TRENTO. È un magistrale doc in progress, un insieme di particolarissimi tasselli che danno vita a una singolare esposizione collettiva. Le Dolomiti sono lo scenario, o meglio la scena sulla quale prendono forma le linee di salita, percorsi studiati, analizzati e ripetuti mentalmente e ossessivamente fino alla prova sul campo, quella che può decretare  la conquista della vetta attraverso la nuova strada, il percorso mai effettuato in precedenza.
Ora provate a immaginare la “via” creata da uno scalatore come un segno, un tratto ascensionale nella materia più ruvida e compatta che si conclude nella rarefazione dell’aria se non addirittura fra le nuvole, moltiplicate per quanti – nelle ultime tre generazioni – sono riusciti a percorrere fino in fondo una propria strada e comprenderete com’è stato concepito DoloMitiche Opere d’arte a cielo aperto…, il progetto documentaristico ideato e realizzato da Alessandro Beber presentato al Trento Film Festival in corso fino all’8 maggio.

B.jpegBeber non si è limitato a intervistare il folto gruppo di scalatori che ha lasciato il segno sulle pareti rocciose del massiccio dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, il 27enne alpinista-documentarista ha pensato di ripercorrere personalmente quelle vie originalmente sperimentate dai colleghi a cui ha voluto rendere omaggio. A volte ad accompagnarlo nelle scalate sono proprio i protagonisti che si cimentano di nuovo – anche a distanza di tanti anni – nell’arrampicata.
La scalata, da questo punto di vista, diventa una sorta di partitura che va studiata per comprenderne l’approccio, la concezione e le scelte di chi per primo si è cimentato per far fronte alle altissime difficoltà e ridurne al minimo i rischi. Ripercorrerne la “via” diventa come un’esecuzione. La passione per la montagna e la volontà di misurarsi in percorsi spesso estremi sono gli elementi che accomunano questo gruppo caleidoscopicamente eterogeneo per età, per mentalità di preparazione alle scalate, per stili adoperati. Beber li interroga e li ascolta, li fa parlare riuscendo agilmente a superare quelle chiusure caratteriali che talvolta contraddistinguono gli uomini di montagna avvezzi alle scalate in solitaria. All’Auditorium Santa Chiara, con il direttore di Meridiani Montagne, Marco Albino Ferrari, Beber fa di più: ne mette assieme una trentina riuscendo a far emergere le individualità e al tempo stesso a smussarne abilmente le ruvidità. Il risultato è una serata intensa e avvincente, uno degli avvenimenti principali della 61esima edizione del Trento Film Festival da sempre attento al cinema “d’alta quota” declinato in tutte le sue forme, dalla fiction al documentario, agli incontri (con Erri De Luca e Reinhold Messner, per citarne un paio al di là di tutti i registi presenti), ai reading (molto interessante quelli tratti dai racconti di montagna di Primo Levi, Dino Buzzati, Michael Crichton e Bruce Chatwin), alle mostre; senza dimenticare l’ampia retrospettiva dedicata a un Paese ospite, quest’anno la Turchia, curata e presentata da Sergio Fant, responsabile del programma del festival.

dolomit

I tasselli del documentario

Il progetto messo a punto è sistematico e al tempo stesso duttile (http://www.visittrentino.it/dolomitiche). Beber presenta il film, ma lascia allo spettatore la possibilità di creare un proprio percorso “montando” a scelta i tasselli. Sono 29 i filmati già realizzati, ognuno di circa 5/12 minuti che possono essere visti sul sito http://www.youtube.com/playlist?list=PLD16DF57AF7D78CE7 e assemblati liberamente.
L’epopea alpinistica nelle Dolomitiracconta Beber inizia verso la metà dell’Ottocento, con le prime scalate ad opera di avventurosi gentlemen inglesi, accesi dagli ideali di un neonato Romanticismo. Sono loro a inaugurare l’esplorazione sistematica dei diversi massicci e la fruizione in chiave “ludica” di queste montagne, tracciando la strada per le generazioni successive. Da lì in poi in molti si cimenteranno sulle rocce dei “Monti Pallidi”, stregati dall’impressionante verticalità di torri e pilastri; ognuno porterà con sé stili e mentalità peculiari che costituiscono uno specchio fedele dei diversi periodi storici e dei rispettivi fermenti culturali, e ne lascerà testimonianza con le proprie imprese.
Ecco così che tra le pieghe delle pareti si è andato via via accumulando (ed ancora si arricchisce ad ogni nuova stagione) un immenso archivio, costituito dalle linee immaginate e realizzate dagli arrampicatori di ogni epoca. Pagine fatte di sogni, fatiche, aspirazioni, ma soprattutto di tante storie da raccontare”.


beber dolLa vie dei maestri

Tra i protagonisti più anziani spicca Cesare Maestri, classe 1929, soprannominato il “Ragno delle Dolomiti” per essere riuscito negli anni del secondo dopoguerra a inanellare una serie impressionante di prime solitarie aprendo diversi itinerari spettacolari. “Si tratta”, ricorda Beber, “di realizzazioni che richiedevano grandi doti atletiche e resistenza fisica, che negli ultimi anni hanno conosciuto nuova fortuna grazie a molti che ne tentano la salita in completa arrampicata libera”. Quella che Beber ripercorre e mostra nel documentario è la via “Maestri” sulla Cima della Farfalla nel Brenta Centrale aperta da Maestri e Carlo Claus nel luglio del 1967. Alla stessa generazione appartengono anche Armando Aste che ha lasciato la firma su buona parte delle pareti più significative del massiccio, tracciandovi itinerari che ancora oggi costituiscono dei severi banchi di prova per le nuove generazioni (sua è la via “Rovereto” sullo Spallone del Campanil Basso nel Brenta Centrale, aperta assieme ad Angelo Miorandi nel settembre 1961, ripercorsa nel filmato) e il brillante Dietrich Hasse, natìo di Dresda, classe 1933, studioso di geologia che nel 1959 con Sepp Schrott aprì una via sulla parete Sud della Torre Innerkofler (Sassolungo) e un’altra sulla parete Nordovest della Torre Delago (Vajolet), un itinerario di 700 metri, nel pieno sviluppo di quel VI grado da lui iniziato sulla Cima Grande di Lavaredo, utilizzando il chiodo a pressione in quantità minime per il superamento di brevi tratti altrimenti impraticabili (sua è anche la via “Steinkötter/Hasse” sulla Cima bassa d’Ambiez nel Brenta Meridionale aperta con Heinz Steinkötter nel 1971, presentata nel documentario e visibile in allegato).
Reinhold Messner, uno dei principali e più convinti sostenitori di uno stile di arrampicata che non utilizzi ausili esterni per non invadere le montagne, il primo ad aver scalato tutte le 14 cime che superano gli 8.000 metri di altezza, racconta come ha concepito la via “Messner” sulla Cima della Madonna nelle Pale di San Martino
percorsa assieme al fratello Günther nell’ottobre 1967.
Maurizio Zanolla, detto Manolo e soprannominato il Mago, classe 1958, uno dei pionieri dell’arrampicata libera in Italia ha aperto e liberato vie lunghe di alta difficoltà come “Cani Morti” sulle Pale di San Martino con Riccardo Scarian nel 2004 e “Solo per vecchi guerrieri” sulle Vette Feltrine nel 2006, ripercorre la via “Prigionieri di Bisanzio” sulla Cima del Conte sempre sulle Pale di San Martino aperta con Paolo Loss nel 1981.
Si susseguono gli scenari, migliorano le attrezzature, cambiano le tecniche. Graziano Maffei e Paolo Leoni raccontano come hanno aperto la via “dei 5 Muri” sulla Piramide Armani nella Vallaccia nel’agosto del 1986; Nicola Tondini, uno dei rappresentanti di spicco della nuova generazione di alpinisti estremi, illustra invece “Il Canto del Magnificat”, la via aperta sul Sass Pordoi nel Gruppo del Sella dieci anni fa. Qualcuno scala col trapano, altri preferiscono i chiodi da fissare nella roccia picchiando per circa dieci minuti col martello e soltanto “in caso di necessità”. Le linee dolomitiche si accrescono, si intrecciano, ma sembrano ancora tutt’oggi infinite.

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