi diede voce uno dei punti più qualificanti enunciati – al termine dell’attività di monitoraggio internazionale condotta dagli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) – nel rapporto dedicato alle elezioni parlamentari italiane del 9-10 aprile 2006: “Fatta salva la base costituzionale per la procedura esistente di reclamo, il nuovo parlamento dovrebbe considerare di introdurre misure atte a risolvere le controversie elettorali in modo imparziale e puntuale, compresa la possibilità di ricorrere in appello ad un tribunale4. L’invito fu disatteso, prestandosi così a confermare i dubbi in ordine all’esistenza di una vera e propria giurisdizione del «fatto compiuto»5 che, in una vastissima parte della dottrina, vede la verifica dei poteri di esclusiva competenza parlamentare un retaggio di altre epoche, abbandonato da oltre un secolo nella stessa patria del parlamentarismo moderno.
L’attuale passo avanti dei “saggi” corrisponde ad una serie assai vasta di proposte parlamentari finora mai esaminate (tra le tante quella del senatore Manzione n. 1869 della XV legislatura e, nella XVI, quelle n. 1971 del senatore Sanna, n. 1179 del senatore Zanda, n. 893 del senatore D’Alia, n. 862 del deputato Pisicchio e n. 444  del deputato Zaccaria, oltre all’articolo 3 del disegno di legge n. 2818 del senatore Follini), anche se non prende una posizione netta su quale sia il giudice imparziale cui attribuire la competenza. Nei citati testi presentati in Parlamento, invece, prevaleva la scelta di lasciare impregiudicata l’attività ordinaria di convalida – di spettanza delle Camere esattamente come per ogni altra assemblea elettiva – affidando l’intera materia del contenzioso in materia di ineleggibilità, decadenza ed incompatibilità alla Corte costituzionale.
Le Camere cioè possono, se vogliono, esprimersi nell’esercizio di poteri istruttori officiosi; ma gli scostamenti da questo modello richiedono risposte differenziate, indirizzate da un organo propriamente giurisdizionale ai soggetti titolati a lamentare la lesione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita. Ciò soprattutto dopo che – con le sentenze 11-17 gennaio 2000, n. 10 e n. 11 – la Corte costituzionale ha affermato di poter valutare in concreto se una decisione assunta da una Camera abbia straripato dall’ambito di corretto utilizzo del potere attribuitole dalla Costituzione (in questo caso, dall’articolo 66 correttamente inteso, come procedura pleno iure giurisdizionale e rispondente alla «grande regola» dello Stato di diritto di cui alla sentenza 2 novembre 1996, n. 379).
Rientrano a tutti gli effetti nel giudizio che l’articolo 66 riserva attualmente alle Camere, infatti, anche le cause sopraggiunte di ineleggibilità, le cause di incompatibilità e del cause di decadenza, così come vi rientra il giudizio sulle cause originarie di ineleggibilità: “per l’effetto della scelta compiuta dai Costituenti, il giudizio sui titoli di ammissione degli eletti è quindi un giudizio parlamentare e di competenza esclusiva delle camere, le quali esplicano, con la verifica dei poteri, una competenza di natura giurisdizionale, che la Costituzione sottrae alla competenza della Magistratura ancorché le relative controversie ineriscano a diritti soggettivi di natura pubblica”6.
Ovviamente è forte il sospetto che, modificando radicalmente questo (obsoleto) sistema, non si intenda porre rimedio soltanto alle recenti, criticate decisioni delle Assemblee parlamentari, di capovolgimento non motivato delle proposte di decadenza dal seggio formulate dalle Giunte delle elezioni delle due Camere7, decisioni aggiuntesi all’antico malvezzo del non liquet. L’ulteriore – e forse prevalente – argomento sono i dubbi di costituzionalità che si addensano sulle modificazioni del 2005 alla legge elettorale delle due Camere. L’effetto dis-rappresentativo della legge elettorale sarebbe stato secundum ius se l’assegnazione di un premio di maggioranza fosse stata subordinata ad una soglia minima di voti o di seggi da dover raggiungere: esso però appare contra ius, in quanto la costituzionalità della norma sarebbe pregiudicata dal fatto di non prevedere che l’assegnazione di un premio di maggioranza operi previo superamento di una soglia minima di voti o di seggi da dover raggiungere.
Occorre evidenziare che il precedente specifico di questa normativa, introdotta con la legge n. 270/2005, si rinviene nella lontanissima legge 18 novembre 1923, n. 2444 (cosiddetta legge Acerbo), con la quale venne totalmente modificato il Testo Unico 2 settembre 1919, n. 1495 (T.U. della legge elettorale politica)8: antiche norme viziate da evidente incompatibilità con l’attuale ordinamento democratico. Al contrario, la legge n. 148 del 1953 non incontrava alcuna di tali obiezioni di legittimità costituzionale (al di là dell’opposizione di merito che scatenò, e che le meritarono l’appellativo di “legge truffa”) proprio perché conteneva una soglia: essa introdusse un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi.
Tutto ciò non si riscontra da noi, dal 2005: eppure, nonostante le lagnanze di pressoché tutto l’arco parlamentare, nessuna modifica è stata sin qui introdotta.

Si tratta di una previsione che – proprio su questo punto – è stata considerata assai problematica dalla Corte costituzionale già nella sentenza 16 gennaio 2008 n. 169: eppure il Giudice delle leggi ritenne di non pronunciarsi, perché in quel momento la sede non era quella del sindacato di legittimità costituzionale, dichiarando che vi sarebbe stata occasione per un giudizio quando la Corte costituzionale fosse stata investita per le vie ordinarie, cioè (stante il sistema dell’incidente di costituzionalità, necessitato nell’ordinamento italiano) ad opera dei “giudici comuni” (§ 6.1 della sentenza 16 gennaio 2008 n. 16) che ritenessero la questione non manifestamente infondata e rilevante ai fini della causa che fossero chiamati a risolvere.
In realtà, allo stato attuale della giurisprudenza, avanzare una doglianza in merito alla legge elettorale, nei termini di cui alla sentenza 16 gennaio 2008 n. 16, è impossibile. Se le “vie normali di accesso” alla Corte richiedono l’esistenza di un giudice remittente, in via incidentale rispetto ad un giudizio, tale non si considera nessuno degli organi dinanzi ai quali viene in rilievo l’applicazione della legge elettorale; ne fanno fede le ripetute dichiarazioni di inammissibilità pronunciate finora da tutti questi organi, che rendono nei fatti il sistema elettorale italiano unwilling or unable a provocare quel judicial review, che la stessa Corte costituzionale dichiara necessario esprimere su tale disposizione della legge elettorale.

Se le Camere svolgono in via esclusiva – ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione – una funzione giurisdizionale sulla verifica dei poteri, solo esse potrebbero in quella sede sollevare questione di legittimità costituzionale in sede di giudizio sui ricorsi contro gli atti del procedimento elettorale, rilevanti nel controllo dei titoli di ammissione dei componenti delle Assemblee parlamentari. Proprio per questo negli ultimi mesi è andata montando la polemica contro il corto circuito giuridico che, al di là dell’astratta configurabilità della questione di legittimità costituzionale sollevata in sede parlamentare10, in concreto rende impossibile il suo verificarsi11. Ecco perché s’impone il superamento della costante configurazione secondo cui gli uffici elettorali (anche quando siano organi composti da giudici) non si ritengono organi giurisdizionali. È una configurazione che è stata riconosciuta da ultimo12 dalla stessa Corte costituzionale, secondo cui (sentenza n. 259 del 2009) “la natura amministrativa dei controlli effettuati dall’Ufficio circoscrizionale e da quello centrale è stata affermata da questa Corte con giurisprudenza univoca, sul rilievo che la collocazione di detti organi presso le Corti d’appello e la Corte di cassazione «non comporta che i collegi medesimi siano inseriti nell’apparato giudiziario, evidente risultando la carenza, sia sotto il profilo funzionale sia sotto quello strutturale, di un nesso organico di compenetrazione istituzionale che consenta di ritenere che essi costituiscano sezioni specializzate degli uffici giudiziari presso cui sono costituiti» (sentenza n. 387 del 1996; conformi, ex plurimis, sentenze n. 29 del 2003, n. 104 del 2006, n. 164 del 2008). La natura giurisdizionale del controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell’art. 66 Cost., è pacificamente riconosciuta, nelle ipotesi di contestazioni, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, «quale unica eccezione al sistema generale di tutela giurisdizionale in materia di elezioni» (sentenza n. 113 del 1993)” (§ 2.2)13. La Corte, del resto, invocava a sostegno una giurisprudenza costante e uniforme della Corte di cassazione, che “ha escluso la giurisdizione del giudice ordinario, come di ogni altro giudice, anche sul procedimento elettorale preparatorio, ritenendo gli uffici elettorali di cui sopra «organi straordinari, temporanei e decentrati, di quelle stesse Camere legislative alla cui formazione concorrono, svolgendo una funzione contingente e strumentale, destinata ad essere controllata o assorbita da quella delle stesse Camere, una volta queste costituite»14” (§ 2.3). Si tratta anzi di posizione che è consacrata dalla Corte di cassazione nella sua veste di regolatrice dei conflitti tra le giurisdizioni: per Cassazione, sezioni unite civili, Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 8 aprile 2008, n. 9151, “questa Corte ha già avuto modo di affermare che ogni questione concernente le operazioni elettorali, ivi comprese quelle relative all’ammissione delle liste, compete in via esclusiva al giudizio di dette Camere, restando così preclusa qualsivoglia possibilità di intervento in proposito di qualsiasi autorità giudiziaria (sez. un. n. 8118 e n. 8119 del 2006). Non si ravvisano ragioni per discostarsi da tale orientamento (….) Alla stregua delle considerazioni che precedono questa Corte reputa, dunque, di dover dare continuità al proprio orientamento, confermando che né il giudice amministrativo né il giudice ordinario sono dotati di giurisdizione in ordine alla controversia di cui si tratta, ed in tal senso può parlarsi di difetto assoluto di giurisdizione15.
Su questo assunto, però, si è costruita una prospettazione che, nella fattispecie, confligge con la necessità16 di evitare la formazione di inaccettabili «zone franche», vale a dire di settori dell’ordinamento sottratti al controllo di costituzionalità. Si tratta della tesi secondo cui i predetti organi non sarebbero abilitati ad investire la Corte costituzionale17. Gli Uffici elettorali regionali hanno una consolidata prassi, in virtù della quale derivano l’inammissibilità di incidenti di costituzionalità dal loro configurarsi come organi meramente amministrativi, e non giurisdizionali18.
La giurisdizionalità dell’organo che decide sul contenzioso elettorale politico muterebbe radicalmente questo scenario, rendendo possibile sollevare la questione di legittimità costituzionale che da cinque anni si attende.

C’è chi è andata a chiederla a Strasburgo, la ragione che non trovava in Italia: ma la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (adita ai sensi dell’art. 3 del Protocollo 1 della C.E.D.U.) soffriva del limite della deferenza nei confronti del margine di apprezzamento degli Stati nazionali19, da cui quella Corte è astretta20. Proprio perché la Corte europea non ha mai preteso di dettare un sistema elettorale in luogo di un altro, essa informa il suo scrutinio allo standard secondo cui una misura non è legittima (e quindi diventa arbitraria) se non quando è strettamente necessaria; solo un “bisogno sociale imperioso” può giustificare le limitazioni portate dagli Stati alle libertà tutelate dalla CEDU o dai suoi Protocolli addizionali21. Il fatto che il legislatore italiano non abbia previsto alcuna soglia di consenso minimo per l’attribuzione del premio in questione induce la Corte europea a valutare analogamente se sia raggiunto un punto d’equilibrio tra i due principi di rappresentatività e di governabilità22: nella fattispecie, “la Cour estime que la discipline des primes à la majorité fixée par la loi italienne ne saurait être reconnue contraire aux exigences de l’article 3 du Protocole no 1, dans la mesure où ladite disposition oeuvre afin de favoriser les courants de pensée suffisamment représentatifs et la constitution de majorités suffisamment stables dans les assemblées. Par conséquent, tout comme pour le grief précédent, la Cour ne voit aucune apparence d’une atteinte à «la libre expression de l’opinion du peuple sur le choix du corps législatif »23.
L’impasse potrebbe ora risolversi mercé la modifica costituzionale proposta dai “saggi”, che darebbe “fiato” alla legislatura consentendo ad un organo giurisdizionale di decidere da organo terzo, e, per ciò stesso, eventualmente atteggiandosi come giudice a quo. Del resto, la cosa non è inedita: in Germania il Bundesverfassungsgericht (la Corte costituzionale tedesca) con sentenza del 3 luglio 2008, ha dichiarato incompatibili con l’art. 38 comma 1del Grundgesetz24 alcune disposizioni della legge elettorale federale per la scelta dei membri del Bundestag (Bundeswahlgesetz). L’Überhangmandat, ovvero il mandato in soprannumero, è il meccanismo25 che è stato ritenuto in violazione del principio dell’uguaglianza del voto e di quello del suffragio diretto: esso, di fatto, non dà a tutti i partiti la possibilità di competere sullo stesso piano. Anche la nuova legge26 è stata dichiarata incostituzionale il 25 luglio 2012: la medesima Corte costituzionale federale ha dichiarato che «viola il principio d’uguaglianza e la garanzia di pari opportunità per i partiti garantita dalla Costituzione» un meccanismo che continua a modificare il risultato delle elezioni politiche in favore, soprattutto, delle formazioni politiche più grandi.
Ma, a ben vedere, potrebbe non essere neppure necessario arrivare a tanto. In questi giorni si è in attesa “di due pronunce giurisdizionali della Prima Sezione della Cassazione introitata il 21 marzo e del TAR Lazio sez. 2-bis introitata il 4 aprile”27 2013 in cui i medesimi ricorrenti dei precedenti tentativi chiedono ai giudici di sollevare la questione di legittimità costituzionale del Porcellum.
Ecco quindi che si torna a Roma: quale che sia la parte di piazza del Quirinale in cui la decisione finale sarà presa, il ripristino delle distinzioni di ruolo s’impone. Al giudice competerà decidere il caso concreto, dando ragione o meno ai ricorrenti che lamentino violazioni di legge nelle operazioni elettorali o nei titoli degli eletti; alla sede politica – in cui arriva la legittimazione popolare – si consegna il mandato di affrontare e risolvere il primo dei problemi della governance nei sistemi democratici: come si scelgono gli eletti.

1 La stessa citata sentenza della Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 8 aprile 2008, n. 9151 ritiene che “innegabilmente si tratta di una funzione giurisdizionale, da intendersi non in senso stretto, attesa la natura affatto speciale dell’organo cui è demandata (per cui in dottrina vi è chi ha parlato al riguardo di “controllo costituzionale di legittimità” o anche, icasticamente, di “giustizia politica”). Lo si desume anche dai lavori dell’Assemblea costituente in cui furono scartate opzioni volte a prevedere forme di controllo giurisdizionale in senso stretto, affidate a tribunali a composizione mista (giudici e parlamentari) o alla Corte di cassazione in composizione speciale, e prevalse invece l’intento di assicurare in massimo grado l’autonomia e l’indipendenza del Parlamento rispetto al rischio di possibile interferenza di altri poteri: sicché si preferì confermare in proposito l’impostazione dello Statuto albertino”.
2 I dubbi sulla conformità con l’articolo 6 § 1 CEDU parvero fugati dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo (con decisione 19 gennaio 1998, Ricci contro Repubblica italiana, ritenne inammissibile il ricorso che lamentava la violazione dell’articolo 6 della CEDU per l’assenza di un giudice terzo ed imparziale nella disciplina del reclamo avverso elezioni svolte in modo ritenuto non regolare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con pronuncia di inammissibilità della seconda sezione 13 marzo 2012 nel caso Saccomanno ed altri contro Italia, però si limitò a sostenere che “il diritto di voto in un’elezione è un diritto a carattere politico” non rientrante tra quelli (civile o penale) tutelati dall’articolo 6 della CEDU.
3 La dichiarazione del Consiglio dell’Unione interparlamentare resa a Parigi il 26 marzo 1994 prescrive tassativamente che al rigetto o alla limitazione di candidatura si applichi la possibilità di appello ad una giurisdizione competente a decidere prontamente (Declaration on criteria for free and fair elections, § 4(6)). Non soltanto tale prescrizione è confluita nel Codice di buona pratica elettorale stilato dalla European Commission for Democracy through Law (Venice Commission, allora presieduta da Antonio La Pergola): si tratta anche di materiale normativo che orienta le determinazioni di organi internazionali, anche di tipo giurisdizionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ad esempio giudicato il contenuto di quel Codice come rilevante per la sua recente giurisprudenza (sentenza 11 gennaio 2007, Russian conservative party of entrepreneurs and others v. Russia), sia perché consacrato nella risoluzione 1320 (2003) adottata il 30 gennaio 2003 dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sia perché oggetto di una dichiarazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 13 maggio 2004. È quindi tutt’altro da escludere che esso possa orientare l’interpretazione della Corte, nella valutazione del rispetto degli obblighi assunti con la ratifica della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dei suoi Protocolli addizionali (legge 4 agosto 1955, n. 848) e dell’articolo 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa: non a caso tale materiale normativo è abbondantemente citato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 6 novembre 2012 (Ekoglasnost contro Bulgaria).
4 Così riportato nella relazione del disegno di legge costituzionale n. 1179 della XVI legislatura del Senato. La doglianza fu reiterata nel Rapporto 5 settembre 2008 della Missione di valutazione dell’OSCE/ODIHR, di cui dà conto la Delegazione presso l’assemblea parlamentare dell’OSCE (proposta del deputato Mantini, pubblicata in Camera dei deputati, XVI legislatura, Bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari n. 146, 4 marzo 2009, allegato, Considerazioni della Delegazione Italiana presso l’OSCEPA sul rapporto della missione di valutazione delle elezioni parlamentari in Italia, 13 e 14 aprile 2008): “Altra criticità sollevata dall’OSCE/ODIHR è quella relativa alla mancata previsione, nelle elezioni politiche italiane, della possibilità da parte dei candidati di presentare reclami su ogni aspetto delle operazioni elettorali a un tribunale competente. Oltretutto, «la Commissione per la Democrazia, attraverso il Diritto del Consiglio d’Europa nel Code of Good Practice in Electoral Matters 2002 (Codice di Buone pratiche per le questioni elettorali 2002), ha dichiarato che: « gli organi d’appello sulle questioni elettorali dovrebbero essere o una commissione elettorale o un tribunale. Per gli appelli al Parlamento, un appello al parlamento dovrebbe essere possibile in prima istanza. In ogni caso, deve essere possibile l’appello finale a un tribunale». Conseguentemente, l’OSCE/ODIHR, suggerisce che «la legge elettorale dovrebbe prevedere la possibilità di un appello a un tribunale per le decisioni prese dal Parlamento in merito ai risultati e ai reclami post-elettorali».” Per le considerazioni più generali espresse dall’OSCE come condizione di regolarità della competizione, cfr. OSCE, “Existing Commitments for Democratic Elections in Osce Participating States”, Varsavia, 2003, consultabile alla URL ((http://www.osce.org/documents/odihr/2003/10/772_en.pdf)), nonché punto d. dell’ODIHR Election observation handbook ( fourth edition, april 1999, Warsaw).
5 In riferimento alle regioni, la Corte costituzionale stessa ha fortemente stigmatizzata tale metodica: «Si tratta di una normativa evidentemente incongrua: non assicura la genuinità della competizione elettorale, nel caso in cui l’ineleggibilità sia successivamente accertata; induce il cittadino a candidarsi violando la norma che, in asserito contrasto con la Costituzione, ne preveda l’ineleggibilità; non consente che le cause di ineleggibilità emergano, come quelle di incandidabilità, in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali» (Corte costituzionale – sentenza 22 febbraio-3 marzo 2006, n. 84).
6 V. parere reso da una commissione speciale del Consiglio di Stato, prot. n. 1052/2000 sez. I, previa udienza del 25 ottobre 2000.
7 v. G. Buonomo, Problematiche applicative dei regolamenti di verifica dei poteri delle due Camere, in Il Filangieri – Quaderno 2007 dell’Associazione per le ricerche e gli studi sulla rappresentanza politica nelle assemblee elettive (ARSAE), Jovene, 2008, p. 441.
8 Gli articoli dal 40 in poi vennero completamente sostituiti (“Il numero dei deputati per tutto il regno è di 535. Tutto il regno forma un collegio unico nazionale, ……”), e con l’inserimento dell’art. 84/bis venne disposto, al secondo comma, che “(omissis) …. l’ufficio centrale nazionale: “1° procede alla somma. di tutti i voti ottenuti dalle singole liste in tutto il regno; “2° verificata quale sia la lista che abbia raggiunto il venticinque per cento dei voti validi ed abbia ottenuto il maggior numero di voti in tutto il collegio nazionale, attribuisce ad essa i due terzi del numero totale dei deputati, cioè 366, e proclama eletti, in ogni circoscrizione, tutti i candidati contenuti nella lista medesima secondo l’ordine dato dai voti di preferenza ottenuti (omissis)…”.
9 La Corte costituzionale vi afferma, sia pure incidenter tantum, che l’impossibilità di dare, in sede di ammissibilità referendaria, un giudizio anticipato di legittimità costituzionale, non esime tuttavia dal dovere di segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione “gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi”. L’osservazione si ritrova nella coeva sentenza 15/2008 ed è poi citata dalla sent. 13/2012, non a caso anch’esse rese in sede diversa da quella del giudizio di costituzionalità (anch’esse avevano ad oggetto l’ammissibilità di quesiti referendari).
10 Esclusa – proprio in relazione alla dedotta incostituzionalità della norma che prevede l’attribuzione del 55% dei seggi alla lista o coalizione di liste che ottenga il maggior numero di voti e non subordinando detta assegnazione al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi – dalla delibera della Giunta delle elezioni della Camera dei Deputati che, il 17 giugno 2009, ha dichiarato inammissibile l’esposto dell’elettore Ragusa. A motivo dell’inammissibilità la Giunta delle elezioni ha così precisato: “Vertendo la verifica dei poteri sulle operazioni elettorali che hanno ad oggetto i voti effettivamente espressi (in quanto tradottisi nel deposito della scheda di voto nell’apposita urna) e non già sulle motivazioni che possono aver indotto taluno degli elettori a non esprimere il proprio voto, la protesta del signor Ragusa non poteva che essere giudicata irrilevante ai fini della verifica dei risultati elettorali e come tale è, infatti, stata trattata in occasione della richiamata verifica dei poteri a livello circoscrizionale”. Con riguardo alle censure di incostituzionalità la Giunta della Camera ha ribadito, secondo prassi costante, che “né la Giunta delle elezioni né l’Assemblea della Camera dei deputati possono qualificarsi come giudici a quo ai fini della eventuale rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale riferite alla legge elettorale o a sue singole disposizioni in quanto difetta in capo ai medesimi organi parlamentari il requisito della terzietà che solo contraddistingue le autorità giurisdizionali propriamente dette”. In verità, l’altro ramo del Parlamento in via astratta opera diversamente, ponendo ai voti le questioni di legittimità costituzionale che dovessero insorgere nel corso della verifica dei poteri: “va ricordato infine che l’antica questione della configurabilità della Giunta delle elezioni come giudice a quo è stata risolta per la positiva dal Senato, come dimostra l’accurata ed esaustiva disamina reperibile in Senato della Repubblica, XV legislatura, Giunte e Commissioni, 21 gennaio 2008, pp. 62-74” (v. Legislatura 16ª – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 44 del 03/11/2009). Eppure anche in questa occasione, come in tutte le precedenti ivi citate, la proposta, pur posta ai voti, fu respinta, il che è stato poi anche addotto tra gli argomenti (eminentemente di rito) per dichiarare superato l’esposto Ragusa specularmente proposto anche in Senato (v. Legislatura 16ª – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 44 del 03/11/2009).
11 Per la quale v. Alessandro Oddi, Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi – Il procedimento in via incidentale. La nozione di giudice a quo, Genova, 10 marzo 2006, reperibile alla URL ((http://www.giurcost.org/studi/oddi.html)): “Un caso di particolare interesse – che tuttavia non è mai giunto, finora, all’esame della Consulta – è quello della Giunta delle elezioni in sede di verifica dei poteri ai sensi dell’art. 66 Cost..Va da sé che riconoscere a tale organo la qualifica di giudice a quo consentirebbe di sottoporre al vaglio della Corte costituzionale – a differenza di quanto accade oggi – le leggi elettorali relative alle due Camere: sia nella parte in cui disciplinano il sistema ed il procedimento elettorale, sia nella parte in cui prevedono cause di ineleggibilità e di incompatibilità. (…) Sennonché, sarebbe ingenuo non fare i conti con la realtà. È innegabile, infatti, che la verifica dei poteri, a prescindere dalle formalità con cui si svolge, assume inesorabilmente – per il solo fatto di essere affidata ad un organo parlamentare – una connotazione squisitamente politica, con tutto ciò che ne consegue (anche in termini di abusi, come l’esperienza insegna). In altre parole, qui il problema sta non tanto nella possibilità di individuare un «giudice» ed un «giudizio», sia pure ai soli fini della proposizione di una quaestio legitimitatis, quanto piuttosto nella intrinseca mancanza, in capo alla Giunta, di quella neutralità e di quella indifferenza rispetto agli interessi in gioco che costituiscono un presupposto indefettibile affinché un organo comunque qualificabile come «giudicante» possa effettivamente essere indotto a rivolgersi alla Corte costituzionale”.
12 Fugando i dubbi lasciati in precedenza: una sentenza di inammissibilità (Corte Costituzionale, 20 novembre 2000, n. 512) motivava solo con l’incertezza su quale sarebbe il giudice competente se la competenza delle Camere fosse caducata.
13 V. anche, per un caso di elezione diversa da quella dei parlamentari nazionali, la citata sentenza n. 104 del 2006: “il procedimento per l’elezione (…), culminante nell’atto di proclamazione dei candidati eletti, è configurato dalla legge come un procedimento amministrativo, benché ad esso presiedano uffici costituiti presso organi giurisdizionali”.
14 Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 31 luglio 1967, n. 2036; conformi, ex plurimis, sezioni unite civili, sentenze 9 giugno 1997, n. 5135; 22 marzo 1999, n. 172; 6 aprile 2006, n. 8118 e n. 8119; 8 aprile 2008, n. 9151, n. 9152 e n. 9153.
15 Tale posizione è confortata dalla giurisprudenza dell’autorità giudiziaria amministrativa (“L’ufficio centrale nazionale preposto al riscontro dell’operato dell’ufficio ministeriale in materia di elezioni politiche non può considerarsi organo terzo rispetto alle parti in lite; pertanto si deve escludere la sua natura giurisdizionale”: T.A.R. Lazio, sez. I, 25 marzo 1996, n. 457, in T.A.R. 1996, I,1190) e da quella dell’autorità giudiziaria ordinaria (Pretura Napoli, 4 aprile 1992, in Giur. it. 1993, I,2, 20 con nota Mutarelli). Anche con la sentenza 1855/2008 il TAR del Lazio ha “dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione” il ricorso 1616/2008 proposto da Aldo Bozzi ed altri, mirante all’annullamento degli atti di convocazione dei comizi e di assegnazione dei seggi per la Camera ed il Senato per le elezioni del 2008, con il fine di trasmettere gli atti alla Corte di legittimità delle leggi per le questioni incidentalmente sollevate; il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza con ordinanza 11 marzo 2008.
16 Enunciata dalla Corte costituzionale sin dai suoi esordi: nella sent. 129/1957 la Corte sostenne l’argomentazione secondo cui «la proponibilità alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale dipenda non dalla qualificazione del procedimento in corso, ma dalla circostanza che il giudice (contenzioso o volontario che sia il processo) ritenga fondato il dubbio della legittimità costituzionale della legge che egli deve attuare. Del che, del resto, è riprova la inaccettabile conseguenza dell’opposta interpretazione, che sarebbe quella di un giudice costretto (incompetente come egli è a giudicare della costituzionalità della legge) ad applicare una legge, rispetto alla quale egli ritiene manifestamente fondata la questione di legittimità costituzionale». Nella medesima direzione, v. le sentenze nn. 121/1966, 226/1976, 406/1989 e 384/1991.
17 Cfr. Coll. centr. gar. elettorale, 26 maggio 2001: “Nella fase della procedura elettorale che si svolge, ai fini della ripartizione dei seggi in base alla cifra elettorale nazionale di ciascuna lista, davanti all’ ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte di cassazione, non sono previsti subprocedimenti contenziosi, né poteri decisori del medesimo in ordine ai ricorsi, reclami o domande di parte; ne consegue pertanto che in tale sede, mancando un giudizio davanti ad un’autorità giudiziaria, non è configurabile la delibazione di questioni di legittimità costituzionale, né è possibile la disapplicazione in via incidentale di atti regolamentari ritenuti illegittimi”; in Foro it. 2001, I,1830.
18 In un caso recente (ultime elezioni per il Senato), l’Ufficio elettorale regionale per la Campania ha espressamente respinto la richiesta – avanzata da un ricorrente in sede di reclamo contro le determinazioni del medesimo Ufficio in sede di proclamazione degli eletti al Senato – volta a sollevare questione di legittimità costituzionale contro la legge elettorale. Nella fattispecie, il reclamo dichiarato inammissibile dall’Ufficio regionale era proprio in ordine al meccanismo di trasformazione dei voti in seggi: cfr. Senato della Repubblica, Legislatura 16ª – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 33 del 20/05/2009, intervento dei senatori Orsi e Sanna (“ricorda come gli Uffici elettorali regionali qualifichino se stessi come uffici amministrativi e che la natura giurisdizionale – necessaria per essere giudice a quo – è stata negata proprio dall’Ufficio partenopeo nel respingere la doglianza di Scotti”) e Legislatura 16ª – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 37 del 01/07/2009, intervento del relatore Mercatali (“l’assunto dell’Ufficio regionale campano in ordine alla sua natura meramente amministrativa”).
19 In conformità ad una consolidata giurisprudenza: Federación nacionalista Canaria c. Espagne (déc.), n. 56618/00, CEDH 2001-VI, Tête c. France, n. 11123/84, Commission 9 dicembre 1987, Décisions et rapports (DR) 54, p. 52, Fournier c. France, n. 11406/85, Commission 10 marzo 1988, DR 55, p. 130, et Magnago et Südtiroler Volkspartei c. Italie, n. 25035/94, Commission 15 aprile 1996, DR 85, p. 112).
20 Il fatto che la decisione 13 marzo 2012, di inammissibilità nel caso Saccomanno, esprima rigorosa deferenza della Corte europea nei confronti del margine di apprezzamento dello Stato italiano, non significa che la frattura o l’alterazione del doveroso equilibrio tra interesse generale ed i diritti dei singoli non possa essere all’origine di una declaratoria di violazione, viste quelle già pronunciate dalla Corte europea in ambiti in cui in astratto gli Stati disporrebbero di ampia discrezionalità (come è pure quella elettorale: cfr. Matthews v. the United Kingdom [GC], n. 24833/94, § 64, ECHR 1999-I, nonché nella citata decisione Valentin Gorizdra v. Moldova, quarta sezione, n. 53180/99, 2 luglio 2002).
21 A partire dalla decisione dell’allora Commissione europea dei diritti umani nel caso X. v. Austria (rec. 7008/75, dec. 12 July 1976 di irricevibilità, in D.R. 6 p. 120), si è precisato che le condizioni poste dagli Stati per disciplinare la materia elettorale possono comportare “certain limitations to the right to vote and to stand as a candidate as long as they are not arbitrary and do not infringe the free expression of the opinion of the people” (in D.R. 6 p. 121).
22 La disamina comparatistica dei sistemi elettorali degli Stati membri del Consiglio d’Europa porta la Corte ad individuarne solo tre che – oltre all’Italia – contemplano premi di maggioranza espliciti (Malta, Grecia e San Marino); mai su di essi s’è pronunciata, mentre tra quelli a premio implicito la citata sentenza Yumak et Sadak (§§ 61 et 63) ha dichiarato compatibile con la Convenzione lo sbarramento minimo al 10% esistente in Turchia a livello nazionale, sia pur dotato di determinati correttivi, in ragione del contemperamento dei principi di rappresentatività e di governabilità.
23 Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 13 marzo 2012, §75.
24 «I deputati del Bundestag sono eletti a suffragio universale, diretto, libero, uguale e segreto. Essi sono i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandati né da direttive e sono soggetti soltanto alla loro coscienza».
25 Disciplinato dalla sezione 7, § 3, frase 2 in connessione con la sezione 6, §§ 4 e 5 della legge elettorale: qualora i vincitori di un partito nei collegi uninominali, in un determinato Land, siano in numero maggiore rispetto ai seggi assegnati a quel partito in quel determinato Land, a quel partito sono assegnati anche i seggi di quei candidati, con il risultato che aumenta il numero dei deputati di quel partito a livello nazionale e, di conseguenza, anche il numero dei membri totali del Bundestag.
26 Che continuava a prevedere che, quando un partito ottiene più voti per i singoli candidati, rispetto al numero di seggi che avrebbe dovuto ottenere sulla base della percentuale dei voti di lista, ha diritto a un numero in più di seggi per colmare la differenza, che vengono aggiunti al totale.
27 v. ((http://www.gruppodivolpedo.it/piazza-quarto-stato/governo-presidente-e-dintorni-di-felice-besostri/))

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